20 aprile 2009

The Reader (Stephen Daldry, 2008)

L'incontro tra Hanna e Michael avviene in un “triste” giorno di pioggia di una Berlino del 1958. La incontra dopo essersi rifugiato nell'androne di un palazzo per non bagnarsi, ma soprattutto per una improvvisa indisposizione. Hanna Schmitz, rientrando dal lavoro, si accorge del vomito sul pavimento e di quel ragazzo emaciato; dopo aver pulito per terra lo invita ad entrare nella sua abitazione. Tra di loro inizia una storia di sesso e di "cultura". Le letture dei classici che Michael "offre" alla analfabeta Hanna in cambio del suo corpo sono il fil rouge di un rapporto che proseguirà (anche se in un modo tutto particolare) per almeno trenta anni. Il tema affrontato potrebbe aver frenato il desiderio di far implodere questa storia o di rendere comunque prorompente il punto di vista del giovane Michael (magari con un utilizzo frequente della semi-soggettiva). Infatti, ammesso che il regista abbia voluto rimanere all'interno di un personaggio dal forte senso di colpa (ma le cose non stanno proprio così), mostrandoci la ex agente delle SS attraverso lo sguardo e il desiderio del ragazzo, la scelta potrebbe essere causa e mezzo di grossi limiti strutturali. Non che questo comporti una inevitabile debolezza nel descrivere un mondo attraverso lo sguardo dell’ignavo che lascia scorrere il flusso del tempo in attesa della fine (anche Dante condannerebbe questo rifiuto di gettarsi nella mischia), ma in The Reader il timore di trattare un tema così delicato e di difficile valutazione si vede crescere sequenza dopo sequenza. Anche se l'olocausto viene affrontato marginalmente (solo per sentito dire o attraverso gli atti processuali) Michael pare imbarazzato nell'affrontare con decisione l'argomento. Questo timore finisce con il procurare nocumento anche al discorso. Mentre la prima parte del film (il rapporto fisico) potrebbe essere interessante (ma in tutta sincerità avrei preferito una storia rimestata nella sporcizia, ferma sul rapporto "particolare" della differenza di età, senza montaggio alternato ma privilegiando il piano sequenza nel rimarcare un passato crudele e angosciante che affiora sul corpo della donna fino ad inondare e coinvolgere gli odori e i sapori di una camera fine anni cinquanta), nella seconda e soprattutto nella terza parte Daldry rinuncia ad affondare il coltello nella piaga: il processo sembra una semplice discussione teorica di ricordi, colpe e cose che avremmo dovuto fare; l'epilogo sembra la ricerca di una soluzione più o meno equa per mollare la patata bollente (la ex guardia nazista e il suo appellarsi a una legge, la bambina ebrea adesso adulta che non mi ha convinto del tutto). Ho la sensazione che Daldry abbia voluto ritrarre il braccio ancor prima di scagliare la pietra. In altri termini la puzza del lager poteva crescere sequenza dopo sequenza sino a inghiottire ogni cosa, macchiando indelebilmente la purezza degli odori del loro amore e persino (ma non voglio esprimere opinioni politiche né ragionare su un olocausto che deve sempre essere presente nella nostra memoria) suggestionare tematiche sociali degli anni ottanta-novanta. Il rispetto di una legge assurda e fine a se stessa, tanto schematica quanto crudele, tanto inutile quanto dolorosa, avrebbe potuto attraversare il tempo trascinando gli errori/orrori dei padri nella disperazione per un quadro politico ormai cambiato, ma in cui imperversano altre leggi (con i soliti dogmatici disvalori) e altre sofferenze. Ma Daldry ha preferito introdurre il processo forse per equilibrare la prima fase o formare un triangolo semantico (sesso, colpa, morte) come monito ed emblema di un'epoca che non riesce neppure a mostrare i propri delitti. Ha preferito lasciar macerare il suo antieroe in un humus di ignavia e debolezza. Intento sacrosanto, nulla da eccepire, ma allora forse bastava rimanere dentro il rapporto trascinando gli eventi esterni dentro il loro comportamento, le loro paure (non saper leggere e non saper prendere decisioni), le loro vite perse. Il film si stempera in una delle tantissime storie dell'olocausto senza apportare nuove idee o senza affrontare tematiche attuali (ad esempio la sequenza del dialogo, tra Michael adulto e Rose, se intende rappresentare il mondo com'è e il dolore com'è oggi mi sembra eccessivamente riduttiva, se intende semplicemente mostrarci lo sdegno della vittima, mi sembra superflua), ma forse Daldry non ha voluto o potuto osare di più (eventuali implicazioni politiche?). Allora sarebbe stato preferibile lasciare "incancrenire" quel bellissimo rapporto nato e cresciuto in una Berlino anni cinquanta, lasciarlo rosolare nel pantano di una rinascita (quella del popolo tedesco) faticosa e dolorosa, soffermandosi di più su quanto la vergogna vera si nasconda dietro la facciata di una vergogna fittizia (ubbidire alla legge talvolta può essere peggio di non saper né leggere né scrivere). Avremmo assistito ad una bellissima storia di due anime dannate.

