29 agosto 2012

Proust. Una sceneggiatura (Harold Pinter, 1977): 2/3 Pinter, la sceneggiatura

Vecchi tempi è già la sceneggiatura di un film e non c’è da meravigliarsi perché Pinter è stato anche un grande sceneggiatore e molti screenplay portano la sua firma (il servo, L’incidente, Messaggio d’amore, La donna del tenente francese, Sleuth –  Gli insospettabili). Ho trovato molto interessante rileggere nello stesso giorno  Vecchi tempi e la sceneggiatura sulla Recherche scritta da Pinter per un film di Joseph Losey mai realizzato. Quel passato “riformato” dal ricordo (o addirittura inventato o accomodato per giungere a un’epifania che illumini tutta la massa informe di dati) lega a modo con la capacità del cinema di comunicare un senso compiuto da una giustapposizione parcellizzata di sequenze e quadri di per sé informi, incoerenti. Così come il ricordo serve a dare un senso al passato (senza la ricostruzione della memoria sarebbe un mondo vuoto), il cinema si adopra per conferire l’illusione di un organismo unitario dalla giustapposizione di dati incompleti e pieni di buchi (ellissi, campi e piani).  La falsità dell’evento è palese, eppure l’arte (il cinema) agisce profondamente come la memoria involontaria, deve cogliere quel movimento “intermittente” diretto “verso la rivelazione” da veder crescere “verso un punto in cui il tempo perduto è ritrovato per sempre nell’arte” (1). Questo movimento intermittente deve contrastare con un altro principio primario, un “movimento, essenzialmente narrativo, verso la disillusione” (2). Questi i propositi di Pinter per ridurre quella mole infinita di descrizioni, storie, riflessioni, illuminazioni qual è “La Recherche” (3). Confesso di aver compreso meglio il senso di Vecchi tempi dopo aver letto la riduzione scritta per il lungometraggio di Losey. Se si legge Vecchi tempi come una sceneggiatura risulta chiaro il motivo per cui Pinter abbia contestato con tutte le sue forze l’operazione portata avanti da Visconti nel 1976. Il lavoro del drammaturgo inglese si compone e ricompone andando a formare un plot uniforme solo se si accetta l’ incertezza dei dati, l’impalpabile leggerezza degli eventi che non devono essere recepiti come dati dominanti (non sono interessato alle gambe di Anna che si baciano sul divano oppure a “rivedere” la biancheria intima di Kate indossata anche da Anna), ma presi come componenti del mondo, tali e quali a dati sibillini che l’arte recupera per fissare come testo simbolo al fine di definire nuove reminiscenze (il lettore che si immedesima e/o ricostruisce tutto un suo mondo più o meno reale, più o meno immaginario). Questa passione cara a Pinter non poteva che animarlo e indurlo a leggere tutta la Recherche per ridurre l’opera di Proust in una sceneggiatura di poche pagine, un lavoro immane durato un anno, tanto appassionante da indurlo a scrivere: “L’anno in cui ho lavorato Alla ricerca del tempo perduto è stato il miglior anno di lavoro della mia vita” (4). Leggendo  Proust. Una sceneggiatura si rimane affascinati dai continui salti temporali che vanno dall’infanzia di Marcel al 1921, quando il narratore della Recherche è ormai più che quarantenne. Questo modo di procedere che ci mostra Marcel bambino, poi adulto, poi adolescente, e così via, era forse il modo migliore per affrontare un’opera immensa e sicuramente molto complessa da trasformare in un film. La sceneggiatura è molto frammentata e di non facile comprensione per chi non conosca la Recherche, ma al tempo stesso originale base di lancio per un film che avrebbe dovuto portare il peso scomodo di rappresentare un’opera di tali proporzioni. Ritengo che Pinter abbia deciso di “affidare” un ruolo preponderante alle continue e numerose analessi e prolessi, trasportando il lettore in un viaggio che definirei ipertestuale. La fabula (inquadrature viste in ordine logico e cronologico) non è ordinata cronologicamente (mi si scusi la tautologia)  ma è senz’altro organizzata con coerenza dal punto di vista della “disillusione”; la tensione drammatica raggiunge la punta massima via via che il cammino di conoscenza di Marcel diventa pressante e non importa se questo avviene nell’adolescenza o in piena maturità. Ciò che importa è che il “ricordo” (il soggetto dell’opera insieme al Tempo) segua il suo percorso di accrescimento evidenziando la sensazione di un vuoto totale per cui il tempo perduto per sempre e irrecuperabile non viene comunque smarrito ma rivelato. Ebbene, come afferma Pinter, è l’intermittenza di questo movimento ad approdare alla rivelazione, alla conoscenza del tempo perduto “ritrovato e fissato per sempre nell’arte”. Sarebbe stato interessante notare gli sviluppi di questa idea nelle immagini in movimento, se fosse stato possibile realizzare il film. Certamente poi Losey avrebbe imposto il suo ruolo di regista individuando nella sceneggiatura pinteriana le riprese da effettuare, le inquadrature, i campi ecc, ossia costruendo il suo découpage. Ma comunque, anche se l’opera non è stata realizzata, rimane questo lavoro che lascia ammirati per la chiarezza e la semplicità con cui è stata ridotta la saga dei vari Guermantes, Swann e Verdurin. Questa “uscita dal tempo” (il profumo delle madeleine, il pavimento irregolare, il rumore causato da un cucchiaio posato sul piatto), questa sensazione di tempo ritrovato e fissato dall’arte per sempre accomuna i due lavori di Pinter: emerge pertanto l’idea che il ricordo frammentario restituisca in un’epifania improvvisa il sapore di un tempo passato ritrovato nel presente, formando una sorta di limbo extratemporale. A questo proposito risulta illuminante la sequenza della morte di Albertine. Nel romanzo Marcel, tornato a Parigi con Albertine per aver saputo dei rapporti omosessuali della sua amata con la signorina Vinteuil (Sodoma e Gomorra), diventa preda della gelosia e accusa la ragazza di avere avuto relazioni omosessuali impedendole di uscire di casa. Albertine, non sopportando più la reclusione, abbandona Marcel (La prigioniera), ma fuggendo muore in un incidente a cavallo (La fuggitiva). Ecco una sintesi di come Pinter ha trascritto l’evento nella sua sceneggiatura:

290. Interno. Scale.
Marcel Sale le scale con i fiori. Alza lo sguardo. Andrée esce dalla porta dell’appartamento.
Marcel Come, già di ritorno?
Andrée Siamo appena arrivate. Albertine voleva scrivere una lettera, e così l’ho lasciata sola.
Marcel Una lettera? A chi?
Andrée A sua zia
Marcel Peccato che abbiate chiuso la porta. Ho dimenticato la mia chiave. Françoise è in casa?
André È andata a fare la spesa. È lillà, vero?
Marcel Sì.
Andrée Albertine detesta il lillà. Per via del profumo. Troppo forte.
Marcel Davvero? Non lo sapevo.
Andrée Il profumo è opprimente. Beh, arrivederci.
Scende le scale
Marcel suona il campanello.
La porta è aperta immediatamente, da Albertine.
L’ingresso è buio.
Albertine Lillà! Oh! (Fugge nell’ingresso).
Marcel Li porterò in cucina
[…]
292. Interno. Camera da letto di Marcel
Albertine è sdraiata sul letto.
Marcel Scusami. Non sapevo che detestassi i lillà.
Albertine È il profumo, nient’altro. È troppo forte. Probabilmente ti è rimasto addosso. Non avvicinarti troppo, finché non è svanito.
[…]
294. Interno. Camera di Albertine. Notte.
Albertine sta dormendo, mormorando.
Marcel, accanto a lei, cerca di captare le sue parole.
Albertine Oh, cara!
Marcel si acciglia.
[…]
301. Interno. Il corridoio. Notte
Il corridoio è buio.
La porta di Marcel si apre. Egli esce e risale il corridoio dirigendosi verso la porta della camera di Albertine. Rimane immobile, in ascolto.
Silenzio
304. Interno. Stanza di Marcel. Sera.
Marcel Andrée.
Voce di Andrée Oh! Salve.
Marcel Tu e Albertine dovete andare dai Verdurin domani pomeriggio?
Andrée Esatto.
Marcel Perché?
Andrée Perché?
Marcel Perché Albertine ci vuole andare?
Andrée La signora Verdurin ci ha invitate per il tè. Nient’altro. Una cosa assolutamente innocente.
Marcel Sei sicura che…
[…]
Andrée Pronto?
Marcel Sì… sì… scusami… (Françoise esce). Sei sicura che non ci sia qualcuno che desidera incontrare?
Andrée Non saprei davvero chi.
Marcel Potrei venire con voi.
Pausa
Andrée Ah.
[…]
338 Interno. Salottino. Notte.
[…]
Marcel Sapevi che questo pomeriggio dai Verdurin doveva esserci anche la signorina Vinteuil, vero?
Albertine Oh, quante domande! (Alza le spalle) Sì, lo sapevo.
Marcel Puoi giurarmi che non volevi andarci per rinnovare la tua relazione con lei?
Albertine Non ho mai avuto nessuna relazione con lei.
Marcel Puoi giurarmi che il piacere di rivederla non aveva niente a che fare col tuo desiderio di andarci?
Albertine No, questo non posso giurarlo. Mi avrebbe fatto molto piacere rivederla.
[…]
Marcel Sciocchezze. Io ho denaro. Se vuoi, puoi dare una festa in onore dei Verdurin, per esempio, in qualunque momento tu lo desideri.
Albertine Oh Dio! Grazie tante. Una festa per quelle barbe! (Mormora rapidamente) Preferirei che mi lasciassi in pace per una volta tanto, in modo da poter andarmene a farmi… (Si ferma di colpo).
Marcel Che cosa hai detto?
Albertine Niente… I Verdurin… la festa.
Marcel No. Stavi dicendo qualcos’altro. Ti sei fermata. Perché ti sei fermata?
[…]
Marcel Non ho capito cosa stavi dicendo. Non ho afferrato esattamente le tue parole. Volevi farti…
Albertine Oh, lasciami stare, ti prego!
[…]
341 Interno. Camera da letto di Albertine.
Si sta specchiando.
Entra Marcel.
Marcel Albertine, credo che dovremmo separarci. Voglio che te ne vada, domattina presto.
Albertine Domattina?
Marcel Siamo stati felici. Ora non lo siamo più. È semplicissimo.
Albertine Io non sono infelice.
Marcel Non cercarmi più. È meglio.
Albertine Tu sei l’unico che mi stia a cuore.
Marcel Ho sempre desiderato andare a Venezia. Ora ci andrò. Da solo. (Silenzio). Quante volte mi hai mentito?
[…]
Marcel Dove andrai?
Albertine Non lo so. Ci devo pensare. Tornerò da mia zia. Suppongo.
Marcel Vuoi che… tentiamo ancora… per qualche settimana?
Albertine Sì.
Marcel Qualche altra settimana.
Albertine Sì credo che dovremmo.

Una serie di sequenze molto frammentate in cui crescono in Marcel la gelosia e il sospetto di essere tradito da Albertine con una donna, in particolare con la signorina Vinteuil. Poi il momento più drammatico con climax: un frammento che s’incastona agli altri frammenti dipingendo un quadro unitario di sensazioni e sapori, la fuga di Albertine…

342. Interno. Camera da letto di Marcel
Marcel solo nella sua camera, seduto immobile.
Improvvisamente dalla stanza di Albertine il rumore di una finestra aperta violentemente.
Egli riguarda attorno, rapidamente.
343. Interno. Corridoio. Notte.
(Stessa inquadratura del n. 301)
Corridoio buio. La porta di Marcel si apre. Egli avanza nel corridoio. Si ferma fuori dalla stanza di Albertine, e ascolta.
Silenzio.
344.Interno.camera da letto di Marcel. Mattino.
Marcel a letto. Entra Françoise.
Françoise Non sapevo cosa fare . la signorina Albertine mi ha chiesto i suoi bauli – stamattina alle sette. Lei dormiva. Non volevo svegliarla. Lei dice che non devo mai svegliarla. Ha fatto i bauli. Se n’è andata.
Marcel la guarda.
Marcel Hai fatto bene a non svegliarmi.
345. Occhi di Marcel.
346. Gli occhi di Gilberte a Tansonville
347. Gli occhi della Duchessa di Guermantes, per la strada.
348. Gli occhi di Odette nel viale delle Acacie.
349. Gli occhi della Madre nella camera da letto a Combray.
350. Gli occhi di Marcel nel gabinetto a Combray.
351. Gli occhi di Marcel.

… e la sua morte…

352. Interno. Camera da letto di Marcel. Parigi 1902.
Françoise gli porge un telegramma
Marce lo apre, legge.
Lo lascia cadere.
Françoise lo raccoglie, lo legge.
Ha un sussulto, si porta la mano alla bocca.
Guarda Marcel.
Posa il telegramma sul tavolo e lentamente esce dalla stanza.
La macchina da presa indugia su Marcel che rimane immobile, col volto assente.
353. Esterno. Campagna. Giorno.
Un cavallo senza cavaliere si allontana al galoppo dalla macchina da presa.
La macchina da presa retrocede lentamente fino a suggerire l’idea di un corpo inerte di ragazza.
354. Interno. Appartamento di Marcel. L’ingresso. Giorno.
L’ingresso vuoto.
355. Interno. La sala da pranzo. Sera.
La sala da pranzo. Vuota.
356. Interno. Camera di Marcel. Notte.
Marcel seduto, col volto assente.
357. Interno, l’ingresso. Notte.
La porta della camera di Albertine. Socchiusa.
L’ingresso è vuoto.
Silenzio.
358. Interno. Camera di Marcel. Giorno.
Marcel seduto, col volto assente.
359. Primo piano. Andrée.
Voce di Marcel, fuori campo.
Marcel (voce fuori campo) Adesso che è morta… posso chiedertelo francamente… A te piacciono le donne, vero?
Andrée (Sorride) Sì. È vero.
360. Interno. Camera di Marcel. Due inquadrature. Giorno. 1902.
Marcel Conoscevi la signorina Vinteuil… bene, vero?
Andrée No, non lei, per la verità. La sua amica.
Pausa.
Marcel Sapevo da anni, ovviamente, le cose che facevi con Albertine.
Andrée Non ho mai fatto niente con Albertine.

Dall’inquadratura n. 345 alla n. 351 mi immagino un passato che affiora nel ricordo di un attimo. Una sensazione vivida che cristallizza nel presente assumendone l’aspetto, vestendosi di esso; un brivido che rievoca tutti gli abbandoni, tutte le fughe, le passioni, i litigi, i pianti e i rimpianti. Così la sofferenza che cresce nel vuoto di una stanza (da inquadratura 353 a 358) fino ad assumere proporzioni insopportabili con l’inquadratura della porta socchiusa della camera di Albertine. E mentre apprendiamo dalle didascalie che l’ingresso è vuoto, la sala da pranzo è vuota (vedo già le puntuali riprese di Losey) non ci è permesso di vedere la camera da letto (vuota) di Albertine, come se Albertine sia appena uscita o sia ancora in camera, un’Albertine dei tempi andati che abbiamo già visto e che adesso una sensazione forte, quasi amara, fa riemergere dal tempo ritrovato in un pensiero, in un oggetto, qui in una porta socchiusa.
Poi il ricordo, il racconto del passato, contraddittorio, quel passato della memoria volontaria con le situazioni ambigue, impalpabili, la disillusione; racconto che ricorda tanto alcuni passi di Vecchi tempi:

361. Interno. Stanza di Marcel notte.
Marcel e Andrée siedono in punti diversi della stanza. Andrée indossa un abito diverso.
Marcel Provo una grande attrazione per te. Forse per via delle cose che hai fatto con Albertine. Voglio quello che ha avuto lei.
Andrée. È impossibile. Tu sei un uomo (Pausa). Era così passionale. Ricordi quel giorno che perdesti la chiave, quando portasti a casa i lillà? Ci avevi quasi sorprese. Era molto pericoloso, sapevamo che potevi rientrare da un momento all’altro, ma lei ne aveva bisogno, a tutti i costi. Ricordi, feci finta che lei non sopportasse il profumo dei lillà. Lei era dietro la porta. Disse la stessa cosa per tenerti lontano da lei, perché tu non potessi avvertire il mio odore su di lei.

