I qipao che Su
cambia in continuazione sono indici di ellissi, oggetti indexicali che mostrano
strappi improvvisi e repentini del tempo che scorre, nascondono gli eventi nel
non visto. Sono espressioni di un film che relega nell’ellissi i momenti più
importanti della narrazione, lasciando allo sguardo “soltanto” l’indefinitezza
di immagini che non riescono mai del tutto a formarsi, proto immagini che
sintetizzano sia la difficoltà del ricordo a formare un’alta definizione sia la
difficoltà di un amore a svilupparsi in quanto già formato e vissuto in altri
tempi. I qipao oltre ad essere “superfici che esercitano sul personaggio la
stessa egemonia soffocante dei muri […] innalzando una sorta di parete tra la donna e l’uomo che
la ama”(1), rappresentano una compressione spaziale nella durata. Destrutturano
lo spazio, già di per sé stressato da numerose interruzioni (specchi, oggetti
in primo piano, tende, fuori fuoco, ecc.) lasciando l’intervallo libero di
occupare queste immagini collassate. Sono indici temporali, forme di un
rapporto (la storia d’amore) che catturano l’occhio (forse più di ogni altro
espediente) abituandolo a correre dentro le faglie sotterranee del tempo. I
qipao, contenitori di ellissi, simboli di un tempo cristallizzato in stoffa
colorata, adeguano lo sguardo all’antinormativa del film lasciandolo libero di
fare la conoscenza di una realtà del racconto, nel senso di storia raccontata e
pertanto soggetta a imprecisioni, omissioni, adulterazioni. Mentre la narrazione
cede lentamente il passo al linguaggio, le parole alla poesia, il tempo occupa
completamente lo spazio mostrandosi esso stesso come oggetto (oggetti) che
Kar-wai continua a filmare. In altri termini: mentre gli eventi si nascondono
nel “riportato” (le parole dette dai personaggi che sintetizzano l’accaduto con
tutte le imprecisioni e senza garanzie di oggettività), i materiali, i colori,
gli oggetti, i cheongsam coloratissimi e vividi indossati dalla Sig.ra Chan,
così come le zuppe di noodles, prendono il sopravvento definendosi prima come
componenti essenziali di uno spazio che limita i corpi (gli ambienti ristretti
e ottusi della casa della signora Suen, oppure l’arcata di un vicolo dove Su e Chow
si rifugiano per ripararsi dalla pioggia) quindi prolungandosi nelle faglie di
un tempo sconosciuto di un qui e ora che non ci è dato conoscere, un tempo
segreto che Chow bisbiglia nella fessura del tempio di Angkor Wat, tra le
rovine di una civiltà scomparsa. Gli aspetti a prima vista più insignificanti,
forse quelli meno intensi mostrati nelle classiche storie d’amore, ossia i
vestiti indossati dagli amanti (a meno che non sia biancheria intima mostrata
solo per poi essere tolta), il cibo (Su che esce per andare al negozio di
noodles), la tecnologia (la rice cooker), il gioco del Mahjong, sono tutto ciò
che ci è dato vedere (il gioco del Mahjong non è però neppure mostrato ma solo
citato). Sono simili a deittici che prendono il sopravvento, risalgono alla
superficie, uniche garanzie di un accaduto già perso, offuscato, come un sogno
già dimenticato al risveglio. Poiché non è possibile ricostruire nella memoria
un accadimento (figuriamoci pertanto un amore o addirittura una speranza
d’amore), a meno che non si crei una classica “trasparenza” nella fiction per
un’illusione di realtà, una verosimiglianza posta come regola (nel senso di
proporre al pubblico un evento come vero), non rimane che sondare le debolezze
del ricordo pieno di lacune, punti non chiari, omissioni, in grado pertanto di
riportare un mondo frammentato e indefinibile.
(1) Silvio Alovisio, Wong Kar-wai, Il castoro cinema, Milano 2010, p. 148
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