28 luglio 2008

Il cavaliere oscuro (Christopher Nolan, 2008)

Trascurando volutamente tutti gli encomi al film per lo stile, le inquadrature, i movimenti di macchina, gli equilibri interni (ossia simmetrie di recitazione, simboliche, triangoli amorosi classici e triangoli amorosi tra eroi) questo film mi ha impressionato per molti altri motivi che sarebbe complicato riassumere in poco spazio. Come al solito ne elenco due che chiariscono la mia “condizione psichica” alterata da questa visione. Più che motivi, spiegazioni, sono esperienze emotive, sensazioni, tentativi in fieri di esprimere una condizione. Primo aspetto: demolizione delle aspettative diegetiche; secondo aspetto: formulazione del male come rifugio/fuga dall’effetto “Rinoceronte”.
Quando si guarda un film bisogna sempre fare i conti con la diegesi. Per Aumont la diegesi è “[…] la storia compresa come pseudo-mondo, come universo fittizio i cui elementi si accordano per formare una globalità . […] è la finzione nel momento in cui non soltanto prende corpo, ma in cui anche fa corpo. La sua accezione è dunque più ampia di quella di storia, che essa finisce per inglobare: essa è anche tutto ciò che la storia evoca o provoca per lo spettatore” (1). Aumont suggerisce anche di considerare la diegesi come storia presa nella dinamica della lettura del racconto, ossia in quanto essa si forma nella mente, nell’anima dello spettatore mentre il film scorre. Questo interessante concetto viene affrontato in modo particolareggiato da Chateau il quale afferma che la diegesi è una condizione di lettura che la lettura costruisce. «Leggere è verificare, ad ogni passo, che la diegesi è conservata e accettare, ad ogni passo, di farla crescere con la storia […]. L’atto intellettuale della lettura narrativa risiede essenzialmente in un processo di anticipazione e di retroazione correlative che, mentre ci spinge in avanti, ci riconduce verso il focolaio diegetico» (2). Pertanto quando vediamo un film non facciamo altro che verificare, mentre la pellicola scorre, i presupposti del film, rapportandoli alle nostre aspettative, alla nostra cultura, alle nostre emozioni. Quando un elemento “disturbante” del film impedisce di “aderire alla diegesi” cominciamo ad opporre una certa resistenza, a non rimanere coinvolti, come speravamo, dalla visione del film. La storia non ci interessa più, la noia prende il sopravvento e lo pseudo-mondo mostrato sullo schermo, diventa “estraneo” alle nostre aspettative “mentali”. Il Cavaliere Oscuro riesce a produrre un’attrazione-repulsione che, pur scardinando il mio pseudo-mondo diegetico “interiore”, non mi allontana dalla visione. In altri termini Nolan riesce a disattendere le mie aspettative senza allontanarmi dal piacere della visione. Un piacere-dispiacere, un amore-odio, un mondo bifronte s’insinua nel mio “corpus mediatico”, nelle mie speranze e pseudo-certezze, in un primo momento ampliando il mio consenso per via di certi presupposti (Bene contro Male), poi rovesciando totalmente questi stessi presupposti. Se Nolan avesse mostrato un Batman buono che sconfigge un Joker, non dico pentito, ma almeno “giustificato”, le mie aspettative, verificate sequenza dopo sequenza, sarebbero state appagate. Invece la rottura delle regole è avvenuta sovvertendo completamente un certo tipo di ordine mentale che, nonostante i mie sforzi, mi trascino appresso. In pratica Nolan non ha giustificato il Male ma ha mostrato la sua necessità. Il male esiste perché altrimenti il Bene non potrebbe esistere. Mentalmente non posso accettare questo assunto perché il film potrebbe mettere a nudo le mie vaghe certezze, scombinando il mio mondo costruito in anni e anni di educazione, studio e vita vissuta. Potrei accettare di de-costruire il mio vissuto solo per un film? Potrei andare contro la mia personale ricostruzione diegetica di questo pseudo-mondo? In questo senso il film mi parla, il Joker entra nella mia aspirazione, s’insinua nell’intervallo tra un battito di ciglia e l'altro in cui per una volta il male non è il Male ma solo una distorsione, una frattura all’interno dell’apparente ordine costituito. Il Bene insomma, definito per legge, formulato dal potere come bene comune, ripudia qualsiasi disturbo, isola il virus creandogli un “bozzolo iconico”. Il Joker è la maschera tragico-comica di questo tentativo dell’arte di mostrare il lato oscuro del Bene (Batman? I soldi di Wayne?). Bisogna imparare a vedere un claudicante travestito da infermiera che nella sofferenza “scuce” il tessuto perché il vestito non è stato fatto sul suo modello, perché rifiuta i luoghi comuni, le regole astratte di un potere indecifrabile. A questo proposito mi viene in mente una frase di Bataille : “Io penso che l’uomo si erga necessariamente contro se stesso e che egli non possa riconoscersi, non possa amarsi fino in fondo, se non è oggetto di una condanna” (3). Il Joker mi ricorda il bambino che è libero perché non condizionato dalle