Il rispetto degli eventi descritti da Proust limita in parte l’enucleazione della poetica pinteriana così come in Vecchi tempi (5), ove l’ambiguità del passato è ancora più eclatante e il tempo ritrovato, fissato nella scrittura, restituisce il senso profondo di una vita sempre più liquida:

ATTO I
[…]
Deeley Non sapevo che tu avessi così pochi amici.
Kate Nessuno. Neppure uno. Tranne lei.
Deeley. Perché lei?
Kate Non lo so (Pausa). Era una ladra. Aveva l’abitudine di rubare.
Deeley A chi?
Kate A me.
Deeley Che cosa rubava?
Kate Un po’ di tutto. Biancheria intima.
[…]
ATTO II
[..]
Anna Mi ero messa della sua biancheria intima, per andare ad una festa. Più tardi quella notte glielo confessai. Era stato sconveniente da parte mia. Lei sgranò gli occhi su di me, sconcertata, è la parola. Ma aggiunsi che ero stata punita del mio peccato perché un uomo alla festa non aveva fatto altro che guardarmi sotto la gonna tutta la sera.
[…]
Deeley Guardava sotto la sua gonna, nella biancheria intima di lei. Mmmnn.
Anna Ma da quella notte ogni tanto insisteva perché usassi la sua biancheria – lei ne aveva molta più di me e tanto più varia – ed ogni volta che me lo proponeva arrossiva, ma continuava a propormelo, nonostante tutto.


(1) Harold Pinter “Proust. Una sceneggiatura. Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino, 2005 P.185 (tutti i brani riportati sono stati ripresi dal sopra citato volume)
(2) Ibid.
(3) Riporto la frase ripresa pari pari dal testo di Pinter: “Decidemmo che l’architettura del film dovesse basarsi su due principi primari e contrastanti: uno,un movimento,essenzialmente narrativo, verso la disillusione, e l’altro, più intermittente,verso la rivelazione,che crescesse verso un punto in cui il tempo perduto è ritrovato e fissato per sempre nell’arte”. Ibid.
(4) Ivi, p. 186
(5) Tutte le citazioni sono tratte da: Harold Pinter, Vecchi tempi, Einaudi, Torino 1976(3)

27 agosto 2012

Vecchi tempi (Harold Pinter, 1970): 1/3 Pinter, la commedia

Avrei voluto assistere alla messa in scena del 1973 di Tanto tempo fa per la regia di Luchino Visconti con Umberto Orsini, Adriana Asti, Valentina Cortese e soprattutto essere presente la sera in cui Harold Pinter si fece vedere per contestare l’adattamento del maestro al suo capolavoro Vecchi tempi. L’esplicitazione, nell’allestimento viscontiano, del mondo fantasmatico creato da Pinter non poteva certo andare a genio al premio nobel inglese nel vedere distorta la sua creatura, anche se bisogna tener conto che la grande vitalità del teatro consiste proprio in questo. Un lavoro, un’opera nasce ogni sera diversa e muore sempre più distante dagli ormeggi a cui l’ha legata l’autore. L’opera teatrale è come un figlio che prima o poi dobbiamo lasciare libero per la sua strada. E forse a Visconti non dispiacque tanto il gesto di Pinter. Per Visconti infatti il teatro deve comprendere la reazione del pubblico, per mostrare la propria vitalità deve accettare anche lo scontro “fisico” con la contestazione e non ridursi a mera enunciazione che strappi applausi a un pubblico magari disinteressato sino a pochi secondi prima della chiusura del sipario. Probabilmente il regista del Gattopardo rimase più disturbato dal fatto che Pinter adì a vie legali obbligandolo a interrompere le rappresentazioni. Pinter forse non capì la forza performativa dell’opera di Visconti, la sua capacità di coinvolgere il pubblico obbligandolo a reagire, a interagire con la propria creatura, mentre Visconti non vide la distanza della sua arte dal mondo borghese pinteriano, dalle situazioni assurde causate dalla labilità del ricordo che trasforma i personaggi in fantasmi e che contiene solo una parvenza di verità, riducendo il passato a un’inesistenza in cui ogni storia si dipana differente per seguire un percorso in continua trasformazione, deformato dall’incertezza del ricordo se non dalla volontà del cercatore del tempo perduto di “accomodare” il passato al fine di modellare una storia. In tal modo ad esempio il rapporto tra le due amiche, Kate e Anna,è molto più sottile di quello che sembra. Le due donne della pièce forse sono state molto più di due amiche o forse no, forse hanno avuto lo stesso amante, Deeley, o forse ognuno ricorda un passato diverso. Poiché il tempo è perduto per sempre, conta l’enunciazione, la ricostruzione di un mondo che i tre interpreti tessono per dare l’illusione di un senso compiuto. Forse più che una storia ricostruita dal ricordo, Vecchi tempi è un storia decostruita, per cui ogni battuta che segue non solo contraddice la precedente ma scuce e ricuce in modo differente l’idea che ci eravamo fatti disorientando ogni tentativo del fruitore di crearsi un mondo organico. Già dall’incipit Deeley e Kate parlano dell’imminente arrivo dell’amica di Kate, Anna, la quale però è già presente sul palco anche se defilata, in piedi presso la finestra. Pertanto il ricordo di Anna da parte di Kate è già “presente” nel qui adesso, anche se metaforicamente. La presenza di Anna in scena (Pinter avrebbe potuto far entrare Anna in un secondo momento) rappresenta già la labilità del ricordo (la donna potrebbe già essere arrivata magari il giorno prima) se non addirittura l’intrusione del ricordo nella materialità dell’evento messo in scena; eppure la vediamo nel quadro ma isolata come in una dissolvenza incrociata di un film (1):

Si distinguono tre figure.
Deeley sprofondato nella poltrona, immobile.
Kate accoccolata su un divano, immobile.
Anna in piedi presso la finestra, guarda fuori.
Silenzio.
Luci su Deeley e Kate, che fumano entrambi.
La figura di Anna resta immobile nella penombra, accanto alla finestra.


KATE (riflessivamente) Bruna.
Pausa
DEELEY Grassa o magra?
KATE Più piena di me. Mi pare.
Pausa.
DEELEY Lo era allora?
KATE Mi pare di sì.
DEELEY Può non esserlo più. (Pausa) Era la tua migliore amica?
KATE Che vuoi dire?
DEELEY Cosa?
KATE La parola, amica…quando pensi… dopo tanto tempo.
[…]
DEELEY Sapevo che eri vissuta con qualcuno per un certo tempo… (Pausa). Ma non sapevo fosse lei.
KATE Certo che era lei.
Pausa.
DEELEY Comunque, tutto questo non importa.
Anna si volta, parlando, lascia la finestra e si dirige verso di loro, alla fine siede sul secondo divano.
ANNA A far la coda tutta la notte, sotto la pioggia, ti ricordi? Mio Dio, l’Albert Hall, il Convent Garden, senza mangiare, ma ci pensi? Passavamo metà della notte a fare le cose che più ci piacevano, beh certo eravamo giovani allora, ma che resistenza, e la mattina in ufficio, e poi un concerto, o un’opera, o un balletto quella sera stessa, lo hai dimenticato? […] ad ascoltare ascoltare tutte quelle parole, in quei caffè tutta quella gente, senza dubbio geniale,mi chiedo, tutto questo esiste ancora? Voi ne sapete qualcosa? Potete dirmelo?

Anche i rapporti tra i tre personaggi sono evanescenti, impalpabili; il rapporto tra Deeley e Kate che sembra concreto, solido, sicuro, con Anna relegata “nel passato”, si inverte quando Anna comincia a interloquire con i coniugi, quindi, iniziando un dialogo con Deeley, parla di Kate al passato come se la donna non sia presente sulla scena.

ANNA Sono così felice di essere qui.
DEELEY So che a Katey fa piacere rivederla. Non ha molti amici.
ANNA Ha lei.
DEELEY Non si è fatta molti amici, sebbene abbia avuto tutte le opportunità per farsene.
ANNA Forse ha tutto ciò che vuole.
DEELEY Manca di curiosità.
ANNA Forse è felice così.
Pausa
KATE State parlando di me?
DEELEY Sì.
ANNA È sempre stata una sognatrice.
DEELEY Le piacciono le lunghe passeggiate. Tutte quelle cose. Mi spiego? Impermeabile addosso. Mani in tasca, giù per il sentiero. Tutte quel genere di cose.

