31 marzo 2008

Colpo d'occhio (Sergio Rubini, 2007)

Bisogna dare atto a Rubini del suo impegno per un cinema che cerca di uscire dai cliché tipici di molto, troppo, cinema italiano contemporaneo. Una strada smarrita da ritrovare vagando per vie incerte e che conducono alla produzione di film ripetitivi e soporiferi. Rubini (ma per fortuna non è il solo) ci prova e questo lo si nota in ogni immagine, in ogni sequenza. Prove di cinema, citazioni di cult (Hitchcock, De Palma, Rivette) ma soprattutto sequenze claustrofobiche che tolgono il respiro. E per fare questo ci vogliono grandi capacità registiche. Purtroppo la strada è appena imboccata e il gioco stimolante di portare l’arte in scena, di mostrare un cinema che riflette sulle proprie valenze estetiche ma anche sociali, naufraga a causa di una pressoché assente capacità di “pungere” il cinema stesso (estetica) e il mondo che lo circonda (sociale). Sembra che le bellissime location del film (aspetto peraltro da valutare) non riescano a sorreggere i movimenti degli attanti, così come la riprese fluttuanti (mdp che si avvicina e gira intorno oppure che riprende da una distanza metafisica) non abbiano la forza di penetrare l’immagine. Non è sufficiente formare un puzzle composto da mille pezzi meravigliosi (una Roma stupefacente, paesi da cartolina, i locali della Biennale pieni di vere opere d’arte, un nudo come icona della classicità) per ottenere un insieme riuscito e funzionale. In altre parole le immagini (e io apprezzo intensamente l’immagine presa di per sé) non sono completamente formate in quanto vengono abbandonate al loro effimero destino di profilmico non consumato. Voglio dire che sfuggono alla visione. Lo sguardo non riesce a penetrarle. L’idea di creare una claustrofobia densa come pece, capace di trascinarci nell’impeto delle passioni, è encomiabile. Il fatto purtroppo è che queste passioni vengono rimandate sempre, abbandonate sulla superficie degli oggetti (una collana, una sfera nera con impronta di mano, un inutile lenzuolo avvolto sul corpo di Adrian, un nudo lasciato andare troppo presto, una pistola che sembra stata rubata da un campionario di un piazzista anziché da un’opera d’arte). Il tentativo di occupare il quadro con l’arte non decolla, l’arte rimane come sospesa in una vetrina alla mercé di uno sguardo che ricorda il parossistico mordi e fuggi del turista più che la morbosa attenzione dell’appassionato estimatore. L’arte e il cinema sono attanti come altri, mentre gli oggetti usati per “dare carne” al plot vengono abbandonati a se stessi, non possedendo nemmeno una loro autonomia. Sono lì (la collana, il revolver, la scultura sferica con impronta) perché in seguito “saranno usati”, ma avrebbero dovuto essere lì anche in quanto oggetti autonomi, vivi, surreali e funzionali ai rapporti tra personaggi. I personaggi stessi (la recitazione sopra le righe potrebbe anche andare) non funzionano alla perfezione, perché non formano un connubio univoco, non entrano in sintonia in quanto ogni pedina gioca a mostrare il proprio mondo, mentre avrebbero potuto “scavalcare” la trama portandoci nell’abisso. In particolare s’eleva su tutti il ruolo di Lulli, ossia l’artefice, il regista delle “vite” delle vittime designate (Adrian e Gloria) il quale, introdotto nella storia ex abrupto, comincia a muovere le sue pedine sulla scacchiera del Caso. Lulli in effetti sembra vivere oltre il tempo, quasi come rappresentazione di un brutto ricordo o tentazione resa carne dalle ambizioni inappagate di Adrian. Adrian stesso, che vorrebbe emulare l’atemporalità, non ha la forza di dominare il proprio destino rimanendo sospeso nell’attimo (esemplare l’intervista alla Biennale o l’improvviso sfogo nella galleria in occasione della sua “personale”) poiché non possiede i codici per penetrare in quel mondo di “killer” (i critici) sempre pronti a definire l’arte, a domarla, e quindi incapaci di “capirla”. Solo Gloria sembra percorrere razionalmente il tempo (è l’unica a possedere ricordi). Ma il tempo, esemplarmente analizzato e avviato da Rubini (a differenza di tanti film in cui viene deliberatamente ignorato) non riesce a prendere il sopravvento, rimanendo impantanato nei limiti fisiologici della sceneggiatura. Dicevo dell’abisso, della speranza di essere presi per mano e trascinati lungo il tunnel della disperazione e della follia, ma non appare nessuna prospettiva di abisso, tutto avviene sulla superficie. La follia di Lulli (magistralmente interpretato da Rubini) non inonda lo schermo, non invade mai l’immagine. Una parte così importante è stata legata all’evoluzione del personaggio Adrian, mentre si poteva allineare il mondo allo sguardo di Lulli. In altri termini il momento più drammatico del film non c’è, e non ho ancora capito (probabilmente per mia incapacità) quale sia lo Spannung. Coincide con l’epilogo? È da ricercarsi nei flashback che non sorprendono? Oppure negli sguardi sperduti (perché purtroppo non controllati da Scamarcio e dalla Puccini) di Adrian e Gloria? Insomma la debolezza del film (che tra l’altro mi è piaciuto) è la rinuncia a suscitare forti emozioni e a "colpire" fino in fondo, sia attraverso le forme che sono troppo verginali, sia tramite l’analisi di un mondo (quello dell’arte, del cinema e dei ministeri finanziatori) che viene appena sussurrato senza mai essere denudato. Più che una Puccini senza veli forse si doveva mostrare che il Re è nudo (1).

(1) Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’Imperatore

27 marzo 2008

Persepolis (Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, 2007)