convenzioni a cui è sottoposto l’adulto. Le convenzioni producono divieti e la loro trasgressione crea i presupposti del Male, ma questi divieti, afferma Bataille, sono ambigui e l’uomo sente il bisogno di violarli perché solo in questo modo l’uomo può sentirsi realizzato. La letteratura (aggiungerei il Cinema) è l’espressione più “acuta e consapevole” di questa trasgressione. L’artista, lo scrittore, è consapevole della propria colpevolezza, perché la sua trasgressione alle regole è scelta autentica. Il Joker è un poeta, è l’artista che tenta di sovvertire l’ordine costituito distruggendo tutto quello che tocca. Bataille afferma “[…] La poesia, in un primo avvio, distrugge gli oggetti che afferra, li conduce con una specie di distruzione nell’inafferrabile fluidità dell’esistenza del poeta, e a questo prezzo spera di trovare l’identità del mondo con l’uomo”(4). E ancora: “C’è veramente, all’origine del destino del poeta, una certezza di unicità, di elezione, senza la quale l’impresa di ridurre il mondo a se stesso, o di perdersi nel mondo, non avrebbe il significato che ha” (5). Solo che l’unicità del Poeta-Joker si completa accogliendo la sua nemesi, un cavaliere oscuro che lotta a modo suo per disgregare un altro ordine (quello delle Mafia legata anch’essa in qualche modo all’ordine del potere costituito). Ambedue cercano nuovi equilibri ergendosi contro la linearità costituita del discorso-potere. Per farlo bisogna aderire completamente alla propria solitudine (il Joker “usa” i suoi complici, ma non crea alleanze, Batman vuole che siano gli altri a farle). Questo gioco a interrompere le mie aspettative, assemblandole in un altro livello narrativo, porta il mio sguardo giudicante (odio) dalla maschera tragica dell’uomo barcollante e “debole” allo stesso sviluppo del film, ossia al suo discorso. In altri termini: in un primo momento la verifica delle mie aspettative diegetiche formula un assenso e un desiderio di vedere, assistere, alla vendetta con conseguente cattura/morte del bandito-Joker (uomo potente e feroce), ma poi il film si sgretola, mostrando l’atto stesso della violenza, la sua forza dirompente e la sua solitudine. Rimanendo sospeso come atto narrativo, come esempio “classico” di aspettativa, il plot fugge dalla narrazione mostrando, scoprendo, il nervo dolorante del mio stesso isolamento. La narrazione (diegesi) mi ha trascinato nel gorgo dell’odio in nome di una vacua e invalidante superiorità semantica, quindi mi ha abbandonato nel mondo mostrando il discorso “mutante”, mutevole, della sua follia. Il Joker è il simbolo di questa follia, è il poeta che uccide un mondo per me. Mi viene in mente (discutendo del secondo aspetto) una bellissima commedia di Ionesco, Rhinocéros. La storia è ambientata in una tranquilla cittadina di provincia, in estate. D’improvviso fa la sua apparizione un rinoceronte, poi un secondo, infine molti rinoceronti. Gli abitanti del paese si trasformano a poco a poco tutti quanti in rinoceronti, escluso uno, Bèrenger: unico essere umano a non desiderare la sua trasformazione in rinoceronte, a ripudiare il conformismo e a non soccombere al fascino e alla magia di un’isteria collettiva che si nasconde sotto una falsa ragione e false idee (Ionesco con Il rinoceronte volle puntare il dito contro le ideologie totalitarie). Un solo uomo resiste, rimanendo uomo. Di seguito la parte finale della commedia. Le ultime battute del terzo atto poco prima che il sipario concluda la rappresentazione:
[…] Hèlas, jamais je ne deviendrai rhinocéros, jamais, jamais! Je ne peux plus changer. Je voudrais bien, je voudrais tellement, mais je ne peux pas. Je ne peux plus me voir. J’ai trop honte! Comme je suis laid! Malheur à celui qui veut conserver son originalité! Eh bien tant pis! Je me défendrai contre tout le monde! Ma carabine, ma carabine! Contre tout le monde, je me défendrai, contre tout le monde, je me défendrai! Je suis le dernier homme, je le resterai jusqu’au bout! Je ne capitule pas! (6)
Je suis le dernier homme. Un eroe solitario che lotta nonostante tutto e tutti o uno psicopatico che odia il mondo perché non appagato dalla sue aspettative diegetiche? Sicuramente dal punto di vista del rinoceronte Bèrenger rappresenta il male, almeno solo per la presunzione di non adattarsi a perdere la propria umanità. Questo dolore per un cinema troppo spesso “colluso” col suo spettatore porta il Joker verso la sua solitudine e Batman a trasformarsi in antieroe che si nasconde nell’ombra. Dopotutto il suo emblema è il pipistrello, da sempre animale temuto e icona del Vampiro. La grandezza di questo film è tutta nella capacità di disattendere le mie aspettative, contraddire le mie convinzioni, mettendo a nudo la mia ipocrisia. Adesso non posso più nascondere il mio vero io, adottato da convenzioni ipocrite e richieste illusorie di uno status impossibile (uomo d’onore?), perché il mio sguardo ha bruciato metà del volto trasformandomi in Due Facce.