Questo modo di procedere (anche Deeley viene poi “relegato” ai margini quando si entra nel cuore della commedia, ossia quando le due donne cominciano a rievocare i ricordi comuni della loro vita londinese, nei giorni in cui frequentavano i salotti letterari o andavano al cinema) disorienta lo spettatore, ma soprattutto induce il lettore, costatata l’inaffidabilità della memoria, a ricostruire un passato più o meno coerente. A questo punto sembra che Deeley tenti di recuperare un ruolo nel dialogo ma soprattutto nel “passato” delle due amiche ricordando lo stesso film visto dalle donne (Il fuggiasco di Carol Reed, 1946), e soprattutto affermando di avere conosciuto Anna durante una festa mentre era seduta su un divano e di averle guardato insistentemente le gambe. Questa perlustrazione del passato da parte di Deelay, nel rammentare eventi che almeno in un primo momento Anna sembra non ricordare, questa sua intrusione nella vita “a due” di Anna e Kate, dei loro giorni spensierati, di quando frequentavano salotti e caffè, tende a immergersi in un mondo proustiano. Infatti anche in Vecchi tempi la “memoria volontaria” cede il passo a sensazioni che sanciscono il passaggio in un evanescente mondo in cui il ricordo emerge quasi smarrito, ricordo labile ma dal profumo intenso nel recuperare episodi come dimenticati da Anna o mai avvenuti:

ANNA Lei sta dicendo che ci siamo conosciuti?
DEELEY Certo che ci siamo già conosciuti. (Pausa). Ci siamo già parlati. In quel locale, per esempio. Nell’angolo. A Luke la cosa non piaceva, ma noi l’ignoravamo. Più tardi andammo tutti ad una festa. In casa di qualcuno, dalle parti di West Bourne Grove. Lei era seduta su un divano molto basso, io le sedevo di fronte e guardavo fisso sotto la sua gonna. Le sue calze nere erano nerissime, perché le cosce erano così bianche. Questa è roba passata, naturalmente, non è vero? Non ha più senso, ma allora ne aveva. Ne valeva la pena. Quella notte ne valse la pena. Io me ne stavo semplicemente lì, sorseggiando la mia birra bionda e guardavo… guardavo fisso sotto la sua gonna. Lei non si opponeva. Trovava il mio sguardo perfettamente accettabile.
ANNA Vuol dire che ero consapevole del suo sguardo?
DEELEY C’era una gran discussione […] ma soltanto io avevo una vista di cosce che si baciavano, soltanto lei aveva cosce che si baciavano. E adesso lei è qui. La stessa donna. Le stesse cosce. (Pausa). Sì. Poi arrivò una sua amica, una ragazza, amica sua. Si sedette sul divano accanto a lei, e vi metteste a chiacchierare e a ridere […] ed io mi sistemai più in basso per guardarvi a tutte e due, le cosce ad entrambe […] lei consapevole, l’altra ignara […]
ANNA Sono veramente mortificata.
DEELEY Mi pare giusto. (Pausa). Non l’ho più rivista. Scomparve dalla circolazione. Forse cambiò casa.
ANNA No. Restai dov’ero.

È un tempo perduto ritrovato e “fissato” nell’eternità dall’arte. Ma Pinter deve fissare la “verità” nell’essenza stessa dell’arte per cui il ricordo non è una ricostruzione logica di eventi passati (la memoria volontaria di Proust), e pur essendo una reminiscenza (la memoria involontaria con il classico esempio del profumo della madeleine sempre in Proust), diventa attività creatrice dell’artista, l’atto stesso di restituire l’eternità di un evento alla memoria vero o falso che sia:

ANNA. Io non ho mai conosciuto Robert Newton, ma credo di sapere ciò che lei vuol dire. Ci sono cose che si ricordano anche se possono non essere mai accadute. Io ricordo cose che possono non essere mai accadute ma, poiché le ricordo, sono accadute.

(1) Tutte le citazioni sono tratte da: Harold Pinter, Vecchi tempi, Einaudi, Torino 1976(3)

Nella foto. Dorothy Tutin, Colin Bateman e Vivien Merchant alla prima di Vecchi tempi, Aldwych Theatre 1 giugno 1971. Fotografia di Donald Cooper

21 agosto 2012

La cantatrice calva (Eugène Ionesco, 1950)

Mi sono sempre chiesto quale sia il senso profondo di girare un film, nell’accezione che se intendo con un film raccontare una storia, ebbene, pur ammettendo l’interesse fondamentale di una narrazione, perché raccontare una storia e non, ad esempio, un disagio, un sentimento, un quadro, un temporale, una pozzanghera? Mi rendo conto che i miei dubbi sono paragonabili alla scoperta dell’acqua calda, ecco perché intendo fare “attraversare” questa mia ordinaria riflessione da un post dedicato a un’opera di letteratura teatrale. Il teatro è una grande passione, forse ancora più grande del cinema, ma mi rimane così complicato tentare di “fissare” su carta le emozioni provate da una rappresentazione (con tutte le sue varianti, variabili, imprevisti, scelte di regia, modi di recitazione, ecc.) da vedermi costretto a limitarmi all’osservazione di un canovaccio, un testo scritto, importante, ma non fondamentale per il teatro.

L’altro giorno rivedendo La cantatrice calva di Eugène Ionesco ho provato il desiderio di rileggere il testo. Mi sono accorto che il testo (scollegato dai vari adattamenti che possono esaltarne la comicità, la riflessione politica, la metafora, oppure possono adattare il testo alla situazione e ai cliché di questa Italia di inizio III millennio) isolato dal contesto, reso assoluto e scollegato dall’humus culturale anche del periodo in cui è stato prodotto (la Parigi del 1950) presenta una banalità inaspettata. I dialoghi dell’incipit della signora e del signor Smith sono di una ovvietà disarmante. Mi si dirà che è importante il contesto. Il rapporto tra opera e uomo, le situazioni assurde del testo nascono dall’esigenza di focalizzare l’isolamento dell’uomo moderno rinchiuso nelle proprie abitudini, inidoneo a comunicare, privo di ogni logica o strategia, prigioniero del ruolo ricoperto. Infatti non metto in dubbio la grandezza dell’opera. La mia riflessione intende al contrario mettere in evidenza proprio l’opposto: La cantatrice calva è un capolavoro perché è adattabile a ogni epoca. Era una valida critica alla società degli anni cinquanta come lo è oggi e probabilmente come lo sarà anche domani. Questa capacità di attraversare i tempi è dovuta proprio alla perdita di ogni riferimento. Il plot (se di plot si può parlare) tende a evaporare lasciando emergere il discorso in tutta la sua potenza. Un testo fatto di situazioni “banali”, dialoghi che vestono soltanto circostanze senza “sbocco” nel senso che non esistono nuclei narrativi e se il testo è infarcito di “catalisi” (Roland Barthes) , riempitivi (ma poi forse a ben vedere non è poi così palese), non solo si può parlare di un testo antiepico ma addirittura di un lavoro evanescente, evaporato nell’ordinario, luogo in cui la storia è tramontata perché annichilita dall’impasse in cui l’ha portata l’uomo moderno, disilluso dalle ideologie, antiromantico e non in grado di applicare il valore della Storia, della Cultura di un paese, di un continente, del globo intero, alla sua vita ordinaria, come se questa sua vita, come se il mondo che ci circonda, le strade, i porti, le città, i mari, le campagne, non siano il risultato di una successione cronologica di eventi, ma un’eterna esistenza, come un tempo cristallizzato e immobile, un frame stop che crediamo immutabile, ma che invece si muove al di là di ogni nostra contraria illusione. Ionesco, per entrare in questo buco nero dell’assenza di mondo, per analizzare e conoscere i luoghi comuni, doveva affondare nella melma dell’immobilismo, penetrare nei meandri di una realtà fatta solo di riempitivi, simile a una torta salata senza una crosta, una massa informe di luoghi comuni. Se per Barthes(1) le funzioni cardinali del testo sono nuclei narrativi (amori, tradimenti, guerre,incontri, eventi) e mentre quelle secondarie sono catalisi (oggetti, descrizioni, pensieri, paesaggi, ecc.) per l’autore della Cantatrice il racconto è svanito, è diventato una massa informe di funzioni che non funzionano. Ormai i “riempitivi” (catalisi) vivono di vita propria, attraversano un tempo indefinibile,ambiguo e impalpabile, invadono e occupano i pensieri così come gli eventi degli uomini assumono essi stessi la funzione principale per definire una nuova forma di “racconto”. Non un’antiepica composta da nuclei e catalisi (il romanzo moderno d’autore) ma una neoepica, nuova forma di testo in cui le dimensioni spazio-temporali sono saltate, e in cui non è possibile raccontare una storia solo perché il tempo non riesce a funzionare; e senza una progressione cronologica (pur con le sue analessi ed eventuali prolessi) risulta inaffidabile, mentre il racconto non riesce a dipanarsi, a tutto vantaggio di un racconto il cui oggetto diventa il suo stesso discorso. Pertanto si tratta di disarticolare il linguaggio per togliere ogni riferimento narrativo e “annullare” o ridurre al minimo la presenza degli oggetti, per slegare ogni riferimento di verosimiglianza e addirittura evitare di dare forma a oggetti pensati come effetti di reale. Gli oggetti infatti (quei pochi descritti rendono il testo fumoso: “Interno borghese inglese, con poltrone inglesi” oppure “[…] nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi […] la sua pipa inglese […] un giornale inglese” ) non servono a definire un effetto di reale ma a dare forma a un evidente “difetto di reale”.

