27 settembre 2010

City Island (Raymond De Felitta, 2009)

City Island è un gioco in atto a cui è possibile partecipare solo omettendo l’importanza della confessione (ognuno nasconde qualcosa che non vuol far sapere agli altri). Ma accade invece che la confessione si affermi sequenza dopo sequenza come scioglimento positivo dell'intreccio senza che le sue potenzialità intrinseche escano alla luce, restando nel vago e nell'indeterminato come unico e definitivo mezzo di sviluppo narrativo, anziché divenire motivo di analisi e conoscenza. Sono soprattutto due i momenti in cui la struttura scricchiola , si allenta, rischiando di far precipitare l’intero film nel cliché: assunzione della menzogna come momento fondante dello spannung e ascensione del figlio nei piani alti del gradimento attualizzato. Il gioco del poker è un topos meno nobile del gioco della fiction (la scuola di recitazione) ma serve a dare valenza positiva alla menzogna, poiché dopo tutto mentire entro certe regole indotte dal senso comune (o meglio, dal senso determinato dai media) rientra nei limiti di garanzia di una performance omologata; nel momento in cui Vince Rizzo nasconde alla moglie le sue lezioni di recitazione, giustificando le uscite serali con il gioco del poker, non solo non altera, né sconvolge il valore normalizzato di un'etica attestata sulla medietà, ma trasferisce l'atto "negativo" e potenzialmente pericoloso nel limbo delle cose buone e rassicuranti; infatti il gioco del poker (menzogna evidente e indiscutibile che persino sua moglie Joyce riconosce come tale) acquista connotazioni diverse in base al valore dato all'altra espressione dell'equazione. Il poker che nasconde un incontro d'amore non è la stessa cosa del poker che occulta una scuola di recitazione. Scelta non lungimirante, perché se il poker avesse mantenuto lo stesso valore costante in entrambi i casi (o positivo o negativo) a mio avviso il film ne avrebbe guadagnato in originalità. Steven come "catalizzatore" del racconto non è solo un personaggio-funzione fallito per via dell'eccessiva semplificazione caratteriale (riflessivo, galante e addirittura capace di resistere alla tentazioni - insomma il personaggio perfetto di tanti film di tendenza), ma è pure personaggio-accadimento necessario per ordinare e dipanare tutte le linee narrative non completamente funzionali, sebbene non idoneo a far convergere i numerosi motivi enucleati nel plot (tradimento, passione, originalità, obesità come desiderio, pole dance come momento più ludico che espressione di sofferenza e di una scelta dolorosa, ecc.). In effetti, pur non mettendo in dubbio le scelte narrative adottate che "riducono" un carattere a un'algida funzione (bisogno di un fattore esterno che rompa l'equilibrio instabile dell'incipt per restaurare un altro equilibrio più rassicurante per la middle class americana ma non solo), ritengo che sarebbe stato più utile trovare un altro tipo di funzione restauratrice da trovarsi nel senso stesso del segreto, ampliando e approfondendo magari il personaggio di Steven e innalzandolo al rango di ulteriore "promotore" di instabilità. Eppure, nonostante questo, il film funziona perché il valore del segreto in sé, come momento fondante di un ragionamento e di uno sviluppo narrativo, acquisisce continuamente nuove valenze. Un segreto non è tale se non lo si racconta agli altri e durante l'incontro-happening col professore di recitazione, con conseguente formazione di una coppia (Vince e Denise) allo scopo di liberarsi dei propri segreti, sostiene la bellezza del film proprio nello stabilire un nuovo livello di "verità", che non equivale alla "rivelazione del segreto", ma al suo stesso evolversi da dogma (paura di Vince nel rivelare un suo fallimento come attore, i tre bimbi che Denise ha abbandonato, ecc.) a principio di costruzione, costantemente fluido e in movimento e pertanto non definibile (la verità non è solo il traguardo di un nuovo equilibrio raggiunto dalla famiglia Rizzo, ma è soprattutto il percorso seguito lungo il quale è stato possibile conoscere la metamorfosi di una famiglia). In effetti, per dirla con Sant'Agostino “[…] Signore, pure così mi confesso a te per farmi udire agli uomini” (Le Confessioni, 10, 3, 3), Vince si confessa con Denise per rivelare al mondo il suo segreto poiché come sarebbe possibile l’esistenza di una verità sottaciuta? Senza questa rivelazione (tra l'altro poco incisiva in un film per lo più non focalizzato), questo City Island non avrebbe avuto senso e probabilmente sarebbe stato un'altra cosa. Dal momento che comunico di nascondere un segreto, già navigo in un canale che sfocerà nel racconto del mio segreto, con la conseguenza di non avere più segreti dal momento in cui affermo di nascondere qualcosa nell'anima. Lasciare insomma indizi per portare alla superficie le nostre turbe è l’espressione del bisogno di condividere la malattia che ci soffoca quasi come per cercare una boccata di ossigeno. Questa boccata arriva con una delle più belle sequenze di Rizzo che imita Marlon Brando durante un provino, trasformando un banale esame nell’ecfrasi tutta personale di Andy Garcia intento a imitare il grande interprete del Padrino attraverso la voce impacciata ed emozionata di Vince. Una splendida sequenza. City Island un po' meno.