11 aprile 2009

Ponyo sulla scogliera (Hayao Miyazaki, 2008)

Una marea che arriva e inonda senza bagnare e che è possibile respirare perché il mare non è un nemico che chiude i polmoni ma un fluido naturale, un liquido che abbiamo abitato come formazione fetale e ci ha nutrito prima dell’uscita nel regno delle barriere (confini, steccati, luoghi comuni, intrecci). La chiave di questo nuovo senso che fa inondare di colori l'ecumene (strade, case, supermercati, scuole) è una pesciolina-bambina, il trait d’union tra vita marina e vita terrestre. Nella magia riesce, dopo una trasformazione pesce-donna, a pattinare sulle onde assumendo movenze di un nuovo tipo, che non rappresentano i movimenti ondulatori del necton e delle sue sorelline pescioline né quelli zigzaganti dell’auto guidata da Risa. Si tratta di un nuovo tipo di movimento, una sorta di corsa-volo sulle creste e sui marosi che occupano lo spazio terrestre non per sostituirsi ad esso ma per creare un’altra dimensione, un paesaggio di "terramare" dove il male si eclissa e i rapporti conflittuali si trasformano in accordi perpetui, dove anche la difficoltà a deambulare (le signore anziane in carrozzina) vengono superate perché in questo fluido respirabile i confini sono inerti e i muri d’acqua non sono barriere che promuovono un aldilà pericoloso ma lenti di contatto tra due mondi adesso riunitisi. Persino l’immondizia nascosta nel mare, che per il mondo della terra è ormai inesistente (sotto la superficie niente si vede quindi niente esiste) per i fluidi equorei è una componente del disastro causato dalla miopia degli uomini. Ponyo sarà capace di coagulare una nuova forma donando una densità all’aria e una maggiore rarefazione all’acqua portandosi appresso uno tsunami, l'onda del porto che sembra più una calda coperta protettiva. Lo sguardo del bambino riesce a cogliere meglio questi colori del mare che occupano (ma senza prevaricazioni) i colori dell’habitat pneumatico perché i colori (che paiono sfuggire dai contorni delle forme) non si stemperano nel sintagma ma permangono nella sequenza, o meglio, si fermano inquadratura dopo inquadratura sui disegni che ricordano le stampe artistiche dell'Ukiyo-e, soprattutto i lavori di Hiroshige (1) e di Hokusai. Mentre lo sguardo dell’adulto naviga già in altre sequenze rimanendo come impacciato dai significati (che in effetti non restituiscono memorabili leggende, lasciando a volte buchi narrativi difficilmente colmabili), quello del bambino lavora sulle immagini formando storie infinite, corse meravigliose mano nella mano con Ponyo e Sosuke, sulle onde che trascinano e trasportano i sogni in ogni luogo. La pittura incantata disegnata da un bambino per un bambino conduce in altre avventure con la bellissima amica Ponyo che mi bacia levitando nell’aria. L’auto (peraltro già guidata con leggerezza da Risa e capace di superare ostacoli apparentemente insormontabili) non è più un bisogno primario perché adesso in questo nuovo contesto non è difficile muoversi senza inquinare, senza faticare, senza danneggiare. Un giocattolo che cresce e diventa mezzo di locomozione, una pesciolina che potrebbe diventare la mia nuova amichetta e mia madre che sembra scomparsa nel nulla ma che ritrovo in amichevole colloquio con la signora Granmammare. Adesso potremo viaggiare volare sognare gioire insieme per contare i colori del mare e scoprire che l’aria esiste anche nei porti più sporchi.