Due esempi: Incipit (scena 1); i Martin (scena 4)

Nella commedia saltano subito i riferimenti temporali: il pendolo batte diciassette colpi quindi tre volte, poi non suona nessun colpo e poi di nuovo cinque colpi. I signori Smith parlano di un funerale avvenuto un anno e mezzo fa, mentre il defunto è morto due anni fa e sul giornale si è parlato del decesso tre anni fa. I ricordi sono confusi, i due coniugi non definiscono bene i fatti, la narrazione è falsata e allo spettatore non viene dato alcun punto di riferimento. Così ad esempio il defunto Bobby Watson aveva una moglie che si chiamava anche lei Bobby Watson e “siccome avevano lo stesso nome, non si riusciva a distinguerli l’uno dall’altra quando li si vedeva assieme” (2).

SIGNORA SMITH […] È stato solo dopo la morte di lui , che si è potuto sapere con precisione chi fosse l’uno e chi fosse l’altra. Tuttavia, ancor oggi, c’è gente che la scambia per il morto e le fa le condoglianze. Tu la conosci?
SIGNOR SMITH Non l’ho vista che una volta, per caso, al funerale di Bobby.
SIGNORA SMITH Io non l’ho mai vista. È bella?
SIGNOR SMITH Ha tratti regolari, eppure non si può dire che sia bella. Troppo alta e troppo massiccia. I suoi tratti non sono regolari, eppure la si potrebbe dire bella. È un po’ troppo piccola e magra. È insegnante di canto.

Non è neppure possibile conoscere i connotati delle persone e addirittura sapere niente di preciso della loro vita. Non si sa se abbiano figli o meno e poi non si riesce a capire se la signora Bobby si sposerà e con chi e per quale motivo e se sia lei veramente la sposa:

SIGNORA SMITH E quando pensano di sposarsi quei due?
SIGNOR SMITH La primavera prossima, al più tardi.
[…]
SIGNOR SMITH Per fortuna non hanno figli
SIGNORA SMITH Non ci sarebbe mancato che questo! Figli! Povera donna, che cosa ne avrebbe fatto?
SIGNOR SMITH È ancora giovane. Può benissimo risposarsi. Il lutto le sta così bene!
SIGNORA SMITH Ma chi si prenderà cura dei figli? Lo sai che hanno un bambino e una bambina, come si chiamano?
SIGNOR SMITH Bobby e Bobby, come i loro genitori. Lo zio di Bobby Watson, il vecchio Bobby Watson, è ricco e vuol molto bene al bambino, potrebbe incaricarsi lui dell’educazione di Bobby.
SIGNORA SMITH Sarebbe logico. E la zia di Bobby Watson, la vecchia Bobby Watson, potrebbe benissimo incaricarsi per parte sua dell’educazione di Bobby Watson, la figlia di Bobby Watson. Così la mamma di Bobby Watson, Bobby, potrebbe risposarsi, ha qualcuno in vista?
SIGNOR SMITH Sì, un cugino di Bobby Watson.
SIGNORA SMITH Chi? Bobby Watson?
SIGNOR SMITH Di quale Bobby Watson parli?

Tutti i Bobby Watson inoltre fanno i commessi viaggiatori e lavorano solo tre giorni alla settimana: il martedì, il giovedì e il martedì. Persino i ruoli maschio femmina sono confusi, così gli uomini fanno come le donne e viceversa: bevono whisky, fumano, si incipriano, si tingono le labbra di rosso. I rapporti tra le persone come tra i coniugi sono così labili che non è possibile sapere neppure quando e come si siano conosciuti e addirittura se veramente siano consapevoli di conoscersi. Così ad esempio nella scena quarta, i Martin sono soli e scoprono di vivere nella stessa casa e di essere veramente sposati:

SIGNOR MARTIN Mi scusi, signora, non vorrei sbagliare, ma mi pare di averla incontrata da qualche parte.
SIGNORA MARTIN Anche a me, signore, pare di averla incontrata da qualche parte.
SIGNOR MARTIN. Non l’avrò, signora, per caso intravvista a Manchester?
SIGNORA MARTIN Potrebbe darsi. Io sono nativa di Manchester! Tuttavia non ricordo bene, signore; non potrei dire se è là che l’ho vista, o no!
SIGNOR MARTIN Dio mio, è veramente curioso! Anch’io sono nativo di Manchester, signora!
[…]

Così i due scoprono di avere lasciato Manchester circa cinque settimane fa e di avere preso lo stesso treno, quello delle otto e mezzo del mattino, quello che arriva a Londra un quarto alle cinque. E di avere occupato lo stesso vagone, il numero otto e nello stesso scompartimento e che avevano i posti uno davanti all’altro.

SIGNOR MARTIN Non è lei, cara signora, la signora che mi ha pregato di metterle la valigia sulla reticella e che dopo mi ha ringraziato e permesso di fumare?
SIGNORA MARTIN Ma sì, dovrei proprio essere io, signore! Com’è curiosa, curiosissimamente curiosa questa coincidenza!
SIGNOR MARTIN Che curiosa e bizzarra coincidenza! Non le pare, signora, che noi potremmo esserci conosciuti in quel momento?
SIGNORA MARTIN Oh! È certamente una curiosa circostanza! È possibile caro signore! Tuttavia non credo di ricordarmene.
SIGNOR MARTIN Neppure io, signora.

I coniugi scoprono poi di abitare entrambi a Londra nella stessa via allo stesso numero nello stesso appartamento e di avere una figlia con un occhio bianco e uno rosso. Finché…

SIGNOR MARTIN […] Allora,cara signora, io credo che non vi siano più dubbi, noi ci siamo già visti e lei è la mia legittima sposa… Elisabetta, ti ho ritrovata!
[…]
SIGNORA MARTIN Donald, sei tu, darling!

Gli adattamenti filmici a una commedia simile non sono che video-commedie nel senso che non fanno che riportare la commedia in un filmato senza aggiungere nulla di nuovo all’opera drammaturgica (vedi le due trasposizioni francesi di Alexandre Tarta del 1980 e Vincent Bataillon del 2007, nonché quella italiana con la grande Franca Valeri di Josè Quaglio del 1967). Purtroppo non mi risulta siano state girate trasposizioni dell’opera nel cinema (ma posso essere smentito). Ho pensato molto a come un film dovrebbe restituire il senso profondo dell’opera senza risultare un’ordinaria video commedia e ritengo che una trasposizione dovrebbe attenersi (pur rispettando la volontà dell’autore riguardo al tempo, ai personaggi e alla disarticolazione del linguaggio) alle regole del cinema distorcendo più il montaggio delle immagini che le frasi dette. Ad esempio il dialogo degli Smith potrebbe evidenziarsi mostrando immagini del funerale avvenuto un anno prima e poi due anni prima e poi quattro anni prima con sequenze dei signori Watson, ossia il defunto che saluta la moglie, il padre i figli, tutti Watson, così come l’incontro dei Martin potrebbe avvenire contemporaneamente a Manchester e poi sul treno e in casa propria con abbraccio finale con la figlia con occhio-bianco rosso messo però in discussione dalla cameriera Mary (scena 5) che confuta tutto quanto detto dai Martin:

MARY […] Posso dunque rivelarvi un segreto. Elisabetta non è Elisabetta e Donald non è Donald. Eccone la prova: la bambina di cui parla Donald non è la figlia di Elisabetta, non si tratta della stessa persona. La figlia di Donald ha un occhio bianco e uno rosso, precisamente come la figlia di Elisabetta, tuttavia, mentre la figlia di Donald ha l’occhio bianco a destra e l’occhio rosso a sinistra, la figlia di Elisabetta ha l’occhio rosso a destra e l’occhio bianco a sinistra! […] Ma chi è allora il vero Donald? Qual è la vera Elisabetta? Chi mai ha interesse a far durare questa confusione. Io non ne so nulla. Non sforziamoci di saperlo. Lasciamo le cose come stanno […] Il mio vero nome è Sherlock Holmes.