(1) Jaques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie, Marc Fernet, Estetica del film, Lindau, Torino 1995 p. 79.
(2) Dominique Chateau, Diegesi ed enunciazione, in Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione. A cura di L. Cuccu e A. Sainati, Napoli-Roma, Edizioni Scientifiche Italiane 1987 pp. 142-143.
(3) Georges Bataille, La letteratura e il male, SE Milano, 1997 p. 37.
(4) Ibidem, p.41.
(5) p. 42. Queste frasi che ho citato sono rivolte all’analisi della poesia di Baudelaire.
(6) Eugène Ionesco, Rhinocéros, Società Editrice Internazionale, Torino, 1972, p.133.

24 luglio 2008

Sambolico (Mika Kaurismäki, 1996)

Le sequenze scorrono fluide e leggere al ritmo del samba mentre le danze di donne bellissime e le performance di capaci cantanti, drag queen di insuperabile eleganza, accompagnano la “fuga” di Eric, compositore finlandese in procinto di scrivere una sua opera (“Sambolico”), accompagnato da una ragazza brasiliana conosciuta sulla spiaggia di Copacabana. La bellissima ragazza carioca ed Eric vengono inseguiti da Rudi (il “protettore” geloso della donna) attraverso luoghi onirici sempre e comunque “attraversati” da danze e musica. Eric incontra l’avvenente femmina (abitino rosso e attillato, labbra fiammeggianti) nell’ascensore dell’albergo. Lei sta piangendo ed Eric prontamente le allunga un fazzoletto; la donna si asciuga lasciando l’impronta delle sue labbra sulla stoffa, quindi s’infila il fazzoletto nel seno. La scena viene vista attraverso lo specchio dell’ascensore: l’immagine speculare della donna in primo piano e quella di Eric più indietro; ambedue sono ripresi frontalmente. Questo corteggiamento ricambiato avviene nel silenzio totale e “dentro” lo specchio, pertanto non nel profilmico, ma all’interno di un oggetto poco attendibile. Lo specchio non restituisce, come potrebbe sembrare, il reale nella sua obiettività totale. Al contrario, la superficie riflettente, oltre a deformare la parvenza naturalistica delle cose, oltre a rovesciare il mondo, possiede un qualcosa di magico che ci avvicina alla cultura brasiliana. Sulla spiaggia di Copacabana la ragazza si rivolge ad Eric, mostrando di conoscere il compositore (Eric sta scrivendo musica), mentre lui non sa niente della donna. L’improvviso intervento di Rudi interrompe la loro complicità. Quella stessa notte Eric la ritrova in un locale, il Samba Show, mentre sta ballando il samba, ma non può avvicinarsi perché anticipato da Rudi che obbliga la giovane carioca ad uscire dal locale. Una volta fuori Eric viene molestato da alcuni ragazzi “danzanti” subito allontanati dal repentino intervento della bellissima donna in rosso. Ogni volta i due complici fuggono al sopraggiungere di Rudi. La reciproca attrazione aumenta sequenza dopo sequenza, fino al loro arrivo sulla spiaggia dove i due corpi, sdraiati sulla battigia percossa dalle onde spumeggianti, si uniscono accompagnati dal rumore della risacca di un meraviglioso, onirico, mare notturno illuminato da una diafana luce lunare. Il racconto è leggero e scorrevole, gradevole come una brezza notturna di un lungomare estivo, morbido e soave come il rapporto che sta per nascere tra i due. Non una storia importante quindi, ma solo un sogno, e in effetti Kaurismäki non si preoccupa neppure di nascondere l’aspetto onirico della storia. Eric si è addormentato sulla spiaggia e se nel sonno rischia la vita a causa del protettore geloso e prepotente, la realtà si dimostra ancora più assurda e inconcludente. In fondo l’amore e la morte risplendono in questa storiella leggera: l’amore è la bellissima Andrea Bloom, l’attrice brasiliana che potrebbe apparire in ogni luogo frequentato da Eric, la morte è il protettore geloso che minaccia Eric con il suo coltello, apparendo negli stessi luoghi frequentati dalla ragazza. Ma l’aspetto interessante del film è rappresentato dal ritmo. Kaurismaki ha scelto il sogno solo come accompagnamento e contenitore del vero centro d’interesse: la musica brasiliana. I ragazzi sulla spiaggia che giocano a pallone si muovono a ritmo di samba, nei locali si balla la samba, ogni personaggio è colto nel momento della danza. A un certo punto Eric e la ragazza entrano in una famosa scuola di samba di Rio: l’Imperatriz Leopoldinense. La ragazza gli mostra con orgoglio la folla che balla indossando i bellissimi costumi del carnevale pronta a sfilare nel Sambodromo di Rio sull’Avenida Marquês de Sapucaí. Sambolico non è un musical ma un cortometraggio che ci restituisce l’atmosfera, a prescindere da qualsiasi epilogo semantico, di una nazione. La musica popolare brasiliana (samba o bossa nova non importa) scandisce e accompagna la vita quotidiana dei luoghi percorsi da Eric. Mika Kaurismäki (fratello maggiore del più conosciuto Aki) comincia con questo corto un suo personale percorso che lo porterà a girare film sorprendenti per qualità e capacità di regalare emozioni, come Moro No Brasil del 2004 (documentario sulla musica popolare in particolare di Bahia e Rio de Janeiro, musica come il Coco, l’Embolada, il Forrò) e Brasileirinho (2006) un documentario sui ritmi e le melodie del Choro. Tutto ciò che sarà fatto in seguito comincia qui in quanto esperienza e conoscenza della vita di questi luoghi che si mostrano a ritmo di samba. Non conosci un popolo se non conosci la sua musica, non puoi capire il Carnevale di Rio se non frequenti le Scuole di samba, se non passi dai locali malfamati e non ti soffermi a guardare il movimento naturale della gente. Sambolico non è il primo film brasiliano di Mika (prima del 1996 aveva girato alcuni film come Amazonas o il documentario Tigreiro) ma è il presupposto, l’inizio di una ricerca. Il soggetto di questo corto è la musica della gente, sono i movimenti del corpo che accompagnano gli eventi e la quotidianità con il suo amore, i suoi dolori, la vita e la morte; il soggetto è il senso di un cinema che sta per nascere e che si trova tutto nel suo “profumo musicale”.

19 luglio 2008

La fiammiferaia (Aki Kaurismäki, 1989)