(1) Su Hiroshige è uscito nel mese di aprile 2009 un dossier della Giunti (n. 254). Una mostra su questo pittore è attualmente in corso (17 marzo-7 giugno 2009) al Museo fondazione Roma: "Hiroshige. Il maestro della natura". L'immagine a destra è un'opera di Hiroshige.

3 aprile 2009

Gran Torino (Clint Eastwood, 2008)

La tragedia degli Hmong affiora appena nel dialogo tra Sue Lor e Walt Kowalski. Nel pick-up che porta al sicuro Sue, dopo la sua disavventura in cui ha corso un grave pericolo per aver incontrato una gang di ragazzi poco raccomandabili, Walt le domanda come gli Hmong siano potuti arrivare nel suo quartiere (“Perché non ve ne siete rimasti la?”). Sue risponde che tutto ebbe inizio con la guerra del Vietnam quando gli Hmong, alleati degli americani, dopo la sconfitta subirono le ritorsioni e le persecuzioni dei vincitori (“Abbiamo combattuto dalla vostra parte. E quando gli americani se ne andarono i comunisti cominciarono ad uccidere tutti gli Hmong”). Il dramma di questo popolo che vive in più paesi (Laos, Vietnam, Cina), e con molti profughi in Thailandia che rischiano ogni giorno di essere rimpatriati nel Laos, dove probabilmente farebbero una brutta fine, è appena abbozzato nel film, quasi sussurrato, filtrato dal “razzismo” viscerale, genetico, del duro americano tutto d’un pezzo Walt Kowalski. Eppure gli elementi della Storia ci sono tutti: c’è la guerra in Corea combattuta da Walt, c’è la guerra in Vietnam, filtrata, anche se vagamente accennata, attraverso le parole di Sue, c’è la Gran Torino, la magnifica scintillante Ford del 1972, che è simbolo ambiguo di un’epoca non del tutto in linea con la logica ferrea di Walt perché Detroit (in particolare i quartieri più popolari) aveva già assunto le caratteristiche del ghetto e aveva già conosciuto (nel 1967) la “12th Street Riot”, cinque giorni di violenza e incendi per una rivolta popolare causata dal degrado di una città ormai annientata da un piano regolatore selvaggio e che vide coinvolto anche il fondatore delle Pantere Bianche, il poeta John Sinclair (1). C’è mezzo secolo di storia in quella strada abitata da vecchi e cinesi, assiepata da case fatiscenti, corrosa dalla ruggine della crisi e della disperazione. La dimensione della certezza, del sentirsi al proprio posto, del vivere nel giusto, del sentirsi degno delle proprie radici non è più un dato di fatto indiscutibile e inalienabile. L’emblema di questa passione è un’auto bellissima che rappresenta un’epoca e un mondo, rappresenta il lavoro alla Ford, la fatica per crearsi una casa, una famiglia, ma rappresenta anche un cinema che non è più proponibile, pur nella sua estasiante bellezza. Per lo meno non senza metterci alla guida uno Hmong. Ma l’auto scintillante non rimanda soltanto a un’apparente epoca “americana” in contrasto con la crisi (sia di valori che economica) che traspare dal film, ma anche a un’epoca che il duro Walt potrebbe non avere apprezzato o capito, in