19 settembre 2010

Lebanon (Samuel Maoz, 2009)

Il mondo esterno visto attraverso il mirino di un carro armato può essere qualsiasi cosa: una città rasa al suolo dall'aviazione israeliana, con le rovine, i morti, ma anche con i poster attaccati ai pochi muri non crollati che una volta ospitavano sale arredate, cucine, camere. I poster mostrano la Torre Eiffel, il Big Ben ed anche, immagine emblematica, il World Trade Center di New York che all'epoca era ancora in piedi. La realtà, vista dalla distanza di un mirino (anche se vicina), continuamente "interrotta" da immagini del mondo occidentale, si fa amorfa, si mescola, diventa qualcosa di impalpabile, etereo, che non ha più valore. L'unica realtà tangibile, consistente, si trova all'interno del carro, si sviluppa nell'umidità dell'acciaio delle pareti, al di sopra della pozza d'acqua che ricopre la base del mezzo e sui volti sempre più sporchi e sofferenti dei soldati. Ogni tanto il mondo di fuori irrompe con violenza e forza dall'apertura del portello della torretta del carro con l'entrata di un ufficiale, di un prigioniero siriano, un soldato israeliano ucciso, un falangista cristiano loro alleato: spezzoni di reale trasferitosi dal "mondo" esterno visto dall'interno attraverso il mirino, emblemi del fuori che sorgono nel dentro come incarnazione di un'inquadratura. La realtà in questo modo mostra la sua ineluttabile cogenza, la pertinenza del mondo-ambiente, la sua forza cruda, che deve essere utilizzabile anche al di qua del mirino poiché una coscienza precisa del mondo ci appartiene anche quando non ne siamo consapevoli (1). In questo modo la distruzione relegata nel fuori, la morte, le torture, la disperazione, non sono uno spettacolo distante e angosciante, anche se a volte possono sembrarlo. La distruzione mostrata dallo schermo, trasportata nell'etere fin nelle nostre case, non è percepita come tale; non per questo viene negata ma, essendo solo una proiezione, un riflesso, viene spesso rimossa e/o allontanata. Nel carro invece non è possibile perché il sangue (il cadavere del soldato), la politica con le sue ambiguità e perversioni (il falangista), il potere (l'ufficiale israeliano), il nemico (il prigioniero siriano) si mostrano in tutta la concretezza, il simbolo s'incarna e si fa tangibile, verificabile. Il carro non è solo ferraglia che serve a uccidere e a proteggere, è anche una sorta di ossimoro. Il metasemema si forma dalla compenetrazione di due forze apparentemente opposte: ferocia all'esterno, ossia capacità del mezzo di portare morte e distruzione (i palestinesi uccisi dalle raffiche), dolore e sofferenza (il trasportatore di polli e la moglie che ha appena perso il marito); protezione all'interno della tana per i soldati che ci vivono, sperando che l'operazione finisca il prima possibile. Il carro armato è come una fiera in azione che aggredisce ma anche rassicura almeno noi spettatori con l'apparente immunità degli "eroi" e con la forza distruttiva del mezzo. Contribuisce a sottolineare questa "doppia personalità" l'estrazione di una realtà vista come riflessa da uno specchio e pertanto non percepita in tutta la sua drammaticità: in fondo la distruttività del mezzo è come tenuta a distanza, nascosta dal mirino, come una bomba al fosforo camuffatasi da fumogeno. Il "ritorno" al campo di girasole e il momento in cui il soldato, illuminato dal sole, appare sulla torretta, non rappresenta il classico finale di un film di guerra. Il nemico sembra assente, il paesaggio sembra un momento di riposo, una pausa bucolica prima di altri tragici fatti; la guerra non è finita: solo tre mesi dopo la prima guerra libanese (giugno 1982) avvenne il massacro di Sabra e Shatila compiuto dai Cristiani falangisti con la connivenza dei comandi militari della forza d'invasione in Libano che non intervennero per evitare la carneficina. La guerra non finirà mai perché non assistiamo al ritorno del soldato nella "pace" della famiglia in trepida attesa. Rimane soltanto l'immobilità della natura, impotenti girasoli mossi dal vento che accolgono loro malgrado la ferraglia di un carro e i loro uomini persi, incapaci di determinare un cambiamento.
(1) cfr. Heidegger, "Essere e tempo"