Terzo film della cosiddetta “trilogia dei perdenti” (Ombre in paradiso del 1986 e Ariel del 1988 gli altri due) è anche il più intriso di pessimismo. Anzi, forse il pessimismo è il vero soggetto del film, e per questo certe sequenze ricordano e quasi portano lo sguardo nel melodramma. Ma Kaurismäki non cede al grande respiro del genere, non si lascia trascinare dagli sviluppi di una storia che avrebbe potuto dilatare all’inverosimile il dramma, fino a raggiungere l’espressione del più grande dolore dell’io “torturato” da un mondo crudele. Eppure i contenuti ci sono tutti: donna sola che mantiene, col suo lavoro in una fabbrica di fiammiferi, madre e patrigno, i quali la disprezzano e la ripudiano alla prima occasione; Arne, amante egoista e crudele che la usa per una notte, per poi abbandonarla (dopo aver conosciuto la sua famiglia e averla condotta in un locale, le dice: “Se però pensi che tra noi ci possa essere un rapporto, ti sei sbagliata di grosso. Niente potrebbe interessarmi meno del tuo affetto. E adesso credo che puoi anche sparire”); un bambino, frutto della sua unica notte con Arne, che sta per nascere; la vendetta e il conseguente epilogo. Ingredienti tipici del melodramma che Kaurismäki non lascia decollare. Al contrario, l’aspetto più drammatico e angosciante del film non è il racconto preso di per sé, ma il modo di porsi di immagini e riprese nel costruire una storia tanto sconvolgente quanto impossibile. Innanzitutto Kaurismäki interviene con il suo metodo più caratteristico, ossia una sceneggiatura minimalista passata attraverso una riduzione estrema dei dialoghi (la prima frase viene pronunciata da Iris dopo circa tredici minuti “Mezza birra”; altri sei minuti circa prima che il patrigno, schiaffeggiandola le dica “Puttana!”). Mentre le ellissi delegano allo spettatore il compito di ricostruire i momenti più drammatici o pregnanti (l’incidente di Iris o la notte d’amore tra Iris e Arne) la macchina da presa indugia sugli oggetti, sui comportamenti e le abitudini quotidiane dei pochi personaggi. L’incipit ad esempio mostra minuziosamente la catena di montaggio della fabbrica di fiammiferi attraverso la lavorazione di un tronco fino alla sua trasformazione in prodotto finito. In particolare questa lunga sequenza iniziale (oltre tre minuti), composta da inquadrature di macchinari che lavorano il legno fino a trasformarlo in fiammiferi inscatolati, è come un’istanza estrattiva di un “reale” amorfo, reso “emblema” di uno status quo che non può essere alterato. Questa istanza “astratta” non è contenuto verosimile e/o rappresentazione ma, come direbbe Barthes, una collusione tra referente e significante. Dettagli superflui (bastava una voce off per metterci al corrente sulla professione di Iris), riempitivi che permettono l’espulsione del significato dal segno. Ciò può causare un senso di irrealtà, di inverosimiglianza. Per questo motivo Barthes contrappone il nuovo verosimile (l’effetto di reale) al vecchio verosimile, all’opinabile (l’assoggettato all’opinione del pubblico). Per Barthes l’effetto di reale non sono altro che i dettagli inutili, superflui, che fanno parte della narrazione, di certe situazioni descrittive, apparentemente funzionali alla «storia». In realtà questi dettagli non hanno alcuna funzione significante. Questi riempitivi, queste “catalisi”, effetti di reale, definiscono il sapore della vita quotidiana, restituiscono allo sguardo quegli oggetti, quei gesti ormai automatizzati, ossia , come afferma Šklovskij , “[…] considerati nel loro numero e volume […]” (2), senza essere visti, ma conosciuti “[…] soltanto per i loro primi tratti “. (2). Inoltre Kaurismäki “indebolisce” i cosiddetti “nuclei narrativi” (le sequenze significanti), non solo relegandoli all’interno dell’ellisse e quindi lasciandoli macerare nel regno dell’opinabile, ma anche eclissandoli dentro la stessa visione, abbandonandoli nell’attimo in cui sono prodotti. Quando Iris viene investita da un’auto, sappiamo dell’evento che accade nel fuori campo solo attraverso il rumore acusmatico di una frenata. Per un attimo, nel “mentre” della dissolvenza in nero, non siamo a conoscenza della gravità dell’incidente: Iris potrebbe essere gravemente ferita o addirittura morta, potrebbe aver riportato conseguenze permanenti. Solo la scena seguente ci informa che Iris non è grave, la vediamo nel letto d’ospedale lucida e consapevole. Ma la maestria di Kaurismäki consiste proprio nell’insistere sull’indebolimento dei nuclei narrativi: adesso l’incidente non conta più, infatti la sequenza inizia col patrigno di Iris che sale le scale dell’Ospedale, entra nella stanza comunicando alla figliastra che sua madre non la vuole più vedere. In questa scena si vede solo il busto del patrigno, testa e braccia sono tagliate fuori dal quadro: non interessa mostrare l’espressione dura o ipocritamente compassionevole di un uomo che non è mai stato capace di amare la sua figliastra, interessa solo allontanare “il reale” dal mondo di Iris, mostrare l’isolamento interiore della donna, riducendo e sezionando l’esterno. Le parti anatomiche degli altri personaggi sono trattate e mostrate meno degli oggetti. Durante la sequenza del ballo, quando Iris è seduta accanto ad altre ragazze in attesa di essere invitata, vediamo solo alcune “parti” di figure maschili che si presentano alle donne per invitarle a ballare. Iris, sempre inquadrata, rimane sola sulla panca: questa semplice immagine trasferisce nel fuori l’angoscia e la sofferenza del dentro, coinvolgendo lo sguardo e trascinandolo in un abisso. Tutto questo reso attraverso catalisi, riempitivi, ossia oggetti, pezzi di figure, fuori campo, silenzio. Al contrario forse gli oggetti acquistano una sorta di superiorità sui personaggi. In fondo il film ha un solo vero, unico personaggio. Lo spazio si chiude sempre su di lei, lasciando ai margini e quasi abbandonando gli altri in un magma evanescente quasi de-realizzato. Gli oggetti della vita quotidiana invece sono mostrati con minuziosa attenzione, seguiti nel loro rapporto con le abitudini e i gesti della giovane donna. Il vestito nuovo, acquistato per essere indossato dalla donna allo scopo di essere più attraente e permetterle di essere portata sulla pista, diventa l’oggetto fondamentale del film, causa e conseguenza di tutti gli eventi che capiteranno. Il vestito rende Iris più attraente e invoglia Arne ad invitarla a ballare; per pagare il vestito Iris ha dovuto prendere i soldi dalla busta paga e siccome lo stipendio viene consegnato alla madre, l’acquisto non passerà inosservato. Anche la boccetta contenente il veleno per topi acquista una sua valenza ogni volta che viene usata da Iris. La sua vendetta personale non viene mostrata in maniera melodrammatica, ma simbolica, attraverso l’uso banale del veleno contenuto in una boccetta. Ogni volta che Iris travasa il liquido in un bicchiere di scotch o in una bottiglia d’acqua, sappiamo già cosa accadrà, lo sappiamo, lo intuiamo, ma Kaurismäki non ci mostrerà mai le conseguenze di quel semplice travaso si si esclude la sequenza dei due agenti in borghese che arrivano sul luogo di lavoro per prelevare Iris. Nel suo minimalismo spinto ai limiti della totale dissolvenza del film ( è possibile andare oltre, fino ad entrare nell’astrazione totale pur rilasciando “messaggi” realistici?) Kaurismäki concede largo spazio alla musica e alla tv, alle canzoni cantate nella sala come a quelle che fuoriescono da radioline o alla musica extradiegetica, e ai telegiornali ascoltati dalla madre e dal patrigno di Iris, da due mummie impassibili e irrecuperabili, due “oggetti” assenti e surreali. In particolare Kaurismäki intende mostrare il mondo attraverso la tv, confrontare un dramma sociale e “distante” (i fatti memorabili e spaventosi della Piazza Tien An Men a Pechino) con il dramma personale che contiene, come nella piazza cinese, già i germi della sua sconfitta. Questa particolare attenzione agli oggetti, questa “[…] capacità leggera di trasferire nel contesto cinematografico le idee migliori della pittura […]” si esplica nel juke-box e nel biliardo dell’appartamento del fratello di Iris. Dalla “[…] contraddizione tra questi oggetti e dalla stilizzazione a cui vengono sottoposti [..] nasce la tensione fantastica del film. Sono immagini in cui Kaurismäki si dimostra più che mai vicino all’universo di Edward Hopper”. (3)

(1) Roland Barthes, L’effet de réel, « Communications », n. 11, Paris 1968, pp.84 e sgg. Il saggio, tradotto in italiano, si trova in: R.Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi 1988, pp.151-159. Da segnalare un’attenta ed esauriente spiegazione del termine inventato da Barthes in S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Parma, Pratiche Editrice 1990, pp 174-176
(2) Victor Šklovskij, L’arte come procedimento (1917), in Luigi Rosiello, Letteratura e strutturalismo, Zanichelli, Bologna 1983, p. 51.
(3) Peter von Bagh, Aki Kaurismäki, Isbn Edizioni, Milano 2007 p. 93.
(4) Nella foto di destra: Edward Hopper, Nighthawks (1942)