In altri termini, come Ionesco ha inteso mettere in crisi il teatro a lui coevo, giocando sul linguaggio e lasciando svanire tempo e storia, così il filmico dovrebbe poter evaporare scena dopo scena lasciando nelle immagini il senso profondo della struttura quale viene evidenziata nello story board (o nell’atto stesso di filmare) con (ad esempio) ipotesi di movimenti di macchina, ipotesi di sequenze mai montate e prove di recitazione mal riuscite, destabilizzando la nozione stessa di filmico nel lasciare dissolvere gli stessi personaggi nei meandri imperscrutabili del mondo reale. Insomma la trasposizione filmica dovrebbe procedere tutto all’opposto della resa teatrale: per arrivare agli stessi risultati dovrebbe partire proprio dal racconto al fine di far emergere la sua drammatica e inquietante impalcatura. Forse solo un David Lynch sarebbe in grado di fare una simile operazione.

(1) R.Barthes, L'effet de réel, in Communications, n. 11, Paris 1968, pp. 84 e sgg. Il saggio, tradotto in italiano, si trova in: R. Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi 1988, pp. 151-159. (Ho già citato questa nota in un altro mio post, se ricordo bene proprio su Lynch. Mi scuso per la pedanteria).
(2) Tutte le citazioni sono tratte da: Eugène Ionesco, La cantatrice calva, Einaudi, Torino 1958, 2 ristampa 1980
Nella foto. Nicolas Bataille, secondo da destra, alla prima della Cantatrice Calva, Teatro Les Noctambules, Maggio 1950. Fotografia di Lipnitzki/Roger Viollet/Getty

7 agosto 2012

In the mood for love (Wong Kar-wai, 2000): 3/3 Nascita di un futuro anteriore

Perché ogni volta che rivedo In the mood for love mi sembra sempre la prima volta? Questo, lo so, accade per ogni film. Cambiamo giorno dopo giorno e il nostro sguardo sul mondo non è quello di alcuni anni fa. Se la stessa identica strada, lo stesso identico paesaggio (a meno che non sia stato devastato dalla inarrestabile cementificazione) ci sembrano diversi da come ce li ricordavamo, figuriamoci cosa può capitare con un film. Mi succede spesso di rivedere film visti dieci, cinque o anche solo un anno fa scoprendo di avere dimenticato alcune sequenze o di avere dato importanza ad altre che adesso non sembrano poi così interessanti. Ma con In the mood for love è diverso (e per altri pochi lungometraggi) perché il film mi sembra diverso persino se lo rivedo dopo un minuto. Possibile che questo capolavoro scavi così profondamente nel mio animo da estrarre le differenze che albergano in me? Scavare così dentro da lasciar emergere sensazioni, emozioni che nella visione precedente erano rimaste latenti a vantaggio di altre emozioni? Mi rimane difficile rendere la sensazione con un esempio. Ci provo. Il filmato della visita di De Gaulle in Indocina è il mondo “attuale” (quello degli anni sessanta) contemporaneo al viaggio di Chow alle rovine di Angkor Wat. Mostra il “presente” o meglio la contemporaneità del mondo all’epoca in cui è ambientato il film. Ma siccome In the mood for love è stato girato nel 2000 e il filmato è mostrato nel “suo” originale bianco e nero (Kar-wai ha preferito un cinegiornale originale con De Gaulle), in realtà il filmato è uno spezzone di passato nel senso che le cose invecchiano come invecchia lo stesso cinema di Kar-wai, come invecchiano gli attori che interpretano Chow e Su in modo che fra dieci, venti anni questi attori, paragonati ai loro personaggi, alle loro immagini immortalate nella pellicola, saranno dei vecchi resi nostalgici dai loro ricordi, mentre i loro “corpi” proiettati sulla tela di In the mood for love, rimasti giovani, ci ricorderanno di un anno 2000 ormai lontano e irrecuperabile, simile al vecchio filmato di De Gaulle. E cosa c’entra questo con me, con la mia sensazione di vedere un altro film anche solo dopo pochi attimi? Probabilmente il film suscita in me il senso di un’estetica anamorfica impossibilitata a organizzare il reale (i “disturbi” – specchi, oggetti in primo piano, ecc. – , le fratture, le ellissi significanti del film) ma atta a programmare un incontro tra significante e reale (l’opera, il film, si protrae verso me e mi trascina nel suo gorgo) (1). In questo senso ogni volta che vedo il film (probabilmente vedo il lungometraggio da angolazioni sempre diverse) le protesi estetiche dell’opera mi prendono, mi “pungono” (cfr. Roland Barthes, La camera chiara) ogni volta diversamente, suscitando in me sensazioni ed emozioni difformi. Un esempio: le rovine di Angkor Wat ricordano un passato lontano ma ritengo che rappresentino il futuro. Poiché ormai questo luogo non ha più tempo (forse fra un secolo saranno sempre uguali a oggi così come lo erano un secolo fa o negli anni sessanta) è capace di contenere gli anni sessanta (tempo in cui gli shanghaiesi si rifugiavano a Hong Kong), il presente (il 2000 anno in cui Kar-wai girò il film, il suo presente), il futuro (cioè un tempo lontano proiettato in anni da venire quando il mondo sarà ancora diverso e i turisti andranno a visitare le stesse rovine di oggi) e il futuro anteriore (l’oggi, il qui, il mio adesso che poniamo essere il 2012, ma il futuro rispetto agli anni del plot e a quelli del discorso karwaiano, ma anche un futuro anteriore rispetto ai giorni da venire). Ebbene questo ipotetico futuro anteriore ossia il momento in cui osservo il film non è definibile: è oggi, ma è fra un minuto e queste rovine mi sconvolgono, con la loro capacità di fagocitare il vissuto per renderlo amorfo, immobile. Questo luogo ove il tempo si è fermato è come un limbo in cui tutto gravita, tutto si rimescola, dove ogni amore, rapporto, ad esempio fra una coppia di amanti, galleggia tra passato e futuro e diventa come se la prima volta (il primo bacio o il primo incontro) sia ancora da accadere eppure sia già accaduta. Questo caleidoscopio di sensazioni, questo cinescopio di umori e suoni, dolori e ricordi, rimpianti e rammarichi, desiderio e debolezza, sofferenza e gioia, non riesce a prendere un ordine, a garantire una scala cronologica. Qui, in questo buco nero del senso, luogo in cui finiscono tutte le tribolazioni umane, le mie infime emozioni fuoriescono di volta in volta diverse, come fossero numeri estratti al lotto, perché questo è il luogo dove ogni cosa detta, dove ogni azione, dove ogni atto scritto, immagine vista, emozione provata, parla della storia di due amanti, ma parla anche di me, del mondo che è stato, di quello che è oggi, di De Gaulle, ma anche della Glasnost e della Banda dei Quattro e delle Torri Gemelle. Qui ogni immagine-emozione viene rimasticata, digerita e risputata all’esterno per trovarci ancora così irrimediabilmente deboli e insicuri, incapaci di tenere a lungo nel nostro cuore un segreto da sussurrarlo in una fessura di una pietra che sarà sempre al suo posto. Anche quando non ci saremo più.