altri termini la Gran Torino è già emblema di nostalgia per un passato “ricostruito” dalla mente di Kowalski in modo del tutto accomodato al suo personaggio attuale che magari non coincide con quello vissuto o esperito quando il ghetto si stava formando e la Guerra in Vietnam stava per sfornare i futuri “mangiacani”. La certezza in una gravità in cui convergono e ricadono i pesi viene messa in discussione e Walt l’ha sempre saputo a differenza di chi si trascina nella semplice omologazione (vedi la nipote Ashley Kowalski). In effetti mentre Tao intraprende un percorso di conoscenza imparando a connettere l’estetica anni settanta dell’auto con il mondo così come si è determinato, storicizzando il valore di una macchina d’epoca (e con essa il valore della sua vita), Ashley chiede l’auto per identificarla in un contesto avulso da uno spazio-tempo che ormai ha deformato il senso stesso della magnifica Gran Torino (auto da museo). In altri termini Tao è il prodotto mentale di un nuovo modo di intendere mentre Ashley è una coscienza evanescente, uno sguardo che non medita sugli oggetti, che non cerca di conoscere. Walt farà la sua scelta, anzi il suo rimorso l’ha fatta da sempre, nell’attesa di un catalizzatore per mostrarsi come atto illocutorio(2). Una volta introdotto in una dimensione altra, connesso a una cultura prima scambiata per barbarie, Walt potrà percorrere la sua strada fino in fondo, una strada che aveva già scelto dopo l’esperienza coreana ma senza essere pronto. Gran Torino è un film in cui il tempo (nonostante una sceneggiatura apparentemente semplice e scontata) si piega bucando lo spazio. Soltanto che adesso le scelte sono cambiate, il film non è più una vittoria, un percorso che conduce ad una generica e vaga morale didascalica (insegnare che i buoni hanno ragione e vincono), ma una perdita (nel senso di smarrire qualcosa). Il film è un percorso in cui si perde sempre qualcosa, come quando camminiamo, o corriamo, perdiamo oggetti, liquidi, peso e il traguardo non rappresenta più un oggetto del desiderio finalmente acquisito, ma un ritrovarsi inevitabilmente sul filo di una nuova partenza, apparentemente simile alla precedente ma collocata su un altro livello qualitativo. In altri termini percorrere un film significa conoscere la storia di ogni pezzo, significa amare ogni minimo particolare. E’ come (mi si perdoni questo slancio emotivo) imparare nuovamente a vivere per trovare il senso di ogni cosa nella cosa stessa, scoprendo che l’anima del senso è consustanziale alla cosa. L’oggetto non è solo l’oggetto ma è un portatore di doni, una capsula temporale che ha attraversato il vissuto e si è arricchita di questo vissuto accumulatosi nella sua stessa patina. La patina è il respiro del mondo, la cultura che può e deve aiutarci a capire. Pertanto trovo alcuni aspetti di questo film magnifici: ne elenco tre ma potrebbero essere anche intesi come una trinità, divisi ma allo stesso tempo uniti.

