I corpi si dislocano, si contorcono, si percuotono, si
rompono e si consumano delineando un percorso geometrico che si muove all’interno
di un recinto senza uscirne fuori. L’aspetto più eclatante del film è la
capacità autoriale di formare espressioni geometriche dall’utilizzo dei corpi e
degli ambienti. Tutto è così pacatamente perfetto. Nelle prigioni, latrine
puntualmente sporcate dai prigionieri (dirty protest), le feci si cristallizzano
in cerchi concentrici, le celle si affacciano su un corridoio ripreso in prospettiva
frontale: il classico disegno geometrico che appassionava i pittori
rinascimentali. Il dialogo tra Bobby Sands e Padre Dominic Moran, del piano sequenza punto
focale dell’intero film (circa diciotto minuti ininterrotti), avviene tra i
tavolini della sala mensa vuota: nel tavolino centrale di tre file di tre tavoli
ciascuna (la prima è fuori campo e intuita dallo sguardo da una sezione di
tavolo che sporge proprio sotto la mdp), seduto uno di fronte all’altro, vi sono
i due interlocutori: idealmente pertanto la “scatola prospettica” è formata da
nove tavoli disposti simmetricamente, mentre il punto di fuga è serrato da una
quinta di fondo, una parete decorata da due cornici parallele che
“attraversano” esattamente la linea delle teste dei due uomini; inoltre il
numero nove (anche se “mentale” perché i tavolini mostrati sono sei + una parte
di uno) equivale a un numero tre (ricorda le tre dimensioni newtoniane) elevato
alla seconda. La mano dolorante del poliziotto inglese mostra le cinque dita
sanguinanti, un pugno dolente che
ha offeso un uomo nudo, un prigioniero indifeso. Ancora un numero che
sintetizza (come anticipazione del prologo) il dolore di un pugno, scarnificazione
e contrappunto delle Five demands dei
prigionieri politici, cinque diritti negati dal governo britannico. Poi
vedremo i pestaggi e la sofferenza dei prigionieri dell’IRA che non vedono
riconosciuto il loro status di prigionieri politici. Ritengo che la geometria
sia la cifra di una tentazione, un pensiero che osi (molto complicato ma
affascinante allo stesso tempo) rompere la forte coesione di un mondo nei
confronti della politica di Margareth Tatcher e della sua ostinazione/forza
morale(?) nel non trattare con i “terroristi”. Molto complesso entrare in questi
ragionamenti “politici” ma McQueen non è Loach, nel senso che non ha interesse
a denunciare gli eccessi della politica conservatrice della Lady di Ferro addirittura
da oltre trenta anni di distanza. Il suo interesse è molto più profondo, va
oltre i giochi di forza tra l’Irish
Republican Army e la ricercatrice chimica. Nonostante le celle cloaca
dell’incipit il film lascia un senso di pulizia, uno pseudo-candore paludato,
una sorta di benessere di riflesso che rende le violenze e i disastri
distanti dal nostro mondo (sia nel tempo
che nello spazio) e pertanto non in grado di coinvolgere lo spettatore. Con
questo non intendo affermare che il film non susciti emozioni. Tutt’altro. Non
è lo spettatore di questo film a essere messo in discussione, ma lo
spettatore degli eventi, l’uomo rannicchiato nel proprio mondo, allontanato e
distratto che sente dalla tv, o legge sui giornali, di dieci uomini morti per
avere digiunato. In fondo il mondo che McQueen intende macchiare di
escrementi concentrici è un artefatto politico, un sentore di cose e vago
adulatore di immagini lontane (telegiornali, spezzoni di reportage) intense e
drammatiche ma non coinvolgenti. Spettatore del tutto simile alla madre del
poliziotto che rimane immobile (causa la malattia) davanti all’esecuzione del
figlio colpito con un proiettile alla testa proprio davanti a lei. L’immagine
dell’uomo dalle dita doloranti, adesso appoggiato sul grembo della madre immobile
sta all’immagine di Bobby Sands nel silenzio della sala mensa che annuncia al
prete la decisione di digiunare. Questi effetti stranianti, resi con geometrie
che ricordano le scenografie scarne e semplici del teatro elisabettiano, ma
anche con sfumature di colore che dallo scuro (le celle cloache immerse nelle deiezioni,
il corridoio) digradano verso il bianco (la degenza di Bobby Sands ormai
ridotto a pelle ossa causa sciopero della fame) passando per i colori dei
maglioncini e dei pantaloni imposti dall’autorità, dal candore dei panni ai
mobili con cui i secondini arredano, dopo averle pulite, le ex cloache, questi
passaggi dalla periferia al centro (i due prigionieri dell’incipit che ci portano a conoscere Bobby
Sands interpretato da un bravissimo Fassbender), oppure le dita doloranti del
secondino (che ci portano al pestaggio di un galeotto), restituiscono il dramma
profondo e irreversibile di una lotta che ha segnato profondamente la storia
inglese degli anni ottanta del secolo scorso. Allo stesso tempo ci informano di
una struttura filmica che riesce a coinvolgere all’interno lasciandoci
all’esterno. Ossia mentre rimaniamo fuori, assorti nei silenzio prolungato dei
protagonisti, assistendo a pestaggi e discorsi che non comprendiamo più (forse)
ci rendiamo lentamente conto di essere entrati nel plot, di essere parte
integrante di un mondo in fondo più vicino a noi di quanto pensiamo, scoprendo in
tal modo che all’interno di una geometria di carne, sangue ed escrementi, il
cinema pulsa di vita propria calandoci nel clima angosciante e inamovibile di
un mondo ancora oggi ritenuto (mi riferisco a quegli anni di violenza in Gran
Bretagna) il migliore possibile, visti i presupposti. Quando Booby Sand dice a Padre Dominic Moran, che
cerca di convincerlo a desistere dai suoi propositi, di saltellare tra retorica
e semantica, non fa altro che sintetizzare la cifra di tutto il film: un lavoro
che penetra nell’angoscia e nella disperazione senza retorica e senza pomposi
discussioni politico-semantiche che avrebbero indebolito la sua capacità di
penetrazione. Ecco, il film di McQueen non racconta la fame di cibo o di
violenza o di giustificazione o condanna, ma la fame di speranza che viene
sgretolata sequenza dopo sequenza, con semplicità, nel candore dei corpi puliti
e nudi, delle camerette pastello o persino dalle piaghe che punteggiano il
corpo di Bobby Sands, a loro modo perfette e quasi pittoriche.
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4 commenti:
Un film che da tempo voglio recuperare dopo aver visto il bellissimo Shame. Il pianosequenza da te brillantemente descritto mi sta incuriosendo non poco.
Ale55andra
un film che non lascia indifferenti.
il colloquio di Bobby Sands col prete lascia senza fiato.
nessun dettaglio viene tralasciato, e tutti sono importanti, penso al poliziotto che piange, o all'infermiere che lo cura con tenerezza
@Ale55andra. Una sequenza che vale la pena di essere vista. Un film da non perdere. Grazie.
@Ismaele. Sono d'accordo: un colloquio denso e indimenticabile. L'immagine del poliziotto che piange mentre i detenuti vengono massacrati di botte amplifica l'ambito che rende il reale surreale eppure così tremendamente vero e inspiegabile. E allo stesso tempo l'infermiere che prende in collo un Bobby Sands esausto, come fosse un neonato da accudire e proteggere, è una sutura profonda che assembla le sequenze dello sciopero della fame visto come un momento privato, accaduto nell'intimità di una casa (la cella infermeria), eppure allo stesso tempo amplificato nel mondo in quanto momento drammatico di una protesta che costò dieci vite.
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