(1) cfr. Massimo Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, in Il miracolo della forma, Bruno Mondatori, Milano 2007

28 luglio 2012

In the mood for love (Wong Kar-wai, 2000): 2/3 Brachilogia delle zuppe

I colori dei Cheongsam, mescolati e sommati di abito in abito, determinando un ritmo di ellissi che evocano una languida sensualità dei momenti assenti – nel  senso che il ricordo di Su si afferma nella sua visione pubblica relegando la sua intimità in una frammentazione di non visto (ellissi) e visione disturbata (specchi, oggetti, fuori fuoco) – accompagnano le passeggiate della signora Chang nei vicoli di Hong-Kong fino al negozio dei noodles ove acquistare il cibo. Le zuppe citate nei dialoghi  sono consumate nel non visto eppure si affermano come centro del percorso da seguire per conoscere gli aspetti reconditi degli incontri fuori programma tra Su e Chow.  Un percorso di zuppe, tra un’ellissi e l’altra, costruisce un’emotività dell’assenza, o meglio decostruisce il classico schema narrativo (con le sue quattro fasi canoniche: manipolazione, competenza, performance e sanzione) fino a spolparne ogni evidenza che poi spesso in tanto cinema è solo una forma collaudata di verosimiglianza per indurre dipendenza da appagamento; in questo senso il primo incontro, la psicologia dei personaggi, il conflitto dell’incipit, le pseudo-differenze caratteriali o culturali, la nascita dell’amore tra i due personaggi, il ruolo degli oppositori, le traversie e quindi il coronamento dell’amore per un epilogo spesso da happy end diventano istanze deboli, evanescenti, improbabili.  L’inquadratura al ralenti della parte inferiore del corpo di Su (soffermandosi sui colori del qipao di turno e sulla gamella di latta) sottolinea la forza della scelta di scavare all’interno del momento infinti istanti che si accumulano, si affastellano, si collegano come in un puzzle al fine di comporre non un quadro unitario, ma un’ipotesi di storia con la serie di camminate per un’andata e ritorno dal negozio dei noodles. Passeggiate e relativi incontri tra i due personaggi del film non rappresentano pertanto l’apice di una storia (come si incontrano, come si trovano, come iniziano ad amarsi). Le camminate diventano soprattutto un’espressione linguistica, denotano un costrutto: il linguaggio che entra in campo e si mostra in primo piano per definire il suo stesso affermarsi. È la struttura (sempre presente ovviamente in ogni testo) che qui indebolisce la trasparenza della storia mostrandoci tutta l’opacità e il turbamento del visibile. In tal modo, ad esempio,  ciò che conta non è l’incontro tra i due personaggi, quanto la zuppa in sé (zuppe tra l’altro mai mostrate), “oggetto” che definisce una scansione disturbata del tempo. L’atemporalità che ne deriva sancisce un modus operandi che trascina gli anni sessanta (ad esempio) nell’oggi, il 1962 e il 2000 diventano un inutile punto di riferimento, un modo per affermare la forza di un’opera che non ha tempo.  Il tempo non è lineare quanto caotico e gli orologi mostrati in primo piano nel film non indicano un’ora precisa, ma il vano tentativo di ordinare e controllare l’istante. La memoria al contrario (per non parlare del sogno) accatasta, unisce o disunisce, smembra o ricompone porzioni distanti di tempo, parvenze lontane di temporalità perduta o ritrovata (1). Ritornando alle zuppe, adesso mi interessa evidenziare il procedimento spettacolare utilizzato da Kar-wai. L’incontro tra Su e Chow, ad esempio, non avviene subito. In una prima sequenza vediamo Su che va ad acquistare la zuppa quindi Chow che si reca al negozio dei noodles, ma i due non si incontrano (o almeno si incontrano nel fuori campo) in quella che sembra la stessa sequenza.  La sig.ra Chang  torna poi al negozio e qui, lungo il vicolo, incontra Chow. I qipao indossati della donna sono diversi: un salto temporale. Ma dove è avvenuto? Nel mondo reale? Nei sogni di Chow? Nel suo ricordo? In un’altra sequenza sembra che Su e Chow non si incontrino. La mdp si sofferma un attimo a inquadrare una lampada del vicolo (già mostrata nella prima sequenza dell’acquisto al noodles shop): luce fissa che illumina prima l’oscurità, poi la pioggia che comincia a scendere copiosa (la pioggia è un’altra serie che sarebbe interessante analizzare). Questo è il motivo che permette a Chow di ritornare sui suoi passi, perché per non bagnarsi deve ripararsi sotto l’arcata del vicolo.  Su, causa la pioggia, rientra al noodles shop. Nonostante le premesse (quanto cinema farcito di luoghi comuni ha fatto incontrare due innamorati causa un temporale improvviso?) lo stratagemma della pioggia non è servito a niente: la pioggia non è la causa dell’incontro, e la sequenza non realizza un significato nel sintagma ma rimane immobile nel suo stesso nulla, isolata in un tempo non sottomesso all’immagine azione. La pioggia pertanto è una serie che non contribuisce a formare un significato immediato – anzi lo allenta – in quanto non ci è permesso conoscere l’incontro tra i due innamorati, né udire le parole che si sono detti. In questo caso la pioggia deve navigare in altri lidi, mentre spetta alla moltiplicazione di tre componenti la formazione del senso profondo dell’incontro tra Su e Chow. Dopo l’inquadratura di Su, seduta nel negozio di noodles in attesa che spiova, vediamo l’inquadratura della strada bagnata e poi Su e Chow che stanno salendo insieme le scale della casa della signora Suen. E il qipao di Su è sempre lo stesso. In questo caso il qipao ha ricucito un’ellissi, il salto temporale è stato breve, legato ad una discontinuità spaziale (noodles shop, strada, scale della casa della sig.ra Suen). Ciò che in molti casi ha formato una sorta di atemporalità, adesso ha compromesso pure questa certezza. È come se il qipao avesse ostacolato la zuppa, formando un tipo diverso di ellissi. Anche in questo caso l’atemporalità si muove fra non visto, non detto e salti irregolari e destrutturanti di tempo. Inoltre il suono dello Yumeji’s  Theme  di Shigeru Umebayashi, che scandisce e accompagna le sequenze del noodles shop, contribuisce ad allentare le forze intense della narrazione lasciando scivolare i movimenti e i comportamenti di Su e Chow in una terra senza tempo. Il tempo insomma diventa (come nei film della Nouvelle Vague) un tempo senza senso, un tempo qualunque, che non ha punti di riferimento, che non aiuta a ricostruire un principio e una fine, che non parte da e non arriva a nessuna parte. Eppure il senso profondo delle sequenze, nel loro decomporsi e ricomporsi nella casualità, s’ingigantisce restituendo allo sguardo l’intensa, atemporale, vastità di un amore. Di una poesia.

(1) Interessante sarebbe ampliare questa ipotesi alla luce della Recherce di Proust, putroppo devo ironicamente ammettere che “non ne ho il tempo”.

