31 agosto 2010

Agora (Alejandro Amenábar, 2009)

Dopo le didascalie che introducono il periodo storico appare il nostro pianeta blu visto dallo spazio, un'immagine conosciuta, un pianeta che nella realtà quotidiana non è possibile vedere nella sua totalità, perché la nostra prospettiva appartiene al dentro e la vista dal fuori può essere solo supposta oppure accertata con l'ausilio di foto scattate dallo spazio e oggi persino con Google Earth. Sulla superficie, visti dall'abisso della distanza, somigliamo a una miriade di formiche che si muovono freneticamente e si agitano, si industriano, discutono, litigano, combattono, si uccidono. La verità astronomica, oggi naturale ed ovvia, che si trova al di là dell'apparente esperienza empirica, è un fatto matematico, è la scienza, presuppone la capacità di uscire dal proprio corpo e "volare" con la mente nello spazio. Anche il cinema richiede la capacità di astrarre e di costruire, di comprendere il rapporto tra le immagini e le geometrie all'interno dell'inquadratura. Vedere il parabolano che cammina velocemente nel fuoco, quasi come un impacciato prestigiatore che non convince nessuno, esclusi i cristiani di Alessandria, equivale ad accettare una prospettiva storica e a domandarsi: noi a cosa avremmo creduto? Invece vedere il pagano bruciare, dopo essere stato gettato nelle fiamme, ci riallinea agli spettatori dell'agora: gli dei sconfitti non possono niente mentre il nuovo dio protegge le sue pecorelle. Ma la prospettiva del film è storica: oggi possiamo giudicare con maggiore serenità, perché conosciamo gli eventi e perché sappiamo che Ipazia era una scienziata che non credeva a ciò che vedeva bensì a ciò che poteva ricostruire con la ragione. L'occhio viene facilmente ingannato da quello che vede mentre la mente si rifiuta di credere a forze che certamente esistono anche se non sono visibili a occhio nudo. A volte servono strumenti (microscopi, telescopi), e soprattutto può servire un punto di vista onnisciente, e nel caso di un film sulla vita di un'Astronoma, serve uno sguardo dal cosmo. Mentre Oreste suona il flauto doppio nel teatro in onore di Ipazia, lo sguardo distante, sereno, osserva la Terra, osserva Alessandria del V secolo. La prospettiva non è solo quella di un dio: è anche un viaggio nella mente di una donna che non poteva (visti i mezzi dell'epoca) "vedere" la rotazione delle sfere celesti, ma che "sapeva" discernere e ricostruire. Lo spazio extraterrestre, con vista sulla Terra e il suo satellite, sono il locus amoenus di noi spettatori, sono la nostra platea. Non ci troviamo seduti nel teatro di Alessandria a seguire le storie d'amore e di morte e gli scontri tra le varie fazioni, ci troviamo piuttosto in un'altra epoca e sappiamo quanto in fondo potremmo trasformarci in formiche piene d'odio. Amenábar non vuole raccontarci la barbarie dei parabolani che uccidono una donna, perché nell'epilogo la mdp si allontana dall'agora per farci intuire più che mostrarci il momento in cui i cristiani fecero a pezzi la scienziata. La realtà storica è ancora peggiore: Ipazia fu squartata con le conchiglie (forse cocci di tegole). Eppure ad Amenábar interessa mostrare la verità e per questo è sufficiente ascendere, assumere il punto di vista onnisciente, mentre l'inganno, la prestidigitazione, è nelle cose terrene, si trova nell'oscurantismo e nel dogma. Il film mostra il percorso dell'errore che diventa legge, ossia credere alla fissità della "scrittura", anziché alla mobilità della ragione e del sentimento. I cristiani rimpiccioliti dalla plongée che sciamano tra l'agora e i templi, dopo la distruzione della biblioteca, sembrano formiche che escono dal nido per una battaglia. La sensazione è amplificata dalla velocità dei movimenti di quei "punti neri" che brulicano in ogni dove. Oltre a una distanza spaziale (una visione innaturale per l'epoca) si aggiunge una distanza temporale (le "formiche" che velocizzano i movimenti). L'accelerazione del tempo preannuncia la sequenza di una nuova visione dal vuoto: si vedono sulla destra la Grecia e l'Anatolia con il nord posto sulla base dell'inquadratura, poco sopra Creta e Cipro e l'Egitto con il delta del Nilo. Il Mediterraneo è mostrato per metà in un unico colpo d'occhio. Il mare sembra una pozzanghera. Gli uomini si schierano in fazioni e si uccidono solo per affermare le loro verità quando l'Immenso dei loro occhi è infimo fango calpestato da un gigante:

Dopo essersi riposati un poco, mangiarono per colazione due montagne, cucinate abbastanza bene dai loro servitori. Poi vollero esplorare il piccolo paese dove si trovavano.[...] Siccome quei forestieri camminavano abbastanza presto, fecero il giro del mondo in 36 ore [...]. eccoli così tornati al punto da cui erano partiti, dopo aver visto quella pozza, quasi impercettibile per loro che chiamiamo Mediterraneo [...] (1)
Per Micromega, abitante di Sirio, il Mediterraneo era solo una pozzanghera e per il saturniano che lo accompagnava (un nano rispetto al siriano) era appena più grande. In un mondo così piccolo ai loro occhi era impossibile scorgere certe pulci microscopiche chiamati uomini e per il nano (l'abitante di Saturno) sulla Terra non c'era nessuno. Ma Micromega "[...] gli fece capire , educatamente, che non era un bel modo di giudicare, perché, diceva, «voi non vedete, coi vostri piccoli occhi certe stelle di cinquantesima grandezza che io vedo molto chiaramente: concludete perciò che quelle stelle non esistono?» (2)
Questa inquadratura dallo spazio divide la narrazione in due parti: la prima è come una lunga introduzione e racconta l'avvento del cristianesimo ad Alessandria e la perdita della biblioteca; la seconda parte descrive il cambiamento nei costumi che diventano più morigerati, il consolidamento del potere dei parabolani e del Vescovo Cirillo e la debolezza del prefetto Oreste (convertitosi al cristianesimo) e infine i fatti che portano alla morte di Ipazia. Una zumata ingrandisce le regioni e si focalizza in una zona poco distante dal delta del Nilo dove, tra la palude Mareotide e il Mediterraneo, si trova la città di Alessandria. Adesso sono visibili gli edifici e quello che è rimasto della biblioteca, la mdp attraversa una finestra e inquadra la camera ardente del vescovo Teofilo appena morto. Quindi il nipote Cirillo prende il suo posto. La sequenza seguente ci mostra l'aggressione agli ebrei riuniti a teatro. Le pietre scagliate contro di loro sono pietre scagliate contro l'arte. Dopo la distruzione della scienza (la biblioteca del Serapeo) adesso tocca all'arte (il teatro). La struttura del film segue questa contrapposizione: da una parte immagini dall'alto e dallo spazio come simbolo di prospettiva storica portatrice di verità e di conoscenza (i fatti della storia come, ad esempio, le persecuzioni contro altri famosi scienziati e filosofi tra i quali Giordano Bruno e Galileo Galilei), nonché le sequenze che mostrano un'Ipazia scienziata, libera pensatrice, unica donna tra tanti uomini che vuole affermare il proprio diritto di pensare e di lavorare; dall'altra lo sciamare del fanatismo, sequenze di uomini che impongono la propria visione del mondo soprattutto con la violenza e distruggono la libertà. In Agora dominano il chiaro e lo scuro (3) che non sono una forma di manicheismo per crittografare e separare i buoni dai cattivi ma una scelta formale per dividere la scienza dall'oscurantismo, la conoscenza dall'ignoranza. Intorno vi sono le sfumature del grigio, i dubbi e gli errori anche dei colori chiari. Alessandria stessa d'altronde è bianca e dietro si staglia infinito il bianchissimo deserto. Le nubi della stratosfera, viste dall'alto sono bianche. In altri termini il bianco, il chiaro, non sono simbolo di bene e serenità bensì di ricerca e sofferenza, consapevolezza del dubbio, paura e sconforto; rappresentano la debolezza dell'uomo (Oreste che teme Cirillo e prega Ipazia di convertirsi, il Vescovo Sinesio che rimprovera Oreste per non essersi inchinato al cospetto di Cirillo). Il nero e l'oscurità al contrario rappresentano la forza della certezza, l'assenza del dubbio (la Terra è piatta), la semplificazione eccessiva (ogni cosa è già scritta nei testi sacri), ma anche il cliché (le cose sono come le vediamo) e l'inganno (la magia che scaturisce da un dio protettore). Interessante notare che Ipazia a volte porta vestiti scuri: probabilmente perché la sua è la certezza nella forza della ragione, una sorta di ragionamento di tipo illuminista e positivista ante litteram. Agora è un film che non mostra la pietà per l'uomo (e questo credo rispettando il senso del concetto di bene per l'uomo antico), cerca al contrario di dare il senso della perdita e della sconfitta. Allontanando la mdp nel momento in cui la salma di Ipazia viene lapidata per poi essere tagliata a pezzi (e questo immagino per rifuggire dal cattivo gusto) Amenábar preferisce mostrare la stessa immagine dell'incipit di una Terra vista dallo spazio come contrappunto dello sguardo di Ipazia che osserva per l'ultima volta il cielo prima di morire soffocata. Grande è il rammarico per la perdita di una donna (peraltro gravissima come tutte le morti violente di ogni tempo), e soprattutto per un'occasione persa.

(1) Micromega in: Voltaire, Candido Zadig Micromega L'ingenuo, Garzanti, Milano 1973 p. 178.
(2) Ib.
(3) Semplificando: il bianco e il nero.