Non v’è dubbio che l’aspetto narrativo del film sia preponderante, fondamentale, coinvolgente. Le vicende della piccola Marjane in un Iran occidentalizzato prima e della Marjane divenuta donna in un paese islamizzato poi, sono “raccontate” con ironia, senza mai cadere nella retorica o nella propaganda, ma coinvolgendo lo spettatore nelle avventura di una donna iraniana che deve fare i conti con i drammatici eventi del suo paese. Persepolis ha il merito di mostrare la ricerca di “normalità”, il desiderio di vivere e scoprire le proprie emozioni anche quando sembra che tutto lo impedisca, quando sembra che gli eventi conducano all’annichilimento della personalità, soprattutto di quella femminile. Allora, constatata l’impossibilità della ribellione (in un mondo ormai conformatosi ai “desideri” di élite che decidono senza consenso e contravvenendo al rispetto dei più elementari diritti umani), anche l’esposizione di un oggetto proibito, o meglio di una parte del corpo, può servire a liberare la rabbia che cova nell’animo, per affermare l’urlo della mente: “io esisto e ho bisogno”. Mostrare una ciocca di capelli sotto il chador o portare vesti vagamente più attillate, rischiando anche il carcere, diventa il simbolo della resistenza ad ogni regime (di qualsiasi tipo in qualsiasi latitudine). Un film che emoziona, che trascina dentro il racconto visto attraverso gli occhi di una bimba prima e di una ragazza poi, che coinvolge perché il filtro del quotidiano avvicina la Storia ai nostri sguardi. Il film è la trasposizione dell’omonimo fumetto che tanto successo ha avuto in Francia e quindi in Europa e nel resto del mondo, quattro volumi paragonabili a un romanzo, che sono un romanzo, perché il fumetto è anche letteratura. La grafica del film, che mi ricorda il teatro delle ombre, è particolare. Dovendo riprendere il fumetto si forma nell’immagine come un’incessante esposizione di silhouette o forme stilizzate, scivola sul piano come un magma di disegni da cinetoscopio. Questo fluire su più piani non è sgradevole ma richiama spesso (e devo ringraziare l’amico Para che me l’ha fatto notare) l’antichissima tecnica dell’acquaforte. Sicuramente l’immagine che ne risulta, artisticamente di valore, lascia molto spazio (un’acquaforte “per coperture”) ai contrasti più o meno netti. Domina il nero pur essendo contrastato dal bianco, ma il bianco non è che il supporto essenziale per mostrare l’assorbenza della luce. Il nero è il colore del chador iraniano, ma anche il colore dell’oscurità e dell’oscurantismo e spesso invade il quadro assorbendo ogni forma, ogni scintilla di luce, trasformandosi in una lunga e persistente dissolvenza. Sembra quasi che le immagini debbano svanire per sempre, portandosi via, oltre alle vite di tanti uomini e donne che non si sono “allineati”, anche il significato degli oggetti e dei movimenti. Lo sguardo della guardia che vorrebbe impedire alle forme femminili di “invadere” una mente ottusa, rappresenta lo sguardo che resiste al fascino dell’immagine, al di là di ogni rappresentazione. La forma della ragazza mostrata “impunemente” attraverso il chador è il senso profondo dello sguardo che accetta senza indugi la persistente aporia socratica (ovvero: lo fa apposta o sono io ad essere malato?), sguardo che accetta l’essenza degli oggetti messi non per coordinare un mondo ma perché lo esige una storia di libertà. E non a caso l’andamento narrativo ricorda il socratico lavoro della levatrice, ossia prima ci si abbassa con l’ironia al livello dello sguardo sprovveduto (“e tu non mi guardare il culo!”) per poi affrontare il senso attraverso l’uso della maieutica (tanti punti di vista personali) senza imporre nessuna dottrina (“e loro in quanto uomini possono eccitarsi per qualche centimetro di velo in meno”). Un film gradevole.

23 marzo 2008

Non è un paese per vecchi (Ethan e Joel Coen, 2007)

Non è un paese per vecchi è la dimostrazione che i fatti si svolgono nel nostro personale mondo. L’abilità e la capacità dei Coen è tutta nel trascinarci dentro gli eventi mostrandoci sequenze costruite con dovizia di particolari, effetti di reale utilizzati per portarci dentro il west, nel New Mexico e al di là della frontiera, sanguinanti e con i soldi buttati via in cerca di una giacca pulita. Ma poi, dopo averci impressionati (nel duplice senso di sconvolgere ma anche di imprimere l’immagine sulla nostra emulsione), quasi clonando il silenzio delle immagini dal nostro corpo (come se il soffio dell’aria compressa fosse entrato di prepotenza a creare presupposti per aumentare la tensione e l’ansia), il film, procedendo verso l’epilogo, comincia a stracciarsi perdendo il suo sangue, perdendo pezzi di pellicola. Mi riferisco alle ellissi che diventano sempre più profonde lacerando lo spazio/tempo (e ripiegandolo su di sé) e di conseguenza mi riferisco alle nostre scelte che diventano, nel dipanarsi del film, sempre più “aperte”. Adesso possiamo credere o immaginare che Anton Chigurh abbia avuto pietà di Carla Jean Moss, decostruendo gli effetti del Male, indifferibile, certamente, ma solo perché rannicchiato spesso nelle pieghe del Bene. I presupposti di un film, che per oltre un’ora dimostra come si possa fare ottimo cinema lasciando “parlare” le immagini con un uso leggero e classicheggiante di una mdp mossa con gradevole levità e persistente apertura sul profilmico, sono evidenziati nella ricerca del confine, del margine impalpabile che divide il Bene dal Male. Non c’è nemmeno il gusto di una violenza spettacolare, ma c’è l’evento inatteso, evanescente, c’è il volto del tempo che cristallizza le immagini rendendole icone bifronti proprio come la monetina che Chigurh ama tanto usare per differire una scelta. Le due facce della moneta sono le trasposte facce asimmetriche del tempo: tempo del discorso e tempo del racconto. Sembra quasi che il volo della moneta (per oltre un’ora) lasciando nell’indecisione dei particolari che non danno scampo (come il killer segue e uccide le sue prede o come Llewelyn recupera o nasconde il danaro) si risolva nella seconda parte dopo aver mostrato l’ineluttabile, col restituirci il “potere” di scegliere e quindi, come direbbe Schelling, la possibilità di fare del male, perché la scelta presuppone la libertà di sbagliare. Scegliendo e lavorando le immagini e le sequenze nella nostra mente riduciamo il mondo a uno spettro nel senso di: a) spettro come fantasma, ectoplasma, evanescenza irreale e/o simulacro di una koiné immaginifica che non esiste nel reale; b) spettro inteso come ampiezza (es.:lo spettro del visibile) e quindi allargamento dello sguardo verso i limiti dell’imponderabile. Nel senso della prima accezione i Coen ci consegnano la chiave del tempo, la possibilità di “costruire” il male attraverso i nostri stessi pensieri (deduzioni): deduciamo infatti che Carla è stata uccisa, il killer è arrivato e ha ucciso Llewlyn e la ragazza della piscina e l’ha fatto spietatamente e vigliaccamente, deduciamo che è fuggito e continuerà a fare del male. Ma siamo noi che deduciamo e ricostruiamo “liberamente” i presupposti del male o meglio decide lo sguardo non più vergine che abbiamo perso un giorno al Gran Cafè del Boulevard des Capucines. Nel senso della seconda accezione c’è anche un’apertura verso il caos della materia e dell’assenza di sguardo del mondo. Il male e il bene non hanno senso per il deserto magnificamente ripreso nell’incipit. I fiumi, i confini, gli uomini, i motel e le rughe sui volti scolpite dal tempo non sono differenze ma solo una sorta di linguaggio materico che esiste in quanto combinazione di eventi. E al cinema non resta che registrare arbitrariamente scegliendo immagini e come montarle e quindi cedendo alle possibilità del male e dell’errore. Lo sceriffo Bell non prenderà Chigurh ma si limiterà ad andare in pensione solo per constatare l’assenza di possibilità: possibilità di un ritmo simmetrico delle cose (sguardi ricambiati, auto che si fermano ai semafori, aria che non buca teste ma che si limita a sfiorarne i capelli, ecc.ecc.), possibilità di porre fine a tutto questo col racconto di un sogno (magari abolendo anche i titoli di coda ma credo che non l’avrebbero permesso neppure ai Coen), ma soprattutto possibilità di scegliere senza moneta, o meglio, di scegliere oltre la moneta, superando la schematizzazione del tempo che in questo film spesso, meravigliosamente spesso, prende il sopravvento impressionando le immagini. Ho sentito il tempo affacciarsi nell’immagine, lo scorrere implacabile di un evento che non lascia scampo (gli effetti di reale della prima parte del film lasciano poco spazio alla ri-costruzione) e che si accartoccia nell’andamento ellittico dell’epilogo.