15 settembre 2010

L'uomo nell'ombra (Roman Polanski, 2010)

Immobilità del testo

L’auto abbandonata sul ponte del traghetto, mentre le altre escono subito dopo l’approdo, indica un evento accaduto: qualcuno (poi scopriremo essere il ghostwriter di Adam Lang) non ha potuto ultimare il viaggio per annegamento. L’immobilità del mezzo, che viene superato dagli altri al fine di uscire dall’imbarcazione, giustifica la ricerca di un altro ghostwriter e diventa indice di una situazione, effetto di un accadimento (in questo caso la morte del primo scrittore). L’immagine è inquietante perché l’assenza di movimento induce a ricostruire un evento misterioso: qualcuno è stato ucciso. Un oggetto appartiene sempre a qualcuno che prima o poi si presenterà a ritirarlo. Il fatto che lo stesso oggetto venga “abbandonato” sul traghetto dal secondo ghostwriter per sfuggire a due probabili killer, potrebbe amplificare il valore dell’indice (ossia l’autovettura dell’incipit indica una morte), ma questo non accade perché vediamo lo scrittore saltare sulla banchina prima che sia troppo tardi, mentre non ci è dato vedere il secondo arrivo del ferry boat con l’auto abbandonata. L’automobile “ritorna” come nuovo potenziale indice (il cui oggetto in questo caso è un evento che deve accadere) nell’epilogo, quando la vediamo accelerare mentre il ghostwriter sta attraversando la strada. Stavolta è un mezzo in veloce movimento che annuncia un evento funesto. I due veicoli potrebbero comporre un equilibrio, una sorta di equazione inversa, ossia immobilità (chi l’ha abbandonata e perché?) e accelerazione (aiuto, potrebbe colpire il ghostwriter!), potrebbero regolare una perfetta simmetria se non fosse che l’auto dell’epilogo non indica la conseguenza di un accadimento, ma presuppone un’anticipazione che non garantisce un esito certo; non indica un risultato bensì una probabilità, un proposito che ha bisogno di un altro indice quale a esempio i fogli del manoscritto che volano lungo il viale, così come i passanti che corrono in direzione del fulcro dell’evento posto nel fuori campo, sulla destra del fotogramma. La mente ricuce un’assenza, una mancanza (immagine) e ricostruisce un epilogo. Se non vi fossero state le pagine del dattiloscritto avremmo potuto sentire le urla di qualche passante o il rumore sordo della lamiera che ferisce la carne oppure niente, ma in tal caso il dubbio avrebbe preso il sopravvento: è stato investito o no? Non sembrano esservi dubbi, e al manoscritto, più che all’auto, spetta il compito di indicare il fatto. L’auto in questo caso diventa più che altro un mezzo, un gesto, in altri termini un motivo (avviso di pericolo) che ritorna e riemerge in molte circostanze (ad esempio la vettura che insegue il ghostwriter dopo che è uscito dalla casa di Paul Emmett). La bellezza del film scaturisce anche dall’abolizione di revolver e coltelli, mitra e bombe, esplosioni e acrobazie, poliziotti e agenti. O meglio, gli agenti ci sono ma si trovano nell’ombra e sta a noi scoprirlo, i poliziotti forse ci sono forse no. Al contrario l’unico colpo che viene sparato (e che prende in pieno la vittima), concreto, tangibile, udibile, colpisce all’improvviso Adam Lang e quasi dispiace constatare che la funzione del cattivo non sia interpretata da Pierce Brosnan, perché in fondo l’affezione al personaggio induce a volerlo “mente” più che mero esecutore di altrui volontà. Eppure queste sono le regole del thriller: depistare per sorprendere, ma anche regolare la narrazione con motivi e oggetti per svelare senza rivelare, raccontare l’impronunciabile con intensa affabulazione, in altri termini dire molto senza dire niente e lasciare alle immagini, come al montaggio, la più ampia espressività. Riuscire a innervare un plot con immagini apparentemente descrittive (il mare, la pioggia, la spiaggia), lasciar scorrere il sangue nelle vene di una pellicola che sembra non averne bisogno (la suspense, una storia di sesso, un bigliettino che passa di mano in mano, vecchie foto) non significa rinunciare ad una “storia movimentata”.