27 agosto 2010

Lourdes (Jessica Hausner, 2009)

Le lunghe inquadrature quasi sempre fisse di personaggi che si muovono impercettibilmente, come esseri incapaci di qualsiasi movimento, non sono l'unico aspetto (com' è stato detto, ricordano il cinema di Kaurismaki) di questo splendido film. In particolare mi soffermerei su due momenti qualificabili come due scelte (forse due stilemi), due momenti fondanti del rapporto tra il nostro ego e ciò che lo influenza ma anche ciò che lo sostiene: sogno e filmico (1). Questo film è una proiezione: nel senso che oltre ad essere proiettato, naturalmente su una tela bianca, è anche un film sulle proiezioni e su gli argomenti connessi (sogno, immaginario, cinema). Ma non si tratta solo di una proiezione "esteriore" o meglio di una proiezione che riguarda le speranze e i desideri (e anche le invidie se questi desideri vengono realizzati da altri) di tante persone impedite nei propri movimenti, bensì di una proiezione interiore, riferibile sia alla propria interiorità intesa non solo come distacco dal corpo, ma come coordinamento del corpo, sia al sogno, a ciò che non è possibile controllare anche se ci appartiene. Il fatto che la Vergine sopraggiunga nel sogno, a meno che il "malato" non decida di bluffare, non rientra nel controllo e nelle possibilità di movimento di chi desidera guarire: è un dato di fatto, una sorta di realtà anche se onirica. Nel sogno il movimento è libero anche se incontrollato, le prospettive non sono geometriche, i numeri non compongono somme e i volti che osserviamo sono noti ma anche non lo sono e soprattutto si trasformano mentre lo spazio, apparentemente legato alla prospettiva, in realtà si disgrega e si ricompone continuamente davanti ai nostri "occhi" e il tempo rimane sospeso senza mai scorrere. Eppure arriva la Vergine ("La notte mi è parso di udire una voce che mi diceva di alzarmi...") e dice a Christine di alzarsi e lei si alza e va in bagno e si pettina allo specchio. Potrà in tal modo gustarsi un gelato, consumato seduta all'aperto, davanti a un tavolino di un bar della graziosa cittadina di Lourdes. Il sole che "ti" sfiora la pelle e "tu" che puoi andargli incontro e la salita faticosa sulla montagna che puoi finalmente scalare. Ma questo in fondo è il sogno, mentre la realtà, quella dello spettatore legato alla sua sedia, offre soltanto la possibilità di osservare da seduti una dissolvenza. In una sequenza Christine, da poco miracolata e guarita nel corpo ma non nell'animo (D. "Ma... dentro di lei ha sentito una specie di illuminazione? R. Non proprio.... Crede che cambi qualcosa?), viene ripresa seduta apparentemente assorta nei suoi pensieri, osservando davanti a sé non si sa che cosa (forse un altare o forse la Madonna?). Il quadro è diviso in due parti asimmetriche: a destra vediamo Christine sulla sedia porgendo le spalle a tre colonne; circa il sessanta per cento di sinistra è occupato invece dal nero di una colonna ripresa da vicino. Si ha la sensazione che Christine stia osservando una sorta di dissolvenza (il nero del quadro), ma senza che accada niente: né la dissolvenza vuole occupare l'intera immagine, né Christine, così come le colonne dietro di lei, sembrano voler emergere alla vista ricacciando nel ricordo il "nero" di una vecchia dissolvenza. Sembra l'inizio di un nuovo episodio (una nuova sequenza) che stenta a partire, con la dissolvenza che non vuole fagocitare il quadro per permettere una chiusura e una nuova apertura, per permettere a Christine di condurre una nuova vita ("Improvvisamente sento di avere un futuro"). Gli spettatori precedentemente in attesa del miracolo o seduti davanti ad una tela bianca poco prima della "proiezione" (l'attesa prima di immergersi nella piscina), in attesa del proprio turno di speranza offerto a "prezzi modici" (i souvenir dei negozi), rimangono comunque immersi nella solitudine. Incapaci di leggere messaggi, rimangono avvolti nella propria invidia: hanno pagato per lo spettacolo e non hanno ottenuto niente. Al contrario lo "spettatore" Christine, incapace di muoversi, legato alla sua sedia, spinto da parvenze che lo inseguono più che aiutarlo (coloro che spingono la sua sedia a rotelle sono veramente convinti di fare opera di bene?), si alza e danza, scala la montagna, mangia gelati in una Lourdes che pare osannare il business più del grave compito avuto in sorte dal destino (o dalla volontà divina). Ma quando la felicità sembra traboccare dal plot, una felicità ovviamente apparente, quasi suggerita in continuazione dal prete che risponde a qualsiasi dubbio dei pellegrini, e sottolineata dal ballo dell'epilogo al suono di una canzone maledettamente triste ("Felicità: è la pioggia che scende dietro le tende, felicità...."), ecco che il "malato" decide di sedersi per seguire i balli non più come protagonista e/o prescelto (momento onirico), ma come spettatore passivo seduto su una sedia spinta da altri (momento filmico) senza possibilità di scelta. I miracoli possono essere solo sognati, ma nel cinema l'orrore del mondo continua a manifestare il suo insondabile mistero. Basta una dissolvenza per annullare una storia, per annullare la maestosità di un celebre monastero.