21 marzo 2008

Sci Fi anni venti in 7 film: 3. Sur un air de Charleston (Jean Renoir, 1927)

“L’an 2028 – quelques années aprés la prochaine guerre… Un aéronef s’apprête à décoller d’Afrique Centrale…”.Nella civilizzata Africa un uomo parte con la sua astronave “Vers l’Europa Deserta, Terra Incognita” ove incontra a Parigi, identificabile con l’immagine di una Tour Eiffel piegata nella parte superiore, una “aborigena” accompagnata da una grossa scimmia (forse uno scimpanzé). La sfera atterra sulla sommità del rifugio della donna andando a comporre una sorta di moderno monumento megalitico, quasi una scultura surreale. I due purtroppo non si capiscono, l’uomo tenta di fuggire ma viene catturato dall’indigena che, dopo averlo legato a un palo, inizia quella che sembra essere una danza tribale dei bianchi: il charleston. L’uomo capisce di cosa si tratta e si rivolge alla ragazza mostrando il suo consenso, mentre una didascalia rivela la sua frase: - “Félicitation! Montrez-moi encore cette dance admirable! Après vous pourrez me tuer et me manger!” Ma la ragazza afferma di non digerire la carne nera. Dopo una scena in cui l’uomo al telefono (materializzatosi da un disegno della ragazza) comunica a degli strani angeli (surreali voci dell’etere che sopraggiungono dall’altra parte dello schermo?) che vuole apprendere il charleston (“la danse traditionelle des Blancs”), la ragazza lo libera e comincia a ballare. Da questo momento in poi inizia il loro dialogo “danzante”, unico modo in cui i due possono comunicare. Tra maestra e allievo (tra donna bianca e uomo nero, tra aborigena e uomo civile) nasce una profonda empatia. La ragazza seguirà l’uomo (naturalmente facendosi raggiungere in una divertente scena surrealista da un soprabito e un ombrello “animati”) salendo sulla sfera volante che ripartirà alla volta della civilizzata Africa. Un film importante, anche se forse considerato minore rispetto agli spettacolari film della fantascienza di quegli anni (Metropolis è del 1926). Charleston (purtroppo la musica originale è andata perduta) esprime tutte le potenzialità del cinema portando davanti allo sguardo la forza dirompente del movimento nel mostrare i passi ora veloci, ora rallentati, della bravissima attrice-ballerina e moglie di Jean Renoir, Catherine Hessling. Il “dialogo” a suon di passi tra i due esalta la plasticità delle forme, costringe a riflettere sull’importanza dell’immagine in quanto espressione intima della nostra volontà di possederla. Il dialogo attraverso il movimento del corpo e l’euforia incessante della maestra che imprime al ballo un andamento irreversibile, interrotto solo dai capogiri dell’allievo sfinito, unisce razze diverse, culture diverse, informa sulla storia e i costumi di un mondo alieno. Il movimento, soprattutto interno all’immagine, è una fonte preziosa di informazioni, ed essendo parte fondamentale e pregnante dell’immagine, riesce a superare ogni limite, spingendosi al di là del percepito, ben oltre i “significati” linguistici del sonoro. Infatti Cherleston, pur essendo muto, potrebbe anche essere definito un musical. Mentre il linguaggio della parola (per via di codici decifrabili attraverso il possesso di una o più chiavi) può non funzionare (e il cinema può franare nella banalità di frasi fatte), al contrario la mimica del corpo riesce a sopperire alle incomprensioni per la diversità, costruendo nella mente i codici universali che allineano le differenze e resettano le divergenze (e il cinema può ri-formarsi su altri livelli energetici). Il corpo e il suo stato naturale (sudore, dinamicità, espressività, gioia dolore, mimica) e soprattutto l’immagine del corpo e della sua interazione con lo spazio che lo circonda (che prosegue anche nel montaggio) uniscono le differenze degli sguardi e mettono in comunione gli uomini al di là delle convenzioni sociali, delle differenze di sesso, cultura, idee.

P.S. Il primo piano di Catherine Hessling è tratto dal film "La fille de l'eau" (1925) di Jean Renoir.

17 marzo 2008

La fille coupée en deux (Claude Chabrol, 2007)

Ogni tecnica rimanda a una metafisica (André Bazin)