16 luglio 2008

Ho affittato un killer (Aki Kaurismäki, 1990)

Le immagini, almeno nella prima parte del film, fin quando Henri Boulanger non si reca all’Honolulu bar per ingaggiare un killer, tendono all’astrazione. Questo non significa che il film di Kaurismäki sia completamente surreale o addirittura un film in cui la narrazione si è eclissata. Al contrario, un film senza “storia” a Kaurismäki non interessa (1). Interessa invece la ricostruzione di un certo tipo di immagine, di un certo tipo di sequenza. Ad esempio la Londra che fa da sfondo al film è una Londra “artefatta”, surreale, inverosimile, una città inesistente in cui non traspare la “modernità” coeva della città. Kaurismäki non ricostruisce una città “probabile”, cercando di imitare la vita londinese con il suo traffico e i suoi luoghi comuni (le guardie della regina, Hyde Park, le auto, Buckingham Palace, ecc.): “Le persone si lamentano perché la Londra che ho filmato somiglia alla Finlandia, ma la Finlandia mostra questo particolare aspetto solo nei miei film. Tutto ciò che filmo viene spianato poco dopo. I bulldozer mi seguono” (2). Le ruspe arrivano ben presto a cancellare una topografia di vecchie case abbandonate, di discariche e ciarpame nella Londra dei vecchi quartieri operai e industriali. Le immagini si soffermano su questo profilmico da archeologia post-industriale allo scopo di evitare la città “attuale”. I personaggi si muovono in uno spazio “retrò” volutamente fuori dal tempo. Kaurismäki evita in qualsiasi modo di mostrare i segni della modernità che legherebbero il film a una verosimiglianza ingannevole e non consona al suo progetto. Boulanger si muove in un ambiente che va oltre il suo tempo. L’ambientazione è simbolica, infatti questa Londra potrebbe essere una qualsiasi città dell’est Europa (mi vengono in mente Berlino Est subito dopo la caduta del muro, o Mosca dell’ottobre 1993, quando Eltsin prese a cannonate alcuni deputati asserragliati nella Casa Bianca) o addirittura una Londra di un passato non lontano, ma ugualmente “straniante”. Lo stesso Kaurismäki in un’intervista confessa di aver proiettato alla troupe, prima delle riprese di Ho affittato un killer, uno dei suoi film più apprezzati: Last Holiday di Henry Cass. In questo mondo perduto Boulanger si muove come un pesce fuor d’acqua, è un francese, condannato alla solitudine, uno straniero che ha lavorato fedelmente per quindici anni come impiegato in una ditta da cui viene licenziato a seguito di un’acquisizione (“Certamente comprenderà che dobbiamo cominciare dagli stranieri” dice a Boulanger il capo ufficio poco prima di licenziarlo). Henri tenta il suicidio due volte e due volte fallisce. Si mette il cappio di una robusta corda intorno al collo, ma il gancio che ha diligentemente avvitato al muro non sostiene il suo peso e si rompe facendolo cadere; allo stesso modo, quando mette la testa nel forno e gira le manopole, il tentativo fallisce per uno sciopero del gas (“Sciopero del gas. Le casalinghe disperate. Fuochi spenti in tutte le cucine. Ultime notizie. Sciopero del gas. Tutta Londra con i geloni. Una studentessa si prostituisce per una stufa elettrica” urla lo strillone per vendere i giornali). Non gli rimane che affidarsi a dei killer professionisti per incaricarli del suo stesso omicidio. Pertanto si reca all’Honolulu bar, luogo surreale uscito dall’immaginario di Kaurismäki, generato dalle immagini dei suoi film più amati. Come lui stesso ha confermato in un’intervista, oltre al film di Cass, si è ispirato anche a registi quali Alexandeer Mackendrick (La signora omicidi) e Jacques Becker (Kaurismaki ha chiesto a Reggiani di recitare come Manda in Casco d’oro). In attesa che arrivi il killer, Boulanger si reca al pub Warwhick castle dove incontra Margaret. Adesso, attraversando le sequenze desolate del suo stesso isolamento (ad esempio si veda la sequenza del pranzo in azienda in cui pranza seduto a un tavolo in solitudine, mentre gli altri mangiano in compagnia), si trascina lentamente muovendosi nella citazione di un cinema che non esiste più, verso un nuovo modo di vivere. Non si tratta solamente della vita di Henri Boulanger, ma della vita dello stesso cinema, di un modo di filmare che non è più possibile se non attraversando le stesse immagini e gli stessi movimenti filtrati da un postmodernismo che non lascia scampo. Mentre l’Honolulu bar (luogo di malavitosi, bar fuori dal tempo cristallizzatosi nell’immaginario di uno sguardo nostalgico) scomparirà nella stessa discarica su cui sorge, il Warwichck castle, un pub d’altri tempi, ricorderà una vecchia sequenza non più realizzabile nell’inventario di un cinema verosimile, ma valida e prorompente se adottata con la consapevolezza che siamo davanti a un film di citazioni e di rimandi. In altri termini, mentre il cinema classico vive nei nostri cuori e nelle nostre menti, il cinema “automatizzato” (3), quello che rimane sulla superficie e si scioglie dopo uno sguardo senza lasciare tracce non è più cinema (4) ma “routine” visiva, automatismo che replica le distrazioni quotidiane senza mostrare l’oggetto o, meglio, gli attanti e i loro percorsi. Ho affittato un killer è un film che si mostra attraverso la citazione di altri film senza rinunciare ad analizzare tematiche sempre fresche e attuali: solitudine e vita ai margini della società sono una costante nel cinema di Kaurismaki. Il dramma della solitudine e della miseria, la perdita dell’identità e tutte le problematiche sociali di una Londra fittizia non compongono la storia ma la oltrepassano, perché queste stesse tematiche sono proposte in modo straniante, attraversate dal cinema di altri tempi, come da una leggerezza che sembra contrastare con l’apparente gravità del melodramma. Conosciuta Margaret, Boulanger non vuole più morire mentre il killer, un professionista serio e ligio al dovere, deve finire comunque il suo lavoro anche se ha pochi mesi di vita per un cancro. Nonostante questo apparente gioco dei rimandi e delle citazioni, della leggerezza semantica e del sarcasmo che formano il film come “commedia surreale”, Ho affittato un killer è una perfetta costruzione formale basata su tempi filmici dilatati e persi in altre sequenze, su un ritmo rallentato ma fondato su sequenze narrative ben definite, sui pochi movimenti di macchina (e per questo precisi e funzionali alla storia), ma soprattutto sul principio della sottrazione in cui dominano le ellissi, lasciando allo spettatore libertà di suturare le parti mancanti. Ad esempio le scene di sesso tra Henri e Margaret sono lasciate al nostro immaginario, non mostrate o meglio, abbandonate all’interno delle ellissi. A questo riguardo Kaurismaki specifica il motivo per cui preferisce “tagliare le scene di sesso”: “[…] Sapete come sono i film Yankee: due persone a letto che fanno ginnastica. Penso che egli americani si preoccupano così bene della parte del sesso nell’arte cinematografica che non c’è ragione perché lo faccia anch’io”. (5)
(1) “Un film senza storia non mi interessa assolutamente” (A.Kaurismaki). La frase è stata presa in Patrizio Gioffredi, Aki Kaurismaki, Il castoro cinema, Milano, 2005 p.14.
(2) Peter Von Bagh, Aki Kaurismaki, Isbn Edizioni, Milano 2007 p. 124 .
(3)”Se ci mettiamo a riflettere sulle leggi generali della percezione, vediamo che diventando abituali, le azioni diventano meccaniche. […] Nella rapidità del linguaggio pratico le parole non vengono pronunciate fino in fondo, e nella coscienza appaiono appena i primi suoni della parola. […] Dal processo di algebrizzazione, di automatizzazione dell’oggetto, risulta una più ampia economia delle sue forze percettive: gli oggetti o si danno per un solo loro tratto […], oppure si realizzano come in base a una formula, anche senza apparire nella coscienza. […] così la vita scompare trasformandosi in nulla. L’automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra”. V. Sklovskij, L’arte come procedimento, in Rosiello, Letteratura e strutturalismo, Bologna 1973. p.51.
(4) “Mi piacciono anche Fuller e i B-movie americani degli anni Quaranta e Cinquanta,. Mi piacciono questi film perché sono cinema, cosa che non è più vera per la maggior parte dei prodotti che si vedono oggigiorno sullo schermo. (…) Mi sento io stesso un personaggio di un B-movie, un personaggio da “noir”, sono i film di quel periodo che mi hanno formato maggiormente da un punto di vista cinematografico”. Ho ripreso questa frase di Kaurismaki da Patrizio Gioffredi, Aki Kaurismaki, il castoro cinema, Milano, 2005 p.12.
(5) ibidem, Milano, 2005.