(1) "[...] le strutture del film sono magiche e rispondono ai medesimi bisogni immaginari di quelle del sogno [...]. Il film [...] ha una realtà esterna allo spettatore, una materialità, non foss'altro che l'impressione lasciata sulla pellicola. Ma sebbene percepito oggettivamente, sebbene riflesso di forme e movimenti reali, il film è riconosciuto come irreale dallo spettatore, vale a dire immaginario [...]" Edgar Morin, Il cinema o l'uomo immaginario, Feltrinelli, Milano 1982, pp.154-155.

22 agosto 2010

Moon (Duncan Jones, 2009)

Apparentemente sembra fantascienza vecchio stile con l'uso di modellini e la ricostruzione di una Luna (che ricorda le illustrazioni di Chesley Bonestell) con risultati ottimi perché riporta alla mente il nostro satellite visto per la prima volta nel luglio 1969 quando Neil Armstrong, scendendo dal LEM dell'Apollo 11 ("Eagle"), lasciò l'indelebile impronta sul suolo lunare. Pertanto il "viaggio" postmoderno non avviene in uno scenario barocco con immagini digitali che esaltano le meraviglie dell'extra Terra; non avviene neppure nella mente di Sam in quanto non ci è permesso di "visitare" i ricordi e le speranze di un clone che crede di essere un originale. Le sue allucinazioni (in particolare la donna seduta sulla poltrona) ricordano quelle di Solaris, mentre la tecnologia (in particolare il robot) ricorda quella di 2001: Odissea nello spazio. Ma non sono la stessa cosa. Le allucinazioni non dialogano con Sam, ma sembrano indizi da seguire per "cucire" un percorso non solo all'interno del film, ma anche all'interno di un certo cinema di fantascienza. In particolare la ragazza sembra somigliare più alla quindicenne Eve che a Tess (se non altro dal taglio e dal colore dei capelli). Probabilmente non lo è, ma sono stato rapito ugualmente da questa visione che conduce più alla figlia adolescente che alla bellissima moglie (durante le allucinazioni amatorie di Sam la vediamo identica a quella della video telefonata). GERTY sembra HAL 9000, e si comporta in maniera opposta anche se forse è un HALL che sa di avere di fronte un uomo innocente portatore di una purezza ormai perduta. GERTY HALL sa di ingannare e in qualche modo, obbedendo ai cloni, disobbedisce agli uomini. Le allucinazioni non sono solamente l' "incarnazione" di ricordi innestati a Sam 5 (e anche a Sam 6) ma anche un tentativo di raccontare la distanza abissale della vita terrestre dalla vita del clone: Eve è già cresciuta, si è materializzata in una proiezione di Sam che "sa" di essere fuori sintonia, fuori dal tempo. Rivivere continuamente quei brevi tre anni (questa storia mi ricorda un bellissimo racconto di Frederik Pohl del 1955: Il tunnel sotto il mondo), "rigenerandosi" in un altro clone, lo porta ad essere una istanza di vita che prima o poi prenderà coscienza della propria diversità e l'incontro dei due non fa che amplificare il desiderio di urlare la propria innata umanità. Non importa chi si salverà, perché in fondo l'istanza, il personaggio Sam, è sempre stato lo stesso, anzi, tutti i cloni (anche quelli dormienti) sono in realtà "veri" doppi di un "finto" Sam invecchiato sulla Terra che non ci è dato neppure di vedere. Gli uomini sono assenti, l'umanità è già perduta. Il viaggio non avviene nello spazio o all'interno della mente, ma attraversando la storia dei ricordi e dei gesti dei cloni, la storia di costruzione del personaggio: è un viaggio, un progetto che afferisce a una ricerca. In Moon la conoscenza implode nei dialoghi dei due cloni, si innesta nella consapevolezza di essere gemelli identici, due "uomini" connessi e in sintonia, anche se (e proprio per questo motivo sono identici e in sintonia) sembrano possedere caratteri differenti. La loro umanità si forma e si sviluppa lungo la durata della pellicola, tra le pareti di una stazione spaziale che somiglia molto alle costruzioni di film tipo Alien, forse obsoleta o semplicemente l'unica che l'umanità potrebbe realizzare. Lo spazio e il tempo sono claustrofobici: Moon è stato girato in interni (il suolo lunare e l'interno della stazione), il tempo è circolare (cicli di tre anni) ma anche fortemente ellittico (il primo Sam con la barba mi sembra tanto un Sam 4) e probabilmente assente. Il tempo scorre solo sulla Terra (o così pare): la registrazione del messaggio di Tess Bell che induce la figlia Eve Bell a parlare con Sam ("Papà è un astronauta") è vecchia di almeno dodici anni e intanto Tess è morta ed Eve è diventata adolescente. Sam invece non invecchia: come la stazione, come il suolo lunare, come GERTRY. Loro sono il cinema. Solo l'umanità, che affolla quella bellissima distante palla blu, pronta a giustificare e mentire ("Sai che ti dico? Le cose sono due: o è un pazzo oppure un immigrato clandestino."), potrà invecchiare e perire.