Attenzione in questo post faccio spoiler! Dopo cinquanta anni esatti dal suo primo film, Le Beau Serge, fa un certo effetto leggere ed esprimere un’opinione su un film di Chabrol. Claude Chabrol è stato il primo critico dei “Cahiers” a girare il suo lungometraggio, anche se gli accordi con Resnais, Truffaut, Rivette, Bitsch, prevedevano la creazione di una cooperativa. E questo è stato possibile perché la moglie ereditò dalla nonna 32 milioni di franchi che Chabrol investì immediatamente in una società di produzione fondando la AJYM Films (“A” era l’iniziale del nome della moglie Agnès; “JYM” le iniziali dei due figli Jean-Yves e Mathieu) e girando nel 1956 il primo film professionale della Novelle Vague (il cortometraggio Le Coup du berger). Semplificando al massimo (e sbagliando) mi viene da pensare che la meravigliosa esperienza della Nouvelle Vague è iniziata per l’eredità di una nonna. Dopo cinquanta anni il regista riesce ancora a graffiare mettendo in scena, come ha fatto in tanti altri suoi film, difetti e perversioni dell’alta borghesia francese, mostrando lo scarto tra rappresentazione della mente e reale, tra noumeno e Ding an sich. Il noumeno kantiano sarebbe la rappresentazione di tutto quello che sta oltre le possibilità della mente, tutte quelle cose che la mente non è in grado di conoscere ma che deve pur “rappresentarsi”, ossia “ciò che si pensa come reale”. Ma ciò che si pensa come reale, nel cinema, diventa spesso, o tende a diventare, il verosimile (che è differente in ognuno di noi perché ognuno di noi si costruisce nella mente una differente mappa della realtà). Il Ding an sich (la cosa in sé) invece è il limite a cui tende (senza mai arrivarci) il noumeno. Gabrielle, con la sua spavalderia, il desiderio di affermare la sua personalità senza distinzione di età e sesso, si innamora delle immani possibilità che può offrire la cultura, ma per far questo deve scendere nell’inferno della perdizione, sottomettendosi al gioco perverso di Charles Saint-Denis, uno scrittore cioè un creatore del falso. Ogni artista – si pensi alle Mémoires del Goldoni – è un bugiardo, in quanto tende a costruire a posteriori un percorso lineare degli eventi più o meno casuali che ha incontrato durante la sua ricerca quando si è mosso dentro un labirinto senza porte d’ingresso. E siccome l’artista è un bugiardo, in quanto non può fermare la parola in un significato (ti amo), impedito com’è dalla ricerca di nuove forme (“ti amo” diventa “non posso vivere senza di te”), la forza della ragazza crolla dentro le stesse immagini, durante i dialoghi con Charles davanti allo specchio o nel letto o seduti al tavolo di un ristorante. Letto, specchio, tavolo o scrivania: tre oggetti del quotidiano che accolgono la perdizione e l’estasi della cultura. Ma il rapporto tra i personaggi è molto complesso. Saint-Denis dice spesso alla moglie di amarla in un modo quasi fastidioso, senza anima, mostrando la sua indifferenza. Il nostro noumeno rapporta il tono della voce con il contesto (la tradisce) costruendo una rappresentazione ideale tipo “quell’uomo non ama la moglie perché la tradisce, ma è odioso perché la illude, non è sincero e poi se ne va con una ragazzina; quale punizione meriterebbe?” Invece il vecchio intellettuale abbandona la ragazza, non la moglie, e quindi ancora disprezzo: ha abbandonato una ragazza che lo amava, che aveva accettato la perdizione per amore. In realtà non è così. Chabrol riesce sempre a sorprendermi. Certo questo non è il suo miglior film. Vi sono film in cui questi “giochi” gli riescono meglio ma sono comunque sorpreso. La ragazza ha accettato di sua iniziativa la perdizione quasi come una sfida, si sposerà con Paul Gaudens, giovane rampollo di una famiglia ricca, continuando ad amare il suo vecchio scrittore. La fille coupée en deux non è solo una storia d’amore romantica, non è solo un voler affossare l’alta borghesia (Chabrol l’ha fatto in altri film e con altri argomenti) ma è il tentativo di mostrare l’opacità delle immagini, portandoci in un percorso senza uscite, alla ricerca di una metafisica delle “cose in sé”, la cosiddetta realtà con la sua imponderabile perversione. Ma i punti di riferimento sono spesso cambiati, la realtà è inafferrabile, l’immagine non sempre mostra quel che mostra. Il Ding an sich kantiano è nel fuori campo, ma non in quello che poi Chabrol ci mostrerà nel sintagma, ma in quello che non vedremo mai e che la nostra mente cercherà di ricucire a modo suo. Gabrielle si sposerà con Paul Gaudens, accetterà il potere dei soldi ma anche la forza della giovinezza, anche in questo caso rinunciando a mentire (la ragazza non legge e non ha fantasia), rivelando la parte orribile del suo rapporto con lo scrittore (la rappresentazione senza amore può diventare pornografia). Paul, a sua volta, “credendo” di essere innamorato (ma poi scopriremo che non lo è) cerca di rimediare in quanto parte lesa (o presunta parte lesa). Il rapporto a tre diventa molto complicato poiché il bene e il male si scambiano di posto, si abbracciano, si contorcono disturbando la vista, inquietando il nostro noumeno. La realtà non è una mappa geografica. Chi è allora Gabrielle Deneige? Una donna perversa? Ogni tanto ne nasce una e si veste di rosso, si tinge le labbra di rosso, è solare, e quando arriva il suo tramonto un’altra prenderà il suo posto (nel film vediamo Joséphine Gaudens vestita di rosso). È una donna innamorata? Probabilmente sì, ma anche no, perché tradisce persino la memoria dell’amato rivelando la verità (ma quale verità?) Il gioco si fa ancora più perverso: una bugia avrebbe garantito un certo equilibrio, ma una verità (direi più “una rappresentazione ideale della verità”) al contrario riporta il noumeno ad uno stadio primordiale. Adesso non resta che entrare nella magia, luogo dove il mondo è come lo vogliamo noi a prescindere dalle regole di “vero” create da chissà chi. L’immagine è tagliata e possiamo solo ricucirla a modo nostro. Un film dove i significati sono scollati e dove ha senso (mi si perdoni il bisticcio di parole) solo il senso profondo “delle cose in sé”. Il Ding an sich di Kant.

13 marzo 2008

Sci Fi anni venti in 7 film: 2. Metropolis (Fritz Lang, 1926)

Innanzitutto tengo a sottolineare che una bellissima recensione del film la trovate in Movie's Home. Un'analisi completa e precisa che rende bene l'idea a cosa si vada incontro nel vedere questo incredibile film. Metropolis non è solo un film. Metropolis è una sinfonia, un’armonia di immagini dinamiche e “suoni” tridimensionali in cui si specchiano gli eventi rifulgendo nella loro incredibile semplicità. L’idea del film venne a Lang quando, arrivando in America a bordo di una nave, vide il panorama di New York con lo sfavillio delle sue luci, vide una città luminosa e incredibile, così diversa allora dalle oscure città europee. La sceneggiatura venne scritta dalla moglie Thea Von Harbou che riprese l’idea del romanzo di di H.G. Wells Quando il dormiente si sveglierà: una storia degli anni a venire cambiando però alcune parti della trama per non incorrere nell’accusa di plagio, memore della sorte toccata al Nosferatu di Murnau, un adattamento di Dracula il vampiro di Bram Stoker. Infatti i giudici inglesi e tedeschi ordinarono di mandare al macero (o meglio in fumo) il film, dando ragione alla vedeva di Stoker la quale aveva intentato causa, vincendola, contro Murnau e Galeen accusandoli di aver ripreso direttamente la storia scritta dal marito. I due si erano limitati a cambiare solo il titolo del film. Thea, una eccellente sceneggiatrice, aveva iniziato a collaborare con Lang un anno prima di sposarlo nel 1919 e da allora la collaborazione dei due proseguì fino al divorzio, quando nel 1933 Lang rifiutò la proposta da parte del governo nazista di assumere la direzione della cinematografia tedesca, decidendo di abbandonare la patria per gli Stati Uniti. La moglie non lo seguì e cominciò a scrivere sceneggiature gradite al regime. La casa di produzione di Metropolis, l’Ufa, a causa degli enormi costi iniziò il suo declino nonostante gli aiuti economici della Famous Player e della Metro-Goldwyn. Metropolis è un film che ha influenzato il cinema per almeno un ventennio (ancora oggi se ne sentono gli effetti) determinando un modo di fare cinema più dinamico e funzionale. Ogni immagine, ogni scena, ogni sequenza non è superflua, ma contribuisce a condurre la trama verso il suo epilogo; queste capacità derivano da una ricerca formale e accurata degli equilibri interni all’immagine dove i movimenti delle macchine e i gesti degli uomini rispondono a ritmi bene architettati. Cosicché ogni movimento interno non è fine a se stesso, ma risponde alle esigenze dell’intera sequenza. Ogni movimento (dall’incedere ritmato e cadenzato degli operai avviliti, agli stantuffi,alle lancette di orologi che inglobano anche gli arti dei lavoratori, ecc.) si integra in uno spazio che rende bene l’idea della tridimensionalità (nonostante le tecniche dell’epoca e i limiti del quadro) rendendo la città una cosa viva. Questa vitalità sottesa, appunto dinamica, viene ottenuta non tanto tramite i movimenti di macchina quanto con l’incedere e il fluire di uomini (masse umane), macchinari, automobili, acqua, all’interno della scena. Il tutto condito da un mélange di stili in cui domina il disegno espressionista (ma vi sono alcune scena che ricordano di più il surrealismo come nella sequenza in cui Freder vede la morte con la falce che gli si reca incontro). Naturalmente in queste brevi “schede” su alcuni film degli anni venti non intendo approfondire i film (e per Metropolis non sarebbe sufficiente un libro) ma solo proporre approcci alla loro lettura o ri-lettura. Una scena che mi ha colpito, ad esempio, è quella in cui il robot-femmina si trasforma in Maria. Intanto il robot è di una modernità sconvolgente e ricorda molti robot moderni in cui il metallo non è uno scafandro che avvolge l’anima elettromeccanica dell’essere, quanto una pelle, un involucro che fa somigliare il robot ad un androide. Inoltre, quando il robot assume le sembianze di Maria, come non possono venire a mente i replicanti di Blade Runner? Voglio terminare rammentando la stupenda e bellissima attrice Brigitte Helm, nata nel 1908, e incontrata dalla moglie di Lang negli uffici dell’Ufa in cui lavorava come dattilografa perché, pur avendo calcato il palcoscenico, non trovava lavoro. Il suo vero nome era Eve Schittenhelm e a soli diciotto anni divenne la donna più desiderata del momento, soprattutto per lo stupendo doppio ruolo di donna morigerata e quasi santa e di essere lussurioso (nell’incubo di Freder danza lascivamente e seminuda davanti a un pubblico di uomini che la osservano con un’avidità resa metaforicamente attraverso un’immagine surreale di occhi, molti occhi, tantissimi occhi). Nel 1933 la Helm venne definita da un giornale italiano “una fiamma fredda”. Se proprio devo trovare un difetto al film (ma non mi sento di definirlo tale), quasi più per curiosità che per voler criticare, trovo il finale dalla Von Harbou troppo “buonista”. Certo, ai fini degli incassi, il lieto fine probabilmente deve essere stato gradito dai produttori, ma forse avrei preferito il finale che voleva realizzare Lang, ossia la distruzione di Metropolis-Gomorra e la fuga dei due innamorati (Maria e Freder) su un razzo verso la Luna. In tal modo Metropolis sarebbe diventato l’ideale prima parte del film girato da Laing nel 1929 “La donna sulla Luna”.


Le notizie del post sono state riprese da più fonti tra cui tengo a citare il libro di Luigi Cozzi “Gli anni d’oro del cinema di Fantascienza”, e soprattutto, per quanto riguarda la Helm il volume “Le dive del silenzio” di Vittorio Martinelli.

9 marzo 2008

Sci Fi anni venti in 7 film: 1. Paris qui dort (René Clair, 1923)

Une soir. Paris s’endormit… …et. le matin suivant…
Un’immagine della Senna vista dall’alto come incipit, quindi la didascalia come voce off, semplice eppure di una espressività senza pari, introduce la narrazione attraverso le immagini, solo attraverso le immagini. Una veduta dall’alto di Parigi la sera prima di addormentarsi. Et le matin suivant… inquadratura in campo medio del giovane che dorme su un letto appoggiato ad una parete. Quindi il suo risveglio in campo lungo che mostra una stanza misera, con un piccolo tavolo e uno sgabello sulla sinistra e nessun altro mobile. Ci viene presentato il personaggio: …le gardien de nuit de la Tour Eiffel… Un custode che inizia la sua normalissima giornata, si accende una sigaretta, getta il fiammifero e nel sintagma una carrellata verticale che, inquadrando il "Champ de Mars", scende fino a mostrarci il guardiano affacciato alla balaustra. Perché “dans la ville rien ne bouge”? E perché nessun parigino o turista sale sulla torre? A René Clair sono bastati due minuti per introdurre il mistero, per porsi delle domande, per incuriosirci. Qualcosa di grave deve essere accaduto. Il tempo che scorre mostrato attraverso le lancette di un orologio, che corrono velocemente, crea preoccupazione nel guardiano ma anche nello spettatore: preoccupazione, ansia, curiosità di sapere. L’immagine prende subito il sopravvento per condurre lo sguardo attraverso un interessante viaggio, attraverso una Parigi all’inizio degli anni venti, mostrandoci i problemi quotidiani, anche divertendoci. Uno sguardo sulla vita che somiglia incredibilmente a quella di oggi (aspiranti suicidi, ladri simpatici, borghesi pieni di soldi, persone che frugano nella spazzatura, scienziati pazzi, la noia, la lotta per il danaro e per il sesso, e due donne bellissime). C’è pure una notevole scena animata che sintetizza la causa e gli effetti, mostrandoci una Tour Eiffel stilizzata a sinistra, un aereo in volo a destra e, nel centro, la casa da dove è partito il raggio responsabile del sonno planetario. La parte alta della torre e l’aereo, trovandosi al disopra dello “spruzzo anestetizzante”, hanno protetto le persone dall’improvviso letargo. Il laboratorio del Prof Ixe (palesemente una quinta disegnata) sembra un’immagine futurista: una leva collegata a una sorta di scatolone con tre lampadine sopra decide se addormentare o risvegliare il mondo. “C’est d’ici qu’est parti le rayon lourd …” riporta la didascalia che sintetizza il racconto della nipote di Ixe. Un grande film che gioca sul flusso vitale della città, sul contrasto tra le strade deserte dell’incipit, dove i personaggi addormentati sono rari, e le immagini dell’epilogo in cui l’immobilità viene “ricostruita” attraverso vari frame-stop. La città svuotata dal proprio contenuto, deserta (immagine di tanti film di fantascienza degli anni a venire) non è naturale, non è più recepibile come profilmico adatto a rappresentare la realtà, la stessa che invece viene regolarmente messa in evidenza attraverso il traffico dei boulevard di una città appena risvegliatasi dal lungo sonno. Il film rappresenta il fantastico proprio attraverso il vuoto, l’assenza (assenza delle figure umane) o la rarefazione. Questa rarefazione che lascia immobili anche gli edifici, strutture inutili e abbandonate a se stesse, colte nell’attimo prima di un evento inatteso. Una guerra appena terminata o un futuro ancora più incerto? Paris qui dort è il film d’esordio del regista che poi girerà capolavori come "Sotto i tetti di Parigi" (1930), "Il milione" (1931), "A me la libertà" (1931), "Per le vie di Parigi" (1932), "Ho sposato una strega" (1942), "Accadde domani"(1943), "Dieci piccoli indiani" (1945), "Il silenzio è d’oro" (1946). Mi fermo qui altrimenti citerei l’intera filmografia. In realtà il film venne proiettato in sala circa un anno dal termine delle riprese dopo che era già uscito il suo Entr’acte (1924). Paris qui dort è una pietra miliare della fantascienza anni venti.

