22 luglio 2012

In the mood for love (Wong Kar-wai, 2000): 1/3 Cheongsam

I qipao che Su cambia in continuazione sono indici di ellissi, oggetti indexicali che mostrano strappi improvvisi e repentini del tempo che scorre, nascondono gli eventi nel non visto. Sono espressioni di un film che relega nell’ellissi i momenti più importanti della narrazione, lasciando allo sguardo “soltanto” l’indefinitezza di immagini che non riescono mai del tutto a formarsi, proto immagini che sintetizzano sia la difficoltà del ricordo a formare un’alta definizione sia la difficoltà di un amore a svilupparsi in quanto già formato e vissuto in altri tempi. I qipao oltre ad essere “superfici che esercitano sul personaggio la stessa egemonia soffocante dei muri […] innalzando  una sorta di parete tra la donna e l’uomo che la ama”(1), rappresentano una compressione spaziale nella durata. Destrutturano lo spazio, già di per sé stressato da numerose interruzioni (specchi, oggetti in primo piano, tende, fuori fuoco, ecc.) lasciando l’intervallo libero di occupare queste immagini collassate. Sono indici temporali, forme di un rapporto (la storia d’amore) che catturano l’occhio (forse più di ogni altro espediente) abituandolo a correre dentro le faglie sotterranee del tempo. I qipao, contenitori di ellissi, simboli di un tempo cristallizzato in stoffa colorata, adeguano lo sguardo all’antinormativa del film lasciandolo libero di fare la conoscenza di una realtà del racconto, nel senso di storia raccontata e pertanto soggetta a imprecisioni, omissioni, adulterazioni. Mentre la narrazione cede lentamente il passo al linguaggio, le parole alla poesia, il tempo occupa completamente lo spazio mostrandosi esso stesso come oggetto (oggetti) che Kar-wai continua a filmare. In altri termini: mentre gli eventi si nascondono nel “riportato” (le parole dette dai personaggi che sintetizzano l’accaduto con tutte le imprecisioni e senza garanzie di oggettività), i materiali, i colori, gli oggetti, i cheongsam coloratissimi e vividi indossati dalla Sig.ra Chan, così come le zuppe di noodles, prendono il sopravvento definendosi prima come componenti essenziali di uno spazio che limita i corpi (gli ambienti ristretti e ottusi della casa della signora Suen, oppure l’arcata di un vicolo dove Su e Chow si rifugiano per ripararsi dalla pioggia) quindi prolungandosi nelle faglie di un tempo sconosciuto di un qui e ora che non ci è dato conoscere, un tempo segreto che Chow bisbiglia nella fessura del tempio di Angkor Wat, tra le rovine di una civiltà scomparsa. Gli aspetti a prima vista più insignificanti, forse quelli meno intensi mostrati nelle classiche storie d’amore, ossia i vestiti indossati dagli amanti (a meno che non sia biancheria intima mostrata solo per poi essere tolta), il cibo (Su che esce per andare al negozio di noodles), la tecnologia (la rice cooker), il gioco del Mahjong, sono tutto ciò che ci è dato vedere (il gioco del Mahjong non è però neppure mostrato ma solo citato). Sono simili a deittici che prendono il sopravvento, risalgono alla superficie, uniche garanzie di un accaduto già perso, offuscato, come un sogno già dimenticato al risveglio. Poiché non è possibile ricostruire nella memoria un accadimento (figuriamoci pertanto un amore o addirittura una speranza d’amore), a meno che non si crei una classica “trasparenza” nella fiction per un’illusione di realtà, una verosimiglianza posta come regola (nel senso di proporre al pubblico un evento come vero), non rimane che sondare le debolezze del ricordo pieno di lacune, punti non chiari, omissioni, in grado pertanto di riportare un mondo frammentato e indefinibile.

(1) Silvio Alovisio, Wong Kar-wai, Il castoro cinema, Milano 2010, p. 148

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