Accelerazione dell'acronimo

L’accelerazione, impressa nell’auto dell’epilogo, si attesta dentro le inquadrature. Ogni volta che ho sentito dire, all’uscita del cinema: non mi è piaciuto perché lento, mi sono sempre chiesto cosa sia la lentezza. Forse lunghe inquadrature, magari in CL, seguite da panoramiche che lasciano all’occhio il tempo di distinguere, vedere, analizzare il paesaggio. Mentre la velocità, e suppongo l’affezione per il film (perché lo sguardo “non può” rimanere in sospeso per troppo tempo), si evincono da un montaggio più “frenetico” ove dominano inquadrature brevi, campi, contro campi, magari veloci movimenti di macchina (che non permettono di distinguere) e carrellate e/o voli della mdp che schizza in ogni direzione e altezza. Però questa storia aveva bisogno di mostrasi con delicatezza, essere assorbita lentamente per permettere alle immagini di accelerare. E questo è stato possibile con un montaggio accorto e preciso dove nessuna inquadratura sembra giustapposta casualmente tanto per far progredire la storia. Le sequenze sembrano partire “lente” (molto descrittive) per accelerare quasi come per giungere in tempo all’epilogo o meglio all’intenzione di un epilogo (È morto? Si è solamente ferito?). Come l’auto da statica e concreta (la vediamo) diventa statica e ideale (quando viene abbandonata la seconda volta), poi simile a un automa condotto dal navigatore, infine sempre più veloce, allo stesso modo un cellulare può diventare protagonista: dapprima mero oggetto utilizzato per scoprire la voce di un misterioso numero telefonico, poi addirittura in movimento sul tavolo indotto dalle vibrazioni causate da una chiamata a cui il secondo ghostwriter non intende rispondere (da oggetto a funzione). Così lo stesso manoscritto: prima un volume di oltre seicento pagine apparentemente insignificanti (lo scrittore ne cancellerà molte) poi oggetto ricercato e desiderato (Per il suo valore? Ma non può valere niente!) in quanto rubato nell’incipit e quindi consultato nell’epilogo per rivelare un codice che non si trova celato nel racconto di una vita, ma si dispiega nella rivelazione di un segreto, fino ad aprirsi e volare nei flutti del vento come acheni col pappo appena soffiati via dall’infiorescenza del tarassaco. Pertanto un motivo che ritorna sempre sotto una nuova pelle: causa efficiente di un progetto, corpo da revisionare per rifondare una vita e infine vacue parole che celano un codice, un “dispiegamento". Ciò che interessa non è il racconto del manoscritto, lo svelamento del motivo della scelta e della personalità di Adam Lang, ma la sua stessa struttura, in altri termini la verità mimetizzata nell'acronimo (le prime parole di ogni capitolo svelano un mistero) è il termine del viaggio dell'eroe; poi non importa se quel bigliettino che passa di mano in mano cede sintropia al sistema reintegrando nuova energia (ossigenando per un attimo il plot), perché niente è più pericoloso di un manoscritto che cambia per l'ultima volta la sua pelle indicandoci l'inutilità della storia: lo scrittore rischia grosso ad amare i propri personaggi fino a fare sesso con la donna del capo (un classico) che poi sarà la sua prevedibile nemesi solo per aver disvelato il senso profondo di un testo.

