Sweeney Todd è uno di quei film che mi scuotono dal dentro, perché sono iperrealistici. La realtà non è scomparsa nell’incubo di una Londra ricostruita in teatro e ritoccata col computer, né è stata scacciata dai colori surreali dei sogni, ma è rientrata dalla finestra deformante del cinema, attraverso quel fascio di luce che dal proiettore fende l’aria mostrando il pulviscolo e le particelle leggere di solito invisibili all’occhio. E com’è possibile che quella luce (che una volta illuminava le volute del fumo di centinaia di sigarette punteggiate nella sala oscura come lucciole di maggio), com’è possibile che riesca, attraverso tanti ostacoli, a trasportare immagini fino allo schermo? È come se Sweeney Todd sia riuscito a “raccattare” tutte le impurità del reale, assorbendo la polvere e le scorie del mondo. Questo è uno dei rari casi in cui il cinema esprime benissimo se stesso, in cui mostra il mostro facendolo affiorare alla superficie. Perché ogni grande film è un mostro, ossia una Chimera(1). La Chimera è innanzitutto un mostro che finisce tragicamente ucciso dal piombo ed è un animale “irreale” costituito da parti di animali “reali”. Il cinema è una Chimera perché è un surrogato di reale (quindi irreale) costituito però da pezzi di reale (il profilmico) che in base alla loro giustapposizione formano tipi diversi di chimere. Questo film riesce a mostrare il deittico con una potenza del Falso che non ha uguali (almeno riguardo ai film di questi ultimi anni eccetto forse INLAND EMPIRE), riuscendo a rivelare quel paesaggio moderno dove l’espressività delle immagini si forma nel momento in cui vengono osservate, perché appunto si è formata una chimera, e con essa l’angoscia, il nostro mostro accovacciato sulle spalle(2), le immagini seriali o il collage di immagini seriali della modernità che rimangono come invischiate nel fotogramma. In effetti quando l’immagine cerca di riprodurre il film, non può “scorrere”, anche se scorre nel nostro immaginario, facendo sembrare “strano”, astratto, ciò che troviamo naturale nel quotidiano. Ecco i punti che mi interessano: Formazione del mostro, Sinestesia dei suoni, Incubo del colore.
Formazione del mostro. Dostoevskij nel suo “Memorie dal sottosuolo” afferma che il totale è molto di più della somma delle sue parti, quattro è molto di più di due più due. Le parti del film: colore, recitazione, profilmico, musica, découpage, prese di per sé, isolate, non aggiungono niente all’arte di Burton, anzi si limitano a ripetere e mostrare ciò che è già stato detto e visto in tanti suoi film precedenti. Il barbiere Sweeney come il sig. Pirelli, che si confrontano in una gara di rasatura, o le tante gole tagliate da Sweeney o la carne macinata ottenuta da pezzi di cadaveri umani, sono immagini già viste, elaborate, recepite. Eppure tutte queste cose insieme, non so come (e questa è la magia del cinema) generano la Chimera, portando la deissi allo stesso livello del soggetto del film. L’irrealtà fattasi mostro, appena percepibile nell’incipit (una normale storia di soprusi) prende sempre più il sopravvento trasportando i personaggi verso quel mirabile epilogo che è insieme tragedia e pittura, danza e horror, quadro invaso dalla carne e spiritualità degli eventi, commedia degli equivoci e tradimenti e amore non corrisposto, lucidità della follia e pazzia della logica. In altri termini l’epilogo è la summa di tutte le compenetrazioni, l’esplosione dei componenti del montaggio; è come se Burton si fosse divertito a smontare il film davanti a nostri occhi facendo esplodere dall’interno il découpage e la pellicola. Mostrandoci il procedimento di costruzione del film, come epilogo tragico del mondo, ha dato vita alla creatura come novello Frankenstein che ha forgiato il suo mostro costruito con pezzi trafugati nei cimiteri. Per fare questo il nostro Tifone non ha sottratto per sommare (tipico dei grandi registi), ma ha diminuito, forse comprendendo che fare il passo più lungo della gamba a volte non conviene. Ha abbassato l’intensità del colore riducendolo ad una sorta di bianco e nero colorato (azzurri, grigi, neri) non solo per rendere il clima gotico di una Londra dipinta come luogo di residenza del male, ma per non utilizzare l’intera tavolozza, perché la Chimera possiede solo parti, non tutti i corpi. Si è riservato di usare l’intera tavolozza solo nell’incipit “idilliaco” (molto breve) del barbiere ingenuo e nel sogno della signorina Lovett, riservando all’arcobaleno la parte idilliaca e sognatrice ma anche la parte capace di annientare la conoscenza. Infatti i colori del sogno sono più falsi di quel mélange gotico monocolore del film e inoltre il sogno ci restituisce uno Sweeney marionetta che non è componente attiva (nel classico sogno idilliaco il barbiere avrebbe dovuto corrispondere l’amore della signorina Lovett), ma è stato preso in prestito da un incubo a colori. Per questo il sogno della signorina Lovett è un sogno diminuito (non completo), altrimenti non sarebbe stato possibile utilizzarlo come pezzo cadaverico della Chimera. Insomma, qualunque aspetto del film è diminuzione, riduzione, evaporazione acquea, come se la finta pioggia che cade su Londra dell’incipit (suppongo volutamente falsa) stia evaporando davanti allo sguardo per lasciare il rosso come unico colore disposto a invadere il quadro. Stesso discorso potrebbe essere fatto per i bambini (che non sono l’infanzia ma una loro flebile parte), l’infanzia è stata appena mostrata: tutta intera non sarebbe servita. E anche per altri aspetti del film che non starò a sottolineare.
Sinestesia dei suoni. Ossia associazione di due termini che si riferiscono a sfere sensoriali diverse. Colore e suono non sono separati, o meglio, come pezzi trovati nel ciarpame sono separati, ma insieme interagiscono e la