10 luglio 2008

Il primo anno di cinemasema


Esattamente un anno fa mi accorsi che Google permetteva di aprire gratuitamente un blog, ma soprattutto permetteva ai profani come me, digiuni di html, di poter pubblicare sul web. Poi ho scoperto che vi erano altre piattaforme, anche migliori e ugualmente gratuite, ma questa è un’altra storia. Ma soprattutto ho scoperto che esisteva un meraviglioso mondo di cineblogger, persone molto esperte e appassionate di cinema. Un mondo intero si apriva davanti ai miei occhi. Da quel giorno mi sono fatto numerosi amici con cui condividere una passione, ma conto e spero di conoscerne molti altri. Devo ammettere che c’è una cosa di cui sono dispiaciuto: purtroppo, per il poco tempo libero che mi ritrovo, non ho potuto scambiare opinioni con tanti, troppi cineblogger, anche di grandi capacità. Non è facile seguire tutti, ma soprattutto leggere tutti. A volte, per la fretta, si possono fare delle enormi gaffe. Bisognerebbe stare più calmi, rilassarsi, conoscere lentamente il web, ma internet e la lentezza non vanno d’accordo. Io prediligo la lentezza, ma apprezzo anche il web. Anche se posso contare sull’aiuto della mia carissima amica Vale, non so per quanto tempo ancora riuscirò a mantenere in vita cinemasema. Come sapete, non è facile gestire un blog per tanto tempo. Il 10 luglio 2007 pubblicai la mia prima recensione su un film di Lynch, Mulholland Drive e ricordo che il primo commento arrivò sul post dieci giorni dopo: era del carissimo amico Honeyboy (primo commento in assoluto di Christian-Tomobiki su un post del 19 luglio 2007, Tokyo-ga). Per me una grande emozione.

8 luglio 2008

Sci-Fi anni venti in 7 film: 6. L'Inhumaine (Marcel L'Herbier, 1923)

L'arte e' essenzialmente una forma di esagerazione....l'arte comincia con la decorazione astratta (Marcel L’Herbier)

