Perché ogni volta che rivedo In the mood for love mi sembra sempre la prima volta? Questo, lo so, accade per ogni film. Cambiamo giorno dopo giorno e il nostro sguardo sul mondo non è quello di alcuni anni fa. Se la stessa identica strada, lo stesso identico paesaggio (a meno che non sia stato devastato dalla inarrestabile cementificazione) ci sembrano diversi da come ce li ricordavamo, figuriamoci cosa può capitare con un film. Mi succede spesso di rivedere film visti dieci, cinque o anche solo un anno fa scoprendo di avere dimenticato alcune sequenze o di avere dato importanza ad altre che adesso non sembrano poi così interessanti. Ma con In the mood for love è diverso (e per altri pochi lungometraggi) perché il film mi sembra diverso persino se lo rivedo dopo un minuto. Possibile che questo capolavoro scavi così profondamente nel mio animo da estrarre le differenze che albergano in me? Scavare così dentro da lasciar emergere sensazioni, emozioni che nella visione precedente erano rimaste latenti a vantaggio di altre emozioni? Mi rimane difficile rendere la sensazione con un esempio. Ci provo. Il filmato della visita di De Gaulle in Indocina è il mondo “attuale” (quello degli anni sessanta) contemporaneo al viaggio di Chow alle rovine di Angkor Wat. Mostra il “presente” o meglio la contemporaneità del mondo all’epoca in cui è ambientato il film. Ma siccome In the mood for love è stato girato nel 2000 e il filmato è mostrato nel “suo” originale bianco e nero (Kar-wai ha preferito un cinegiornale originale con De Gaulle), in realtà il filmato è uno spezzone di passato nel senso che le cose invecchiano come invecchia lo stesso cinema di Kar-wai, come invecchiano gli attori che interpretano Chow e Su in modo che fra dieci, venti anni questi attori, paragonati ai loro personaggi, alle loro immagini immortalate nella pellicola, saranno dei vecchi resi nostalgici dai loro ricordi, mentre i loro “corpi” proiettati sulla tela di In the mood for love, rimasti giovani, ci ricorderanno di un anno 2000 ormai lontano e irrecuperabile, simile al vecchio filmato di De Gaulle. E cosa c’entra questo con me, con la mia sensazione di vedere un altro film anche solo dopo pochi attimi? Probabilmente il film suscita in me il senso di un’estetica anamorfica impossibilitata a organizzare il reale (i “disturbi” – specchi, oggetti in primo piano, ecc. – , le fratture, le ellissi significanti del film) ma atta a programmare un incontro tra significante e reale (l’opera, il film, si protrae verso me e mi trascina nel suo gorgo) (1). In questo senso ogni volta che vedo il film (probabilmente vedo il lungometraggio da angolazioni sempre diverse) le protesi estetiche dell’opera mi prendono, mi “pungono” (cfr. Roland Barthes, La camera chiara) ogni volta diversamente, suscitando in me sensazioni ed emozioni difformi. Un esempio: le rovine di Angkor Wat ricordano un passato lontano ma ritengo che rappresentino il futuro. Poiché ormai questo luogo non ha più tempo (forse fra un secolo saranno sempre uguali a oggi così come lo erano un secolo fa o negli anni sessanta) è capace di contenere gli anni sessanta (tempo in cui gli shanghaiesi si rifugiavano a Hong Kong), il presente (il 2000 anno in cui Kar-wai girò il film, il suo presente), il futuro (cioè un tempo lontano proiettato in anni da venire quando il mondo sarà ancora diverso e i turisti andranno a visitare le stesse rovine di oggi) e il futuro anteriore (l’oggi, il qui, il mio adesso che poniamo essere il 2012, ma il futuro rispetto agli anni del plot e a quelli del discorso karwaiano, ma anche un futuro anteriore rispetto ai giorni da venire). Ebbene questo ipotetico futuro anteriore ossia il momento in cui osservo il film non è definibile: è oggi, ma è fra un minuto e queste rovine mi sconvolgono, con la loro capacità di fagocitare il vissuto per renderlo amorfo, immobile. Questo luogo ove il tempo si è fermato è come un limbo in cui tutto gravita, tutto si rimescola, dove ogni amore, rapporto, ad esempio fra una coppia di amanti, galleggia tra passato e futuro e diventa come se la prima volta (il primo bacio o il primo incontro) sia ancora da accadere eppure sia già accaduta. Questo caleidoscopio di sensazioni, questo cinescopio di umori e suoni, dolori e ricordi, rimpianti e rammarichi, desiderio e debolezza, sofferenza e gioia, non riesce a prendere un ordine, a garantire una scala cronologica. Qui, in questo buco nero del senso, luogo in cui finiscono tutte le tribolazioni umane, le mie infime emozioni fuoriescono di volta in volta diverse, come fossero numeri estratti al lotto, perché questo è il luogo dove ogni cosa detta, dove ogni azione, dove ogni atto scritto, immagine vista, emozione provata, parla della storia di due amanti, ma parla anche di me, del mondo che è stato, di quello che è oggi, di De Gaulle, ma anche della Glasnost e della Banda dei Quattro e delle Torri Gemelle. Qui ogni immagine-emozione viene rimasticata, digerita e risputata all’esterno per trovarci ancora così irrimediabilmente deboli e insicuri, incapaci di tenere a lungo nel nostro cuore un segreto da sussurrarlo in una fessura di una pietra che sarà sempre al suo posto. Anche quando non ci saremo più.
(1) cfr. Massimo Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, in Il miracolo della forma, Bruno Mondatori, Milano 2007
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