Gran Torino è la flebile voce dell’anima che corrode la scorza dura delle convinzioni in quanto l’osservazione dei segni oppure dei rituali alieni è coordinata con la scoperta di un’altra America e dei suoi nuovi indigeni che comporta il coraggio di riuscire a smarrire il proprio spazio centralizzato. Eastwood ce ne dà un esempio sintetico e allo stesso tempo analitico nella sequenza dell’incontro con i parenti e gli amici di Sue. In pochi metri, superando la distanza che lo porta dalla sua abitazione a quella della famiglia Hmong, percorre uno spazio-tempo infinito, entra in una geografia diversa e in una cultura lontanissima dalla sua. Commette degli errori ma l’errore è il giusto prezzo da pagare per conoscere. Toccare il capo ai bambini e guardare gli Hmong negli occhi significa spostare un significato certo e compiuto (fare complimenti ai bimbi e mostrare la propria sincerità e desiderio incrociando lo sguardo degli altri) in un altro contesto in cui le certezze vacillano, il significato si trasforma. In questi gesti nuovi (“Mai toccare una persona Hmong sulla testa. Neppure un bambino. La gente Hmong crede che la sede dell’anima sia nella testa … E molti Hmong considerano molto maleducato guardare qualcuno negli occhi. Ecco perché guardano altrove quando li guardi”) si comprende benissimo come il senso non coincida con il significato (denotazione o coagulazione di valori) ma con un trans-significato (connotazione o liquefazione), ossia con una continua, interminabile trasformazione dei punti di riferimento che siano essi valori, rituali, convinzioni, ecc.
Gran Torino è come un saluto ap-parentemente scontato (se letto come cronaca il film potrebbe non piacere) ma tras-parentemente obliquo (se letto come produttore di senso il film potrebbe anche fare impazzire). Ammetto che l’epilogo del film è emozionante, sconvolgente. L’epilogo trascina l’anima nel baratro della disperazione per riportarla in un attimo nella forza della speranza. Da questa differenza di potenziale, lo spettatore, almeno per quanto mi riguarda, ne esce scosso oppure indifferente. Questa affermazione può sembrare la scoperta dell’acqua calda (una cosa o piace o non piace) e probabilmente in fondo sto cercando proprio di definire quale sia la temperatura oltre la quale la pelle passa da una sensazione di benessere a un’altra di dolore lancinante: un centesimo di grado prima è un gradevole sollazzo e un centesimo dopo un dolore insopportabile. La differenza sta nel percorso di Walt, nel suo passaggio dal gesto minaccioso e sicuro (la mano che mima una pistola che sputa fuoco) all’oggetto estratto in quanto oggetto adatto a svolgere la sua funzione (accendino per “infiammare” una sigaretta) ma anche oggetto-simbolo (accendino del 1951, della giovinezza e dell’eroismo della guerra in Corea) di un mondo che si completa adesso, nel presente, nel momento in cui “inganno” l’altro facendogli vedere il male (un revolver) che non ho ma che l’altro ha già creato nella sua mente. Pertanto un epilogo del genere può sembrare anche un ammiccamento al pubblico sensibile a certi cliché, ma secondo me è invece una sorta di ricerca propedeutica alla raggiunta consapevolezza che un mondo si è appena dissolto davanti ai nostri occhi, che un vecchio è riuscito finalmente, e per sua fortuna, a dare un senso alla sua vita, prima piena di significati (onore, tradizione, America, razzismo) divenuta adesso un’apertura infinita sulle variabili del mondo. E questo accade davanti ai nostri occhi o perlomeno Eastwood è riuscito a infondere la precarietà di questo gesto, già impresso sulla pellicola e sicuramente previsto e riportato sulla sceneggiatura, nell’attimo stesso in cui lo vediamo. C’è in questa sequenza un’amplificazione immane della capacità del cinema di sembrare continuamente un percorso in costruzione, ossia di dare l’idea che le cose accadano nel momento in cui le vediamo.