(Attenzione spoiler!) La famosissima cantante Claire Lescot ospita molti spasimanti nella sua villa “cubista” tra i quali vi è il giovane ingegnere e inventore Einar Norse. Questi simula un incidente d’auto “per saggiare” le reazioni della donna, soprannominata “l’inumana” per via del suo carattere freddo e caustico. Ma Lescot è innamorata del giovane e, appresa la notizia, dà sfogo a tutta la sua disperazione. Un altro spasimante, il Maragià Djorah de Nopur, l’avvelena per gelosia usando un colubro lasciato nell’auto che conduce la cantante a casa di Norsen. Quindi sarà riportata in vita da un’invenzione di Norsen stesso. La trama è stata e viene considerata esile e “poco importante” mentre il film interessa soprattutto per lo sperimentalismo di L’Herbier, un regista in grado di radunare un gruppo di giovani artisti che sarebbero diventati famosi. Le scenografie sono opera infatti di Robert Mallett Stevens, Pierre Charreau, di Claude Autant-Lara (Evasione, Il diavolo in corpo, Margherita della notte, La traversata di Parigi, Il conte di Montecristo), di Albert Cavalcanti (Rien que les heures, Il capitan Fracassa, I misteri di Londra) nonché di Fernand Léger pittore cubista, futurista e regista del film cubista-dadaista Le ballet mecanique. In effetti l’aspetto iconico, come la ricerca di una nuova “realtà” deformata dall’astrazione e lo sperimentalismo delle immagini, conduce L’Herbier a creare un film particolare, sintesi di varie forme d’arte (soprattutto pittorica) delle avanguardie coeve. Le forme del palazzo di Claire Lescot sono di impianto cubista, così come l’interno. Splendida la sala da pranzo dove la famosa cantante ospita i suoi spasimanti in quella che sembra un’ultima cena o, meglio, il prodromo dei famosi pranzi futuristi (1). In generale si può affermare che ci troviamo di fronte a una ricerca plastica come sintesi delle arti decorative d’avanguardia di quegli anni (Art Déco, futurismo, cubismo). Nel 1923 L’Herbier propone a Léger “[…] di realizzare il laboratorio di Einar Norsen nel film L’Inhumaine (Futurismo), scritto in collaborazione con Pierre MacOrlan. “[…]. Dopo aver progettato l’ambiente in due dimensioni, è convinto dal regista a realizzare le macchine in tre dimensioni” (2). Qui lo sguardo si sofferma sugli estrosi macchinari, sugli schermi (c’è anche una sorta di televisore), sulle antenne, sulle porte, oggetti che sembrano usciti direttamente da un suo quadro. La “sua” messa in scena si fonda soprattutto sulla scomposizione del “profilmico”, sulla deformazione delle immagini e sulla loro iterazione, allo scopo di trasferire i risultati dell’esperienza cubista direttamente nel mondo della settima arte. Per fare questo deve liberare, slegare la rappresentazione dal racconto. Pertanto la trama sembra esile, inconsistente, evanescente. A Léger interessa l’aspetto formale-pittorico per completare le sue ricerche “plastiche” iniziate sin dai tempi degli esordi legati alla pittura impressionista, quando dipingeva quadri come “Ritratto dello zio” e “Giardino di mia madre” (entrambi del 1905). Il suo percorso sulla strada della conoscenza e dell’esperienza figurativa lo porta agli antipodi dell’esperienza impressionista. Lo stesso Léger spiegherà poi qual è stato il suo progetto: “Ero stato preso da una vera ossessione, volevo “disarticolare” i corpi. Tutto ciò non andava avanti senza momenti di scoraggiamento” (3). La sua ricerca si sviluppa nella ricostruzione di uno spazio complesso che unisca paesaggio, figura umana, natura morta, oggetti; uno spazio attraversato sempre più dal colore e dall’abolizione delle distanze (vicino e lontano). Ma la scomparsa graduale del vicino e del lontano non annulla la profondità di campo in quanto gli oggetti sono comunque disposti seguendo una “gerarchia soggettiva” (4). Questa ricerca lo allontanerà sempre più dall’esperienza cubista con l’abbandono del “partito della grisaille” per approdare in un nuovo modo di “costruire” in cui domina il colore. Per Léger (si era avvicinato al cinema grazie alla visione del film di Abel Gance La roue del 1922, appassionandosi alla nuova arte e cominciando a frequentare il Club des Amis du Septiéme Art, fondato da Ricciotto Canudo) il cinema evoca un’emozione plastica tramite “la proiezione simultanea di frammenti di immagini a ritmo accelerato”(5). È un’invenzione diabolica che può distruggere o illuminare tutte le cose nascoste grazie alla sua capacità di ingrandire i dettagli. L’Herbier conosceva il talento dei suoi “assistenti” e non poteva scegliere equipe migliore per la produzione di un film che ritengo possa essere considerato un caposaldo del cinema di avanguardia e dello sperimentalismo in genere,un film che ha addirittura influenzato non poco la produzione dei grandi capolavori della Sci-fi di quegli anni: Metropolis e Aelita.

(1) Il primo pranzo futurista avvenne a Torino, l’8 marzo del 1931, in occasione dell’inaugurazione della Taverna “Santopalato”. Questo il menù: 1. Antipasto intuitivo (formula della signora Colombo-Fillìa). 2. Brodo solare (formula Piccinelli). 3. Tuttoriso, con vino e birra (formula Fillìa). 4. Aerovivanda, tattile, con rumori ed odori (formula Fillìa). 5. Ultravirile (formula P. A. Saladin). 6. Carneplastico (formula Fillìa). 7. Paesaggio alimentare (formula Giachino). 8. Mare d'Italia (formula Fillìa). 9. Insalata mediterranea (formula Burdese). 10. Pollofiat (formula Diulgheroff). 11. Equatore + Polo Nord (formula Prampolini). 12. Dolcelastico (formula Fillìa). 13. Reticolati del Cielo (formula Mino Rosso). 14. Frutti d'Italia (composizione simultanea). Vini Costa - Birra Metzger - Spumanti Gora - Profumi Dory.
(2) Gérard-Georges Lemaire, Léger e l’arte cinematografica. Cinema, mon amour in Léger, Art e Dossier, p. 11 Giunti, Firenze 1997.
(3)Gérard-Georges Lemaire, Léger, Art e Dossier p. 7, cit.

(4) Cit. p. 7.
(5) Fernand Léger, La funzione della pittura.
Nella foto a destra "Meccanico" (1920): Ottawa, National Gallery of Canada.

3 luglio 2008

Via col vento. I protagonisti: David O. Selznick.