10 agosto 2010

Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968) - 2/3 - Le ceneri di Gramsci

Per Pasolini la tradizione cinematografica che si è formata sin dalle origini (a parte alcune esperienze isolate) "[...] sembra essere quella di una «lingua della prosa», o almeno di una «lingua della prosa narrativa» anche se il cinema è un "[...]linguaggio artistico e non filosofico[...]" e pertanto tutto ciò dovrebbe far pensare che il cinema sia [...] fondamentalmente una «lingua della poesia»"(1). Eppure, nonostante questa violenza subita (poiché il cinema ha imboccato sin dall'inizio la strada di spettacolo di evasione, vista la mole di pubblico all'epoca impensabile per qualsiasi altra arte), "[...] i suoi elementi irrazionalistici, onirici, elementari e barbarici sono stati tenuti sotto il livello della coscienza" ma non aboliti. Pertanto questo strato di segni onirici e irrazionali sopravvive sotto la narrazione del film (racconto e messaggio), come una sorta di "terzo senso", un livello che Barthes definisce «evidente erratico ostinato» (2). Pasolini si chiede se oggi sia spiegabile e possibile nel cinema «la lingua della poesia» (3) ritenendo che per rispondere a questa domanda si debba trasformarla in un'altra domanda: «È possibile nel cinema la tecnica del discorso libero indiretto?» (4) ossia è possibile per l'autore l'immersione nell'animo di un suo personaggio anche nell'uso della sua lingua? Anche nel cinema è possibile un discorso libero indiretto ossia una «soggettiva libera indiretta». Ma se l'autore si immerge in un personaggio e "[...] attraverso lui racconta la vicenda e rappresenta il mondo, non può valersi di quel formidabile strumento differenziante in natura che è la lingua. La sua operazione non può essere linguistica ma stilistica" (6). La soggettiva libera indiretta offre non solo delle possibilità stilistiche molto articolate ma può ritrovare "[...] l'originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria. Insomma è la soggettiva libera indiretta a instaurare una possibile tradizione di lingua tecnica della poesia nel cinema" (7).