Gran Torino è una porta aperta sulla disgregazione delle certezze e sulla celebrazione di un arricchimento dovuto al confronto continuo e critico con l’altro, è la scoperta di un nuovo tipo di coraggio che non coincide con il coraggio del guerriero (Corea) ma con quello del vecchio stanco e debole che trova la forza di farsi aiutare da un giovane Hmong. Così come ci mostra una nitida enucleazione di significati (ghetto, crisi, immigrati, malavita, i ragazzi non sono quelli di una volta), il film tende anche a indebolire questi stessi significati cercando di farci notare una loro continua rarefazione, un’evanescenza che rende insicuri ma che aiuta a “vedere” oltre l’orizzonte limitato dei luoghi comuni (il ghetto siamo noi, la crisi c’è per tutti, la malavita colpisce prima quelli che credi nemici, gli immigrati possono essere tuoi amici, i ragazzi sono il ragazzo che eri). In altri termini le varie sequenze non tendono a spingerci verso una catarsi tanto appagante quanto sterile, ma verso un continuo arrovellamento mentale per cui la sensazione liberatoria non può e non deve essere sufficiente per definire le sequenze, i punti di vista, le inquadrature, perché le nostre aspettative, anche se forse risolte nell’epilogo, vengono nuovamente messe in discussione nell’ultima sequenza che è un’apertura sul mondo, una ridefinizione, partendo da nuovi presupposti, di un altro modo di proporre storie e forse uno sguardo su quello che potrà domani diventare il cinema.


(1) Sinclair (nato a Flint, Michigan nel 1941) poeta beatnik e pacifista, amante della musica jazz è stato manager del gruppo MC5, nonché responsabile di una casa editrice underground e fondatore del partito delle Pantere Bianche. Nel 1969 venne arrestato dalla polizia per detenzione di marijuana e fu liberato soltanto grazie alla lotta di un movimento popolare che culminò in un concerto organizzato da John Lennon che aveva scritto per lui la canzone “Sinclair”. Dal 2004 vive ad Amsterdam dove si esibisce con la sua band e gestisce programmi radiofonici.
(2) La funzione illocutoria in pragmatica è definibile come il tipo di azione che compiamo nell'emettere un particolare enunciato: domanda, richiesta, ordine ecc. Cfr. John L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Torino 1987.

Acqua in bocca

Riprendo pari pari dal blog del carissimo Conte Nebbia e volentieri riporto:

"H2O ACQUA IN BOCCA: VI ABBIAMO VENDUTO L'ACQUA di Rosaria Ruffini
Mentre nel paese imperversano discussioni sull' eutanasia, grembiulino a scuola, guinzaglio al cane e sul flagello dei graffiti, il governo Berlusconi senza dire niente a nessuno ha dato il via alla privatizzazione dell'acqua pubblica. Il Parlamento ha votato l'articolo 23bis del decreto legge 112 del ministro Tremonti, che afferma che la gestione dei servizi idrici deve essere sottomessa alle regole dell'economia capitalistica. Così il governo Berlusconi ha sancito che in Italia l'acqua non sarà più un bene pubblico ma una merce, e quindi sarà gestita da multinazionali (le stesse che possiedono l'acqua minerale). Già a Latina la Veolia (multinazionale che gestisce l'acqua locale) ha deciso di aumentare le bollette del 300%. Ai consumatori che protestano, Veolia manda le sue squadre di vigilantes e carabinieri per staccare i contatori. La privatizzazione dell'acqua che sta avvenendo a livello mondiale provocherà, nei prossimi anni, milioni di morti per sete nei paesi più poveri. L'uomo è fatto per il 65% di acqua, ed è questo che il governo italiano sta mettendo in vendita. L'acqua che sgorga dalla terra non è una merce, è un diritto fondamentale umano e nessuno può appropriarsene per trarne illecito profitto. L'acqua è l'oro bianco per cui si combatteranno le prossime guerre. Guerre che saranno dirette dalle multinazionali alle quali oggi il governo, preoccupato per i grembiulini, sta vendendo il 65% del nostro corpo. Acqua in bocca. FATE GIRARE : METTETENE A CONOSCENZA PIU' GENTE CHE POTETE."
Aggiungo che secondo me questa "tendenza" a privatizzare l'acqua è ormai in corso da molti anni e coinvolge quasi tutti i comuni italiani, purtroppo.