Annie Laurie Williams, agente di Margaret Mitchell (autrice di Via col Vento), dopo numerosi rifiuti da parte delle più famose case di produzione cinematografiche di Hollywood (Metro-Goldwyn-Mayer, Warner Brothers, RKO), propose il libro all’attenzione della Selznick International Pictures, la casa di produzione fondata da Selznick appena un anno prima, nel 1935. Selznick indugiò per vari motivi, in primis per la difficoltà di trovare una diva che potesse sostenere la parte di Rossella O’Hara. Questa consapevolezza era stata uno dei motivi del rifiuto di Pandro Berman (produttore RKO) il quale non riteneva Katharine Hepburne (la diva più importante di questa casa di produzione) adatta alla parte. La Hepburn invece, letto il romanzo, si vedeva già addosso i vestiti dell’eroina di Via col vento. Selznick indugiò non poco, ma, poiché il libro vendeva bene e il suo amministratore delegato era quasi intenzionato a comprare a suo nome i diritti del romanzo, decise di offrire 50.000 dollari quasi pentendosi per una somma che allora era considerata cospicua. In seguito Selznick telefonò a Louella Parsons, titolare all’epoca di una famosa rubrica sul New York American. Nei suoi articoli, letti da milioni di americani, un giorno si divertiva a esaltare un’attrice e l’altro a denigrare attori famosi rei di non averla ad esempio invitata alle nozze. Louella era diventata il braccio destro del magnate William Randolph Hearst (proprietario del quotidiano) ed era sua ospite fissa nel suo yacth. L’articolo di Louella contribuì non poco al propagarsi della notizia, perché la sua rubrica veniva pubblicata contemporaneamente da 400 quotidiani e innumerevoli settimanali. La versione della notizia voluta da Selznick portava a conoscenza che Via col vento era stato comprato per 65.000 dollari “superando le offerte aspramente concorrenziali delle maggiori case di produzione: Davide aveva sferrato un colpo mortale ai Golia degli studios” (1) . In seguito Selznick salpò con la moglie per le Hawaii leggendosi il libro e convincendosi che la parte di Rhett Butler doveva essere di Clark Gable, anche se per il momento voleva evitare questa soluzione. Al contrario non aveva in mente chi avrebbe potuto vestire i panni di Rossella O’Hara. “La distribuzione della parti principali divenne un argomento di conversazione in tutto il paese (“uno sport per le cene”, come diceva Louella Parsons)” (2). Il vicepresidente responsabile della Selznick International Pictures, dopo aver letto Via col vento, si spaventò per gli enormi costi che avrebbero potuto mandare in fallimento la casa di produzione stessa; così convinse il riluttante Selznick a vendere i diritti del romanzo. Ma la MGM, la Paramount e altri studios rifiutarono e Selznick dovette rassegnarsi a formare l’equipe per la produzione del film senza limiti di spese: lui voleva sempre il meglio. Assunse così George Cukor, suo amico e regista preferito, noto a Hollywood come “regista di donne”, perché in grado di dirigere con abilità e intelligenza le “difficili” dive hollywoodiane dell’epoca. Poi fu ingaggiato Walter Plunkett, famoso per i suoi bozzetti di costumi di film storici. Nell’autunno del 1936 toccò a William Cameron Menzies che venne incaricato di redigere un copione del romanzo completo di schizzi, posizioni di macchina, illuminazione. Venne contattata anche Margarett Mitchell (l’autrice del romanzo), ma rifiutò di partecipare sotto qualsiasi veste alla produzione del film. A Natale del 1936 Selznick affermava genericamente che le riprese sarebbero iniziate nella primavera dell’anno seguente. Le sue segretarie cominciarono a scomporre il libro creando un’infinità di elenchi che classificavano ogni più piccolo aspetto del romanzo. Ad esempio Selznick inviò Walter Plunkett ad Atlanta per fare ricerche sui costumi e chiedere alla Mitchell consigli su una maggiore varietà cromatica del guardaroba di Rossella, in quanto l’eroina nel romanzo sembrava sempre vestita di verde. Per cucire i costumi venne creata una piccola fabbrica negli studi Selznick completa di sarte, modiste, calzolai, tessitori, fabbri, e persino un’anziana donna che sapeva fabbricare busti prebellici. Nel frattempo, scaduto a Plunkett il contratto di 15 settimane, Selznick gli fece sapere che avrebbe potuto lavorare gratis per il resto della produzione del film, perché molti, pur di aver l’onore di partecipare alla lavorazione di Via col vento, avrebbero prestato grauitamente la loro opera. Ma il costumista rifiutò. Selznick allora si rivolse ad altri costumisti hollywoodiani chiedendo loro di inviare bozzetti per i costumi del film nel caso fossero interessati a succedere a Plunkett. Una volta arrivati i bozzetti, Selznick convocò Plunkett informandolo, dopo avergli mostrato i bozzetti pervenuti, che gli avrebbe prorogato il contratto a 400 dollari la settimana, invece dei 600 pagati in origine. Indeciso sul cast mandò centinaia di biglietti ai gruppi dell’Associazione genitori e insegnanti di tutta l’America invitandoli a indicare il nome dei candidati per i ruoli principali: per il ruolo di Rossella O’Hara venne scelta Bette Davis seguita da Katharine Hepburn, Tallulah Bankhead e altre attrici; per la parte di Rhett Butler vennero scelti Clark Gable e Ronald Colman. Siccome Bette Davis era sotto contratto, Selznick si rivolse a Jack Warner per sapere se era disposto a prestargli la famosa attrice. Warner accettò proponendo di fornire una parte del finanziamento, più Bette Davis, più Errol Flynn, in cambio del 25 per cento dell’incasso lordo. Un’offerta simile era allettante, ma Selznick non vedeva bene Errol Flynn nei panni dell’interprete principale di Via col vento. E la stessa Bette Davis, ansiosa di interpretare Rossella O’Hara, non intendeva recitare accanto ad Errol Flynn. Era disposta persino a rifiutare la parte pur di non vedere Flynn nel ruolo di Rhett Butler. Ma Warner non aveva intenzione di cambiare la sua offerta “collettiva”. Così le trattative si bloccarono e Bette Davis finì con l’interpretare un’altra storia sudista: “La figlia del vento” di William Wyler. Tallulah Bankhead era dell’Alabama, nipote di un eroe della guerra di secessione, un’attrice di teatro diventata famosa a Broadway e Londra imponendosi per il suo temperamento energico e pittoresco. Però Tallulah non era mai riuscita ad adattarsi al cinema per via del suo caratterino. Anzi, “il suo esibizionismo (alle feste, finiva spesso seduta al piano senza niente addosso), la sua coazione ad affermare la propria sessualità nella maniera più clamorosa, le sue escursioni nel lesbismo, la sua tendenza a bere, fiutare, inghiottire o fumare qualunque cosa che le desse l’impressione di liberarsi della sua eterna nevrosi […] facevano di lei una specie di patata bollente […]” (3). Selznick propose a Tallulah un provino e l’attrice, letto il romanzo, si convinse di essere l’ideale protagonista per via del suo temperamento capace di cogliere l’atmosfera del sud. Arrivò a Hollywood il 20 dicembre 1938, Selznick andò a prenderla alla stazione di Los Angeles. Tallulah si presentò in pantaloni e visone, con i capelli fulvi e in disordine. Sulla rubrica di Louella apparve in un paragrafo la notizia che la candidatura di Tallulah non era gradita. Tallulah fece un provino in technicolor, composto di tre scene ricavate dal libro, perché Selznick stava ancora trattando con il commediografo Sidney Howard per la sceneggiatura. “Tallulah Bankhead fu la prima ad affrontare un provino per la parte di Rossella O’Hara” (4). Sembrava l’deale per la parte di Rossella matura, ma Selznick non la vedeva bene nella parte della giovane O’Hara. Nel sud intanto partì una campagna per sostenere la sua candidatura. Giornali sudisti elogiavano le sue doti, la Commissione per i servizi pubblici dell’Alabama approvò una mozione favorevole a Tallulah, mentre la Sezione della Lega delle scrittrici dell’Alabama mandò un telegramma di sostegno.

Il materiale per questo modesto riassunto è stato quasi interamente ricavato dal libro di Roland Flamini. Ringrazio l'autore per il bellissimo libro.

(1) Roland Flamini, Splendori e miserie di Via col vento, Il formichiere, Milano, 1979, p. 13
(2) cit., p. 14.
(3) cit., p. 36.
(4) cit., p. 38.