22 luglio 2012

In the mood for love (Wong Kar-wai, 2000): 1/3 Cheongsam

I qipao che Su cambia in continuazione sono indici di ellissi, oggetti indexicali che mostrano strappi improvvisi e repentini del tempo che scorre, nascondono gli eventi nel non visto. Sono espressioni di un film che relega nell’ellissi i momenti più importanti della narrazione, lasciando allo sguardo “soltanto” l’indefinitezza di immagini che non riescono mai del tutto a formarsi, proto immagini che sintetizzano sia la difficoltà del ricordo a formare un’alta definizione sia la difficoltà di un amore a svilupparsi in quanto già formato e vissuto in altri tempi. I qipao oltre ad essere “superfici che esercitano sul personaggio la stessa egemonia soffocante dei muri […] innalzando  una sorta di parete tra la donna e l’uomo che la ama”(1), rappresentano una compressione spaziale nella durata. Destrutturano lo spazio, già di per sé stressato da numerose interruzioni (specchi, oggetti in primo piano, tende, fuori fuoco, ecc.) lasciando l’intervallo libero di occupare queste immagini collassate. Sono indici temporali, forme di un rapporto (la storia d’amore) che catturano l’occhio (forse più di ogni altro espediente) abituandolo a correre dentro le faglie sotterranee del tempo. I qipao, contenitori di ellissi, simboli di un tempo cristallizzato in stoffa colorata, adeguano lo sguardo all’antinormativa del film lasciandolo libero di fare la conoscenza di una realtà del racconto, nel senso di storia raccontata e pertanto soggetta a imprecisioni, omissioni, adulterazioni. Mentre la narrazione cede lentamente il passo al linguaggio, le parole alla poesia, il tempo occupa completamente lo spazio mostrandosi esso stesso come oggetto (oggetti) che Kar-wai continua a filmare. In altri termini: mentre gli eventi si nascondono nel “riportato” (le parole dette dai personaggi che sintetizzano l’accaduto con tutte le imprecisioni e senza garanzie di oggettività), i materiali, i colori, gli oggetti, i cheongsam coloratissimi e vividi indossati dalla Sig.ra Chan, così come le zuppe di noodles, prendono il sopravvento definendosi prima come componenti essenziali di uno spazio che limita i corpi (gli ambienti ristretti e ottusi della casa della signora Suen, oppure l’arcata di un vicolo dove Su e Chow si rifugiano per ripararsi dalla pioggia) quindi prolungandosi nelle faglie di un tempo sconosciuto di un qui e ora che non ci è dato conoscere, un tempo segreto che Chow bisbiglia nella fessura del tempio di Angkor Wat, tra le rovine di una civiltà scomparsa. Gli aspetti a prima vista più insignificanti, forse quelli meno intensi mostrati nelle classiche storie d’amore, ossia i vestiti indossati dagli amanti (a meno che non sia biancheria intima mostrata solo per poi essere tolta), il cibo (Su che esce per andare al negozio di noodles), la tecnologia (la rice cooker), il gioco del Mahjong, sono tutto ciò che ci è dato vedere (il gioco del Mahjong non è però neppure mostrato ma solo citato). Sono simili a deittici che prendono il sopravvento, risalgono alla superficie, uniche garanzie di un accaduto già perso, offuscato, come un sogno già dimenticato al risveglio. Poiché non è possibile ricostruire nella memoria un accadimento (figuriamoci pertanto un amore o addirittura una speranza d’amore), a meno che non si crei una classica “trasparenza” nella fiction per un’illusione di realtà, una verosimiglianza posta come regola (nel senso di proporre al pubblico un evento come vero), non rimane che sondare le debolezze del ricordo pieno di lacune, punti non chiari, omissioni, in grado pertanto di riportare un mondo frammentato e indefinibile.

(1) Silvio Alovisio, Wong Kar-wai, Il castoro cinema, Milano 2010, p. 148

7 luglio 2012

Hunger (Steve McQueen, 2008)


I corpi si dislocano, si contorcono, si percuotono, si rompono e si consumano delineando un percorso geometrico che si muove all’interno di un recinto senza uscirne fuori. L’aspetto più eclatante del film è la capacità autoriale di formare espressioni geometriche dall’utilizzo dei corpi e degli ambienti. Tutto è così pacatamente perfetto. Nelle prigioni, latrine puntualmente sporcate dai prigionieri (dirty protest), le feci si cristallizzano in cerchi concentrici, le celle si affacciano su un corridoio ripreso in prospettiva frontale: il classico disegno geometrico che appassionava i pittori rinascimentali. Il dialogo tra Bobby Sands e Padre Dominic Moran, del piano sequenza punto focale dell’intero film (circa diciotto minuti ininterrotti), avviene tra i tavolini della sala mensa vuota: nel tavolino centrale di tre file di tre tavoli ciascuna (la prima è fuori campo e intuita dallo sguardo da una sezione di tavolo che sporge proprio sotto la mdp), seduto uno di fronte all’altro, vi sono i due interlocutori: idealmente pertanto la “scatola prospettica” è formata da nove tavoli disposti simmetricamente, mentre il punto di fuga è serrato da una quinta di fondo, una parete decorata da due cornici parallele che “attraversano” esattamente la linea delle teste dei due uomini; inoltre il numero nove (anche se “mentale” perché i tavolini mostrati sono sei + una parte di uno) equivale a un numero tre (ricorda le tre dimensioni newtoniane) elevato alla seconda. La mano dolorante del poliziotto inglese mostra le cinque dita sanguinanti, un pugno dolente che ha offeso un uomo nudo, un prigioniero indifeso. Ancora un numero che sintetizza (come anticipazione del prologo) il dolore di un pugno, scarnificazione e contrappunto delle Five demands dei prigionieri politici, cinque diritti negati dal governo britannico. Poi vedremo i pestaggi e la sofferenza dei prigionieri dell’IRA che non vedono riconosciuto il loro status di prigionieri politici. Ritengo che la geometria sia la cifra di una tentazione, un pensiero che osi (molto complicato ma affascinante allo stesso tempo) rompere la forte coesione di un mondo nei confronti della politica di Margareth Tatcher e della sua ostinazione/forza morale(?) nel non trattare con i “terroristi”. Molto complesso entrare in questi ragionamenti “politici” ma McQueen non è Loach, nel senso che non ha interesse a denunciare gli eccessi della politica conservatrice della Lady di Ferro addirittura da oltre trenta anni di distanza. Il suo interesse è molto più profondo, va oltre i giochi di forza tra l’Irish Republican Army e la ricercatrice chimica. Nonostante le celle cloaca dell’incipit il film lascia un senso di pulizia, uno pseudo-candore paludato, una sorta di benessere di riflesso che rende le violenze e i disastri distanti  dal nostro mondo (sia nel tempo che nello spazio) e pertanto non in grado di coinvolgere lo spettatore. Con questo non intendo affermare che il film non susciti emozioni. Tutt’altro. Non è  lo spettatore di questo film a essere messo in discussione, ma lo spettatore degli eventi, l’uomo rannicchiato nel proprio mondo, allontanato e distratto che sente dalla tv, o legge sui giornali, di dieci uomini morti per avere digiunato. In fondo il mondo che McQueen intende macchiare di escrementi concentrici è un artefatto politico, un sentore di cose e vago adulatore di immagini lontane (telegiornali, spezzoni di reportage) intense e drammatiche ma non coinvolgenti. Spettatore del tutto simile alla madre del poliziotto che rimane immobile (causa la malattia) davanti all’esecuzione del figlio colpito con un proiettile alla testa proprio davanti a lei. L’immagine dell’uomo dalle dita doloranti, adesso appoggiato sul grembo della madre immobile sta all’immagine di Bobby Sands nel silenzio della sala mensa che annuncia al prete la decisione di digiunare. Questi effetti stranianti, resi con geometrie che ricordano le scenografie scarne e semplici del teatro elisabettiano, ma anche con sfumature di colore che dallo scuro (le celle cloache immerse nelle deiezioni, il corridoio) digradano verso il bianco (la degenza di Bobby Sands ormai ridotto a pelle ossa causa sciopero della fame) passando per i colori dei maglioncini e dei pantaloni imposti dall’autorità, dal candore dei panni ai mobili con cui i secondini arredano, dopo averle pulite, le ex cloache, questi passaggi dalla periferia al centro (i due prigionieri  dell’incipit che ci portano a conoscere Bobby Sands interpretato da un bravissimo Fassbender), oppure le dita doloranti del secondino (che ci portano al pestaggio di un galeotto), restituiscono il dramma profondo e irreversibile di una lotta che ha segnato profondamente la storia inglese degli anni ottanta del secolo scorso. Allo stesso tempo ci informano di una struttura filmica che riesce a coinvolgere all’interno lasciandoci all’esterno. Ossia mentre rimaniamo fuori, assorti nei silenzio prolungato dei protagonisti, assistendo a pestaggi e discorsi che non comprendiamo più (forse) ci rendiamo lentamente conto di essere entrati nel plot, di essere parte integrante di un mondo in fondo più vicino a noi di quanto pensiamo, scoprendo in tal modo che all’interno di una geometria di carne, sangue ed escrementi, il cinema pulsa di vita propria calandoci nel clima angosciante e inamovibile di un mondo ancora oggi ritenuto (mi riferisco a quegli anni di violenza in Gran Bretagna) il migliore possibile, visti i presupposti. Quando Booby Sand dice a Padre Dominic Moran, che cerca di convincerlo a desistere dai suoi propositi, di saltellare tra retorica e semantica, non fa altro che sintetizzare la cifra di tutto il film: un lavoro che penetra nell’angoscia e nella disperazione senza retorica e senza pomposi discussioni politico-semantiche che avrebbero indebolito la sua capacità di penetrazione. Ecco, il film di McQueen non racconta la fame di cibo o di violenza o di giustificazione o condanna, ma la fame di speranza che viene sgretolata sequenza dopo sequenza, con semplicità, nel candore dei corpi puliti e nudi, delle camerette pastello o persino dalle piaghe che punteggiano il corpo di Bobby Sands, a loro modo perfette e quasi pittoriche.