6 settembre 2010

Io Sono L'amore ( L. Guadagnino, 2009)


Incentrato sulle vicende della ricca famiglia lombarda dei Recchi, composta da Emma e Tancredi e dai loro figli Elisabetta, Edoardo e Gianluca. Tra riti borghesi e convenzioni sociali, si consumano le storie dei vari membri della famiglia, alle prese con gli affari dell'azienda familiare e ruoli che la loro posizione gli impone. L'algida Emma troverà conforto e amore tra le braccia del giovane cuoco, Antonio. La passione che scoppia tra i due distruggerà equilibri e rapporti all’interno della famiglia.

Probabilmente un film dalle grandi pretese, ma che affascina per una sua particolare eleganza che si protrae come un sussurro perpetuo e asfissiante. In una Milano assente e lontana dai soliti stilemi da metropoli con il quale si è soliti descriverla, una Milano intima, da interni apparentemente caldi e familiari si trovano le vicende della famiglia Recchi. Nel dettaglio, esteticamente curato, che si trova, tra il susseguirsi delle immagine raccolte, una sinfonia del gusto sociale e culinario, dell’amore sempre devastante e della formale “clausura“ borghese. Lo spazio aperto si è chiuso per lasciarsi conoscere meglio nei suoi angoli più intimi. Piccoli angoli di calore sconosciuti. Tra i possibili concetti che il film, bene o male, può mostrare c’è quello della forma del gusto, un gusto che nella borghesia trova solo il sapore “dell’ esserci”, della manifestazione di fatto come semplice oggetto che appare, ma che, fuori da schemi preordinati trova invece piacere nel palato e non solo. L’arte culinaria diventa metafora della borghesia che ama possedere le cose mantenendo la giusta distanza e che né evidenzia la loro distinzione. sociale La classe borghese è qui rappresentata attraverso la loro disposizione estetica che come ricorda Boridieu è una disposizione che tende a mettere tra parentesi la natura e la funzione dell’oggetto rappresentato e tende ad escludere qualsiasi reazione “ingenua”, (1) come l’orrore di fronte all’orribile, desiderio di fronte al desiderabile e, come in questo caso di amore di fronte a ciò che è amabile, o meglio , di fronte a ciò che deve essere amato. In questa estetica della distanza tutta borghese sono la moglie Emma e la figlia Elisabetta che si ribellano a ciò, la prima attraverso la sua relazione con il cuoco Antonio, amico del figlio Edoardo e la seconda scoprendo la sua omosessualità che ha rivelato solo alla madre. Edoardo è una figura che sta in mezzo, da un lato come figlio maschio,portatore del nome del nonno, amato dalla madre che non dovrebbe deludere le aspettative dei “padri”, ma che invece cade per ben due volte, inizialmente perdendo una gara di canottaggio dall’altro vorrebbe aiutare l’amico Antonio a realizzare un ristorante a discapito dell’azienda di famiglia che è già in declino quanto i suoi proprietari. Si rivela il più sensibile, ma non è lui colui che darà il colpo di grazia a questa farsa del buon vivere, Il nonno, padre fondatore della famiglia funziona come una vite che tiene in piedi una struttura di comportamenti rigorosi, Il nonno "non ama le sorprese": non tollera che l'unica nipote femmina cambi, da pittrice a fotografa, senza averlo avvertito; o che il nipote prediletto abbia perso l'ultima gara di canottaggio. Già deve digerire Tancredi, il figlio smidollato e senza carisma, cui i diritti di successione imporranno, suo malgrado, di affidare il vertice della sua fabbrica. Sarà Emma, la moglie venuta dal freddo che, come un complesso innesco silenzioso, modificherà del tutto il gusto circostante, il suo volto come specchio rivolto a noi ci mostra il turbamento inquieto che è già nostro sin di primi minuti del film, ci costringe a cercare una via di fuga, a chiederci se è possibile tutto questo per poi confortarci attraverso i suoi occhi e attraverso il suo corpo, disperato e desideroso di potente amore. Così Emma pone a sè quella differenza che potremmo in questa sede definire come la differenza tra il gusto e la gastronomia. Se il gusto è il dono naturale di riconoscere e di amare la “perfezione”, dove Emma si è completamente immersa, la gastronomia è l’insieme delle regole che presiedono all’educazione del gusto, ma Emma ha voluto eccedere alla regole, portandosi dietro le naturali conseguenze che tanto amore può causare.


1)Bordieu P. La distinzione Critica sociale del gusto, il mulino, bologna, 2008)