7 marzo 2008

Lo spazio tattile di Mark Rothko

Lo spazio è un dilemma, una rappresentazione artefatta della realtà, un modo per rappresentare il mondo ma anche le emozioni. E la prospettiva è solo uno dei metodi, una grande conquista certo, ma l’idea di rappresentare matematicamente la realtà tridimensionale su un piano a due dimensioni non è una condicio sine qua non, ma è un valore estetico, anche se la cultura cristiano-occidentale, dal Rinascimento in poi, si identifica nella rappresentazione prospettica, nonostante il concetto spaziale si sia trasformato nel tempo. Non intendo trattare una storia della prospettiva, ma solo sostenere che quando guardo un film rimango sì affascinato dal movimento e dalla profondità di campo, dall’illusione tridimensionale, ma ancor di più vengo colpito da uno spazio interiore, mentale, che si forma “al mio interno” e che comprende movimento, azione, ma anche tempo, staticità e sogno. Lo spazio che amo è insomma uno spazio immaginario che si ricollega ad una visione arcaica, ma anche orientale e antiprospettica. Non ripudio la prospettiva, ma credo che non esista uno spazio dominate nell’immagine riprodotta, bensì uno spazio emozionale mentale. A questo proposito riporto e commento alcuni brani scritti da Mark Rothko.

Rothko individua due tipologie differenti di spazio: spazio tattile e spazio illusorio. “In un dipinto tattile l’aria è rappresentata come una sostanza reale piuttosto che come un vuoto quanto possiamo cogliere più facilmente se ci immaginiamo una lastra di gelatina se non di stucco tenero, in cui sono impressi una serie di oggetti a diverse profondità”. Lo spazio illusorio serve all’artista che è interessato a trasmettere un’apparenza, ma l’artista non “può attribuire alcuna forma di esistenza effettiva all’aria, per la ragione che non è possibile vedere un gas. Abbiamo così una parvenza di peso per gli oggetti stessi ma nessuna per l’aria che li circonda […] Di conseguenza , l’apparenza che l’artista illusorio ottiene è quella delle cose che evolvono in un vuoto”. E l’unico modo, prosegue Rothko, per intravedere l’aria come un solido, consiste nell’inserire alcuni gas visibili nel quadro (nuvole, fumo, nebbia, foschia). Oppure si può rendere l’esistenza dell’aria attraverso la conoscenza della prospettiva atmosferica, ossia tenendo conto del fatto che la distanza rende gli oggetti man mano più grigi. Un esempio di spazialità plastica è per Rothko l’arte egizia, in cui non troviamo nessuna suddivisione dello spazio in piani verticali e orizzontali (che sono alla base della spazialità illusoria). “Tutte le figure esistono su un’unica linea orizzontale che […] corrisponde al modo istintivo con cui il bambino raffigura lo spazio”. Nella pittura egizia manca la profondità spaziale e in tal modo gli oggetti sono immersi nello spazio e vengono avvertiti dall’osservatore, inoltre il “[…]colore che avvolge queste figure mitiche monocrome ha la qualità dell’aria – o piuttosto di un’aria colorata – in cui queste figure si bagnano. [L’aria] è una sorta di sostanza mucosa o gelatina in cui le figure sono incastonate. In altri termini lo spazio viene qui reso non come la qualità di qualcosa che sarebbe dietro le figure, ma come una sostanza dotata di un volume tangibile, che ravvicina il piano frontale del muro alle figure”. In questo interessante scritto Rothko arriva al fulcro del suo discorso trattando delle figure: “[…] Lo spazio è ottenuto […] attraverso il disegno delle figure, eseguito in modo tale che queste circolino al suo interno: la sensazione di fuga è ancora prodotta disegnando le gambe di una figura che intersecano quelle di una figura al suo fianco, nonché tra la scelta di colori contrastanti tra il profilo e lo sfondo, in modo tale che entrambi si avvicinino al piano frontale”. Prosegue questo interessante lavoro analizzando l’arte tattile di Giotto (basata soprattutto sul colore). Quindi concorda col fatto che nelle razze primitive non vi è divergenza tra reale e fantastico, e pertanto lo spazio delle razze primitive “[…] è tale da rendere oggettiva ogni loro fantasia, nello sforzo di conferirle un’esistenza sensibile. In tal senso sono questi i detentori dell’unica sintesi effettiva, ovvero dell’unica identità tra sensibilità e verità che conosciamo attraverso l’esperienza intellettuale”. È dal Rinascimento che questa sintesi venne meno. “Gli uomini cominciarono a rilevare le discrepanze tra il mondo sensibile e il mondo immanente”. La scienza disgregò per sempre l’unità tra mondo oggettivo e mondo immaginario. Da allora in poi l’arte non ha “[…] più conosciuto l’unità della filosofia dello spazio caratteristica dei primitivi. Le scoperte scientifiche portano sempre a verità parziali e separate e “[…] hanno bisogno di una scienza superiore che le metta di nuovo in correlazione per evitare che si perdano in una filosofia mitica e astratta.[Ancora oggi] non abbiamo trovato una formula che esprima l’unità del soggettivo e dell’obiettivo”. L’arte moderna (soprattutto dadaismo e surrealismo ) ha prodotto una filosofia scettica (“principalmente uno scetticismo plastico”). “Questi artisti moderni si chiedono: la ricerca dell’unità definitiva non è in se stessa priva di valore?”.

Mi scuso per questa lunga digressione e per le numerose citazione dal volume “Mark Rothko. L’artista e la sua realtà, Skira, 2007”, ma mi sono servito del grande pittore per mettere in evidenza quale sia il mio tentativo quotidiano (visione dopo visione) di penetrare la plasticità dell’immagine e attraversare la prospettiva cercando di toccarla. Per chiarire meglio, quando guardo un film, riferendomi allo spazio, cerco (non so bene con quali risultati) di attraversare la prospettiva per ritrovare in una immaginaria unità la plasticità degli oggetti. La configurazione spaziale non viene accostata alla verosimiglianza, in altri termini non mi interessa tanto la qualità prospettica e quanto una sequenza sia “perfetta”, perché non ho bisogno di ritrovare nel quadro gli stessi effetti (poniamo) di un tramonto. Anzi nel mondo gli effetti di un tramonto sono propositivi, non contemplativi, in quanto vedendo le striature rossastre del cielo non ne gode solo la vista ma tutti i mie sensi (contemporaneamente posso odorare la brezza che so primaverile e ascoltare i rumori nascosti nella vegetazione e provare la gradevole sensazione tattile dell’aria che sfiora il mio volto). Questo non accade nella sequenza, e neppure nell’immagine, ma accade che, a differenza del mondo, l’immagine entri in sintonia con la mia soggettività formando una sorta di arco voltaico, una rudimentale unità, anche se istantanea, tra il senziente e il riflesso luminoso e impalpabile della luce. La luce, trasportando i suoi ectoplasmi eterei sulla stoffa, costruisce uno spazio che definirei equoreo ove gli oggetti, le forme, gli attanti e qualsiasi parvenza illusoria resa a prendere consistenza, rimangono immersi. La prospettiva fluida, tattile, che ha smarrito il senso matematico delle forme, entra in sintonia con i miei modelli istantanei, ossia con la capacità di definire il senso di un linguaggio interiore (1), venendomi in aiuto non tanto nella comprensione estetica (in pratica non cerco di capire) quanto nell’assorbimento del respiro profondo del cinema o meglio (parafrasando Deleuze) della sua apertura verso il visibile, sulle cose come potrebbero essere se io non esistessi, se io non le guardasi, senza che la mia mente le organizzasse secondo modelli standardizzati. È una lotta continua e forse un progetto di sconfitta in cui l’unica consapevolezza (come affermano anche alcuni appassionati di Cinema) è che il cinema non propone un’estetica del bello (questa la lascio ai colori del tramonto) quanto un’estetica come percorso irto e faticoso proiettato verso una ricerca della conoscenza. È in questo contesto che osservo, ad esempio, i colori emozionali di Orange and Yellow (vedi fig.) di Rothko il quale raccomandava di osservare i suoi quadri a 45 centimetri di distanza per sentirsi avvolti e risucchiati dai colori. Vedere per assaporare e toccare il colore.

(1) Per Vygotskij il linguaggio interiore è più o meno un linguaggio privo di parole che permette di esprimere con una sola parola contemporaneamente pensieri, sensazioni, emozioni.

5 marzo 2008

Da ieri sono un giudice della Cinebloggers!


Ieri sera ho avuto la sorpresa e il piacere di scoprire di essere stato nominato giudice della Cinebloggers Connection.

Potete immaginarmi la soddisfazione e l'onore di far parte di un gruppo rinomato di cinefili.

L'emozione provata è troppo intensa e per questo non ho parole per descrivere il mio stato d'animo.

Tutto questo grazie a Chimy e Para che hanno preso la meravigliosa iniziativa di proporre la mia candidatura proprio in questo post (devo ammettere che l'immagine di Pierrot è stupenda e non ne possedevo una così, adesso se Para e Chimy permettono me ne approprio anch'io ^_^).

I miei ringraziamenti vanno anche a Honeyboy, cineblogger da me stimato e ormai un fratello (dopo il post fusion su Cloverfield) il quale ha subito appoggiato la mia candidatura, così come ringrazio anche MrDavis, e Cinedelia, (anche loro hanno approvato la scelta di Cineroom).

Ringrazio inoltre Kekkoz che mi ha prontamente accolto nella Cinebbloggers Connection, nonché tutti gli altri che hanno incrementato le adesioni alla mia candidatura (mi si scusi se non li nomino tutti).

Adesso per me viene il difficile, perché dare un voto ad un film è un impegno enorme in quanto non so valutare attentamente le differenze tra film, specialmente tra quelli nuovi (soprattutto se capolavori) e quelli vecchi (film che ho visto molte volte e sui quali esiste una nutrita letteratura).

Ma la sfida è proprio questa: riuscire a trovare un equilibrio.

Non sarà facile, ma ci proverò.

Ancora grazie ai ragazzi di Cineroom e a tutti voi che avete approvato. ^_^

2 marzo 2008

Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street (Tim Burton, 2007)

Sweeney Todd è uno di quei film che mi scuotono dal dentro, perché sono iperrealistici. La realtà non è scomparsa nell’incubo di una Londra ricostruita in teatro e ritoccata col computer, né è stata scacciata dai colori surreali dei sogni, ma è rientrata dalla finestra deformante del cinema, attraverso quel fascio di luce che dal proiettore fende l’aria mostrando il pulviscolo e le particelle leggere di solito invisibili all’occhio. E com’è possibile che quella luce (che una volta illuminava le volute del fumo di centinaia di sigarette punteggiate nella sala oscura come lucciole di maggio), com’è possibile che riesca, attraverso tanti ostacoli, a trasportare immagini fino allo schermo? È come se Sweeney Todd sia riuscito a “raccattare” tutte le impurità del reale, assorbendo la polvere e le scorie del mondo. Questo è uno dei rari casi in cui il cinema esprime benissimo se stesso, in cui mostra il mostro facendolo affiorare alla superficie. Perché ogni grande film è un mostro, ossia una Chimera(1). La Chimera è innanzitutto un mostro che finisce tragicamente ucciso dal piombo ed è un animale “irreale” costituito da parti di animali “reali”. Il cinema è una Chimera perché è un surrogato di reale (quindi irreale) costituito però da pezzi di reale (il profilmico) che in base alla loro giustapposizione formano tipi diversi di chimere. Questo film riesce a mostrare il deittico con una potenza del Falso che non ha uguali (almeno riguardo ai film di questi ultimi anni eccetto forse INLAND EMPIRE), riuscendo a rivelare quel paesaggio moderno dove l’espressività delle immagini si forma nel momento in cui vengono osservate, perché appunto si è formata una chimera, e con essa l’angoscia, il nostro mostro accovacciato sulle spalle(2), le immagini seriali o il collage di immagini seriali della modernità che rimangono come invischiate nel fotogramma. In effetti quando l’immagine cerca di riprodurre il film, non può “scorrere”, anche se scorre nel nostro immaginario, facendo sembrare “strano”, astratto, ciò che troviamo naturale nel quotidiano. Ecco i punti che mi interessano: Formazione del mostro, Sinestesia dei suoni, Incubo del colore.

Formazione del mostro. Dostoevskij nel suo “Memorie dal sottosuolo” afferma che il totale è molto di più della somma delle sue parti, quattro è molto di più di due più due. Le parti del film: colore, recitazione, profilmico, musica, découpage, prese di per sé, isolate, non aggiungono niente all’arte di Burton, anzi si limitano a ripetere e mostrare ciò che è già stato detto e visto in tanti suoi film precedenti. Il barbiere Sweeney come il sig. Pirelli, che si confrontano in una gara di rasatura, o le tante gole tagliate da Sweeney o la carne macinata ottenuta da pezzi di cadaveri umani, sono immagini già viste, elaborate, recepite. Eppure tutte queste cose insieme, non so come (e questa è la magia del cinema) generano la Chimera, portando la deissi allo stesso livello del soggetto del film. L’irrealtà fattasi mostro, appena percepibile nell’incipit (una normale storia di soprusi) prende sempre più il sopravvento trasportando i personaggi verso quel mirabile epilogo che è insieme tragedia e pittura, danza e horror, quadro invaso dalla carne e spiritualità degli eventi, commedia degli equivoci e tradimenti e amore non corrisposto, lucidità della follia e pazzia della logica. In altri termini l’epilogo è la summa di tutte le compenetrazioni, l’esplosione dei componenti del montaggio; è come se Burton si fosse divertito a smontare il film davanti a nostri occhi facendo esplodere dall’interno il découpage e la pellicola. Mostrandoci il procedimento di costruzione del film, come epilogo tragico del mondo, ha dato vita alla creatura come novello Frankenstein che ha forgiato il suo mostro costruito con pezzi trafugati nei cimiteri. Per fare questo il nostro Tifone non ha sottratto per sommare (tipico dei grandi registi), ma ha diminuito, forse comprendendo che fare il passo più lungo della gamba a volte non conviene. Ha abbassato l’intensità del colore riducendolo ad una sorta di bianco e nero colorato (azzurri, grigi, neri) non solo per rendere il clima gotico di una Londra dipinta come luogo di residenza del male, ma per non utilizzare l’intera tavolozza, perché la Chimera possiede solo parti, non tutti i corpi. Si è riservato di usare l’intera tavolozza solo nell’incipit “idilliaco” (molto breve) del barbiere ingenuo e nel sogno della signorina Lovett, riservando all’arcobaleno la parte idilliaca e sognatrice ma anche la parte capace di annientare la conoscenza. Infatti i colori del sogno sono più falsi di quel mélange gotico monocolore del film e inoltre il sogno ci restituisce uno Sweeney marionetta che non è componente attiva (nel classico sogno idilliaco il barbiere avrebbe dovuto corrispondere l’amore della signorina Lovett), ma è stato preso in prestito da un incubo a colori. Per questo il sogno della signorina Lovett è un sogno diminuito (non completo), altrimenti non sarebbe stato possibile utilizzarlo come pezzo cadaverico della Chimera. Insomma, qualunque aspetto del film è diminuzione, riduzione, evaporazione acquea, come se la finta pioggia che cade su Londra dell’incipit (suppongo volutamente falsa) stia evaporando davanti allo sguardo per lasciare il rosso come unico colore disposto a invadere il quadro. Stesso discorso potrebbe essere fatto per i bambini (che non sono l’infanzia ma una loro flebile parte), l’infanzia è stata appena mostrata: tutta intera non sarebbe servita. E anche per altri aspetti del film che non starò a sottolineare.

Sinestesia dei suoni. Ossia associazione di due termini che si riferiscono a sfere sensoriali diverse. Colore e suono non sono separati, o meglio, come pezzi trovati nel ciarpame sono separati, ma insieme interagiscono e la musica, il musical, restituisce colori, come il colore restituisce musica. Il musical non è musical perché non è composto da danza, canto, musica e recitazione, ma da surrogati di danza, di canto, di musica e di recitazione, altrimenti saremmo stati di fronte a un pessimo musical. Se dovessi giudicare il film come un musical non ne sarei entusiasta. Invece il film non è un musical perché è successo un fatto imprevedibile: musica canto e recitazione si sono compenetrati formando una sorta di monocolore mono-musicale, una sinestesia; le canzoni impossibili da ricordare, monocordi, simili a nenie distruttive, a ninnananne infernali, trasportano colori e immagini, ossia sottolineano, esaltandola, l’ambientazione e la recitazione. Una musica viva e grandiosa avrebbe potuto alienare la Chimera isolandola come componente interessante ma debole del film. In questo modo il suono s’è fatto carne, contribuendo alla formazione parossistica del rosso. Stesso discorso per la recitazione e la scenografia. Per sfruttare una sinestesia il film è un rosso ululato.

Incubo del colore. Questo ci porta all’epilogo. Chimera e sinestesia, ossia pezzi di cadaveri e inversione sensoriale sono proiettate verso il regno del rosso, la caduta nell’inferno del mondo dove l’errore, l’ingiustizia, l’infanzia perduta, il male, il falso e il brutto diventano marcatori estetici che devono essere presi in considerazione come e quanto i loro opposti. D’altronde nella Chimera il Bello soffre della sua stessa presenza poiché da due parti giustapposte e belle non necessariamente si forma un tutto bello. Il colore che sgorga dalle gole, che intinge il vetro del lucernario (e quindi dell’obiettivo), che permane nello sguardo e scivola oltre la botola, che gocciola come acqua sui volti e sui corpi persi e pronti per il pasticcio della signorina Lovett, in fondo è come una liberazione, è qualcosa di tristemente umano, è la crudeltà del sangue fuori posto (al suo posto: vita; fuori dal suo posto: morte), che sgorgando e liberandosi, annulla il movimento dei corpi. In fondo il taglio delle gole è una cesura obbligata per unire fotogrammi e formare la Chimera, per illuderci dell’esistenza di altri mondi (meravigliosi, affascinanti, romantici, pieni d’amore) ma che alla fine sono sempre mostruosità in nuce. Il taglio è un evento indispensabile nel cinema, utilizzato per creare sintagmi, per confrontare immagini e far scattare nella mente lo sviluppo narrativo. Indispensabile ma tragico. Il taglio porta con sé il rischio di rinunciare alla conoscenza. Quando Sweeney taglia l’ultima gola innocente rinuncia al riconoscimento (la vittima poco prima gli ha detto: Ma ci conosciamo?), rinuncia al percorso ovvio e logico di una ricerca sensata, rinuncia alla speranza, alla voglia di cercare, anche se a volte può sembrare inutile. Cambiando sequenza e gettando l’immagine tagliata nella botola, il barbiere ha compiuto l’ultimo atto insensato. Da ora in poi non sarà più possibile sfornare pasticci ma solo dipingere quadri astratti.

(1) Wikipedia: La chimera nella mitologia greca, “figlia di Echidna e Tifone, venne allevata dal re di Caria Amisodare, e visse a Patara. Il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderla perché essa si dava a scorrerie nel suo territorio. Con l'aiuto di Pegaso, Bellerofonte vi riuscì. Si racconta che egli avesse la punta della sua lancia di un pezzo di piombo. Al calore delle fiamme lanciate dalla Chimera, il piombo si sciolse e uccise la bestia”.
(2) Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, A ciascuno la sua chimera