1. Teorema cinema di poesia?

Bisogna leggere Teorema come si legge una poesia. Il monologo interiore è il tentativo dell'autore di formare immagini come fossero proiezioni di personaggi malati, nevrotici, che non sono in grado di rapportarsi al mondo, di entrare in sintonia con lo stato bruto delle cose. Non dico niente di nuovo nell'affermare che il film ha un andamento anaforico evidenziato soprattutto dall'iterazione continua, quasi assillante, delle immagini del deserto come per riportarci in un passato lontanissimo dell'umanità (il deserto è metafora del vuoto ma anche origine e termine di una storia). Il deserto appare nell'incipit ma anche, e non solo, nell'epilogo. Anzi nell'epilogo ingloba la nudità di Paolo che sembra come uscito da un mondo borghese, cittadino: abbandonando la sua vita costruita sul niente entra direttamente nella brutalità delle cose senza alcun appagamento o visione che gli indichi una strada da percorrere, una riva su cui approdare: oltre il deserto c'è solo il deserto non metaforizzato. La nudità dei personaggi ad esempio è un altro aspetto che sottolinea il desiderio di spogliarsi della propria corazza borghese indossata come status symbol, come forma "immutabile" o cliché omologato dalle apparenze. L'atto di spogliarsi non è solo il desiderio di uscire da una forma, di attuare una metamorfosi, ma anche l'atto di donarsi all'altro e in questo caso di donare se stesso a un misterioso ospite per affidargli una sorta di personale lirismo, illudendosi di aprire una finestra sull'altrove. La nudità è un tuffo nell'aperto, un modo di aprire il proprio mondo, di mostrare le proprie debolezze all'altro: ad esempio Lucia, vedendo rientrare l'ospite dallo jogging, si denuda gettando i vestiti e sdraiandosi sul parquet del terrazzo, e Odette mostra il suo seno all'ospite nella speranza di perdere la sua timidezza e di non avere più paura degli uomini. Ma può essere anche metafora di morte civile: il corpo nudo come perdita del proprio status; infatti Paolo si denuda in pubblico abbandonando tutti i suoi averi e il suo modo di vivere, diventando un eremita per aver perso completamente se stesso (8). Persino la danza reiterata del postino che identifica un mondo subalterno (classi sociali inferiori) e forse ridicolo agli occhi dei borghesi (il postino, interpretato da Ninetto Davoli, pare felice, danza portando la posta e si complimenta della bellezza di Emilia) presenta un andamento metaforico. Le due lettere aprono e chiudono un evento e la sequenza della famiglia seduta al tavolo da pranzo, quando Emilia consegna la lettera a Paolo, si completa e ha senso in relazione all'altra inquadratura del pranzo, quando Emilia entra in sala per consegnare la lettera all'ospite. Le immagini architettoniche sottolineano e amplificano un mondo filtrato dall'animo dei personaggi. L'uscita dalla fabbrica del padre, con rapide inquadrature in campo lungo di capannoni, riflettono e annunciano le immagini del traffico milanese che evidenziano l'uscita di scuola dei due figli, nonché le immagini della villa ripresa in esterno e nell'interno che ci introducono dentro la malattia dei protagonisti. L'arredamento minimalista della casa, le stanze linde, la cucina, troppo pulita e ordinata da sembrare inutilizzata, evidenziano un che di falso e artefatto. Sono inquadrature che ci introducono dentro l'apocalisse, come in un'annunciazione già scritta che l'ospite (più angelo della morte che messia) contribuisce ad accelerare. L'anafora si presenta anche nel suono delle campane di molte sequenze: suonano mentre la madre, nel vedere i vestiti dell'ospite, decide poi di attenderlo nuda sul ballatoio; quando l'ospite e il figlio sfogliano un catalogo di opere di Bacon o quando Emilia è seduta sulla panchina del suo villaggio apparentemente immobilizzata in un frame stop, o la figlia è orami distesa in stato catatonico sul suo letto. Il rintocco riaffiora nella colonna sonora sempre nel paese di Emilia nel momento in cui i paesani le portano del cibo e lei accetta solo ortiche, e di nuovo quando Emilia sta seduta mentre le cucinano le ortiche. E viene riudito quando Lucia è a letto con un ragazzo e prosegue quando esce dall'appartamento. Infine le campane vengono suonate nel paese per annunciare il miracolo di Emilia che levita sopra il tetto della chiesa. Finalmente abbiamo modo anche di vederle direttamente come “metonimia” di un miracolo. Anche l'atto di scusarsi diventa (due volte) una breve anafora: Pietro, temendo di essere respinto, si scusa con l'ospite, così come si scusa Lucia, ed entrambi lo fanno subito dopo i loro approcci amorosi. Anche la musica viene utilizzata come produttrice di senso poetico: in particolare la Messa di Requiem di Mozart non è soltanto una musica extradiegetica qualsiasi ma una rima sonora (pertanto si propone come rima nel vero senso della parola) che emerge durante la malattia di Paolo (a letto leggendo Tolstoj e "guarito" dall'ospite) e soprattutto accompagna l'uscita di scena di ciascun famigliare (Odette che viene portata via dall'ambulanza, Pietro che abbandona la famiglia per andare a fare il pittore roso dall’impossibilità di dare senso a una forma sulla tela, Lucia che va in cerca di ragazzi per fare l'amore, e infine Paolo che vaga nudo nel deserto prima dell'urlo finale).

2. Le ceneri Gramsci

Le Ceneri di Gramsci è forse la raccolta di poesie più importante del corpus poetico di Pasolini. Leggendo quest'opera pubblicata nel 1957 ci si rende conto del percorso inverso intrapreso da Pasolini rispetto a Teorema (anzi, poiché la raccolta poetica è anteriore, il percorso inverso è stato fatto con Teorema). Mentre Teorema è cinema di poesia, Le ceneri di Gramsci potrebbe essere definito come "poesia di cinema", mentre in Teorema la narrazione rimane sospesa lasciando emergere "elementi barbarici, irrazionali e onirici", nelle Ceneri di Gramsci la poesia sembra voler costruire una storia organica. Si tratta di undici poemetti articolati in capitoli e sezioni che, se letti d'un fiato e intrecciati insieme, lasciano emergere una sorta di trama, un tenue racconto che lascia esprimere le idee, le riflessioni, i sentimenti di Pasolini. Causa i limiti espositivi di un blog, mi limiterò qui a prendere in esame solo alcune parti della raccolta. Recit ad esempio è un poemetto molto interessante, innanzitutto perché Pasolini ha scelto il settenario doppio di Jacopo Martello, un verso doloroso da leggere per il suo ritmo quasi "osceno" ma proprio per questo adattissimo a restituire l'oscenità del vissuto pasoliniano, ossia la notizia portatagli dall'Amico Attilio Bertolucci della condanna del suo romanzo Ragazzi di vita per, appunto… oscenità (10). Tutt'intorno pulsa la vita di Monteverde: voci gioiose, grida, canti di garzoni, di serve, operai. Questo contrasto di gioia e dolore (che rammenta il bailamme convulso dello stato d’animo dei protagonisti di Teorema in rapporto all’immobile aridità di oggetti e paesaggi) restituisce non solo l'emozione del momento, il vissuto del "personaggio" Pasolini, ma anche una perfetta e incommensurabile storicizzazione (la vita che pulsa oggi nei quartieri produce suoni diversi). La trama della vita emerge oltre il disegno, di là dalla poesia, si struttura in racconto martellante, quasi come un'iterazione filmica che vuol riprendere l'intermittente fracasso della vita di un quartiere popolare di una Roma degli anni cinquanta:
Com'era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!
Con la mano, ferito, mi facevo specchio
per guardare intorno viali e strade in salita
vivi di gente nuova nella sua vecchia vita.

Giunsi nella piazza,accaldato e tremante,
chè gelo e sole insieme il quartiere accecante

sbiancavano con muta ed estasiata noia.
Ricco era il quartiere, ma popolana gioia

ne invadeva interrati ed attici con voci
vaghe ma violente, canti lieti e feroci

di garzoni, di serve e d'operai perduti
su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti.

Come non sentire, con la vita il cuore
esser diverso e uno, essere gelo e sole?

Come non sentire ch'è pura gratitudine
per il mondo anche l'essere umiliati e nudi?

Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l'amico, come incerto... Ah che cieca fretta

nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:

subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo...

Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l'umana ingiustizia

se prima di ferirmi è passata per te,
e il primo moto di dolore che

fece sera del giorno, fu pel tuo dolore.
Intanto nulla era mutato sotto il fresco sole. (11)
...........
Ed ecco affiorare alla superficie i campi lunghi di Teorema, paesaggi tristi e freddi filtrati dall’animo del poeta. E come restituire nel cinema ad esempio la sofferenza di questi primi stupendi versi de Il pianto della scavatrice?:

Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

echeggia ancora di mille vite,
disamore, mistero e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d'esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti
agli ultimi prati. ... (12)

Non sembra l'incipit di Teorema, quando Paolo esce in auto dalla fabbrica? Quei luoghi tristi, in bianco e nero, quei campi lunghissimi e lunghi non compongono una sequenza naturalistica. Non siamo in un racconto dove lo sguardo si sofferma ad osservare la vita quotidiana di una famiglia dell'alta borghesia milanese della fine degli ani sessanta, ma stiamo entrando "dentro" lo sguardo di Paolo, in una sorta di monologo interiore (peraltro per Pasolini impossibile da comporre nel cinema): il primo piano di Paolo seduto sul retro dell'auto collega in un percorso ideale il paesaggio freddo e triste che ci porta a provare le stessa sofferenza del protagonista. È l'angoscia che Pasolini vuole portare alla superficie, non il racconto di una giornata triste, e pur usando molte metafore (deserto, sesso, nudità, citazioni dalla Bibbia) e tralasciando per motivi di spazio il discorso sull'allegoria cara a Pasolini, ritengo che (come nelle Ceneri di Gramsci) l'ossimoro e la metonimia siano le due figure più utilizzate per scavare nel profondo del dramma. Come ad esempio in Recit usa vari ossimori: (nuovo... Monteverde vecchio; gente nuova... vecchia vita; gelo e sole; fresco sole) in Teorema l'ossimoro risulta la figura più interessante: l'esempio forse più illuminante si riferisce alla sequenza in cui i vari personaggi si lamentano con l'ospite per il fatto che la sua partenza li possa gettare in turbamento esistenziale da cui non potranno più fare ritorno. Ma alla disperazione che questi brevi monologhi esprimono non corrisponde una recitazione degli attori nevrotica ed esasperata: in fondo vogliono comunque bene all'ospite, il quale li ascolta con apparente serenità e li conforta o con carezze o appoggiando la mano sulle spalle. Quando l'ospite parte tutti i familiari lo accompagnano al cancello come si accompagna un amico che è venuto a farci visita e si accinge a tornare da dove è venuto. Tanto dramma nelle parole affiora solo nelle sequenze dell'epilogo che ci mostreranno la "fine" dei personaggi, ma adesso l'ossimoro mostra molto bene l'apparente serenità del mondo borghese (fine anni sessanta) e riferendomi ad oggi oserei dire l'apparente serenità del mondo occidentale in generale.

3. Monologo interiore, ossia metonimia: ceneri per mondo.

La potenza della metafora, “che implica un trasferimento di significato” (esempio: paesaggio ripreso con una certa luce con un certo tipo di campo lungo, con una certa angolazione e anche ad esempio in plongée per restituire lo stato d'animo di chi osserva questo paesaggio, magari mostrando il suo volto anche inespressivo, tanto per citare l'effetto Kulešov) e la delicata nostalgia dell'allegoria (come la metafora ma con una interpretazione razionale) sono due aspetti importanti per comprendere il cinema di Pasolini, ma secondo me, in questo film, che rappresenta come l'inizio di un percorso ante litteram della morte (13), della fine (insieme a Salò o le 120 giornate di Sodoma e forse anche del film che avrebbe visto la luce se Pasolini non fosse morto, ossia Porno-Teo-Kolossal), la metonimia, prende l'abbrivo lentamente per occupare nell'epilogo, in tutta la sua maestosità, l'ampiezza dello schermo. L'urlo di Paolo non rappresenta solo la rabbia o lo sfogo di chi, pur abbandonando la sua "falsa e vuota" vita borghese, non ha trovato nient'altro che un deserto (pertanto c'è stato un passaggio da deserto metaforizzato a deserto fisico), ma è la constatazione che non è possibile uscire dalla propria metonimia. C'è insomma un inglobamento fra i due termini nel senso che mentre per comprendere la metafora è sufficiente analizzare i suoi componenti (differenti campi semantici), per la metonimia bisogna ogni volta ipotizzare una diversa base per spiegare ogni singola figura. “La metonimia, figura per ‘contiguità’, lavora all’interno di un’unità semantica data, entro la quale si relazionano tratti eterogenei, piuttosto che fra unità semantiche alternative che necessitano di una mediazione retorica” (13). La metonimia rappresenta la presa di coscienza di essere una parte e di credere di rappresentare un tutto perché quello che oggi è presunzione (sicurezza della borghesia per Pasolini, o di una contemporanea società anni 2000 in cui ogni uomo ha assunto un modo di ragionare borghese, di inglobare un universo - dal vocabolario alla cultura, ai luoghi comuni al cliché, all'etica - di elaborare un modus vivendi - pretendendo che il proprio stile di vita sia status inalienabile - di formulare una strategia di sviluppo "sociale") domani potrebbe divenire tormento (per modifiche strutturali della società o del mondo o per qualsiasi evento casuale esterno - il visitatore potrebbe essere il messia ma anche una tragedia planetaria). L'angoscia dell'urlo finale è la scoperta di avere vissuto in una perenne metonimia che non si è mai trasformata in metafora per mancanza di vocabolario. Siamo rimasti sempre all’interno dello stesso campo semantico. In altri termini Paolo, con la scoperta del deserto fisico dell'epilogo, che sin dall'incipit sembrava (ed è) metafora della sua vita vuota, scopre l'impossibilità di uscire dal suo vuoto e il gesto di essersi spogliato di tutti gli averi ed essersi incamminato lungo la strade del deserto lo ha portato a vedere da fuori quello che prima vedeva da dentro. L'urlo equivale ad una presa di coscienza, equivale a constatare che per (all'epoca) la classe borghese non c'è speranza, che (oggi) per un certo modo di vedere il mondo (Legge, Metafisica, Classicismo, ecc.) non c'è speranza. Paolo (ma anche gli altri componenti della famiglia ad esclusione forse di Emilia) è una parte del deserto, lo è sempre stato e continuerà come prima a vivere la propria vuota vita.

(1) Pier Paolo Pasolini, Il cinema di poesia, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 20003, p. 172.
(2) Roland Barthes, Il terzo senso (1970) in L'ovvio e l'ottuso, Torino, Einaudi 1985, pp. 43 sgg. (vedi qual è la tua edizione e correggi). Una interessante analisi dell'argomento in oggetto si trova in: Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994 p. 103 e sgg.
(3) cit., p. 175.
(4) ib.
(5) ivi, p. 177.
(6) ivi, p. 179.
(7) ib.
(8) Riferisco il senso di alcune frase dette nel film dal padre all'ospite dopo che ha saputo della sua partenza
(9) Martelliano: verso italiano di quattordici sillabe, imitazione del verso alessandrino francese, accoppiato in distici baciati.
(10) Il romanzo uscito nel 1955 procurò a Pasolini la denuncia di oscenità. Cito da
http://www.pasolini.net/processi_brevedescrizione.htm: La Presidenza del Consiglio dei ministri promuove un'azione giudiziaria contro il romanzo Ragazzi di Vita, Pasolini viene citato in giudizio, insieme all'editore Livio Garzanti, dal procuratore della Repubblica di Milano, per contenuto osceno del romanzo, segnatamente alle pagine 47, 48, 101, 130, 174, 227, 231, 242. Il processo viene rinviato perché i giudici non hanno letto il libro. Il P.M. chiede l'assoluzione degli imputati "perché il fatto non costituisce reato". I giudici accolgono la richiesta e dissequestrano il libro.
(11) Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti 1976, pp. 81-82
(12) Ivi, pp. 91-92
(13) I film della trilogia della vita, Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte,
sono rispettivamente del 1971, 1972 e 1974, Salò (che doveva essere il primo della trilogia della morte) è del 1975 mentre Teorema essendo precedente alla trilogia della vita non è, almeno cronologicamente, da assimilare alla trilogia della morte, ma credo che in fondo tra Teorema e Salò vi siano delle affinità.
(14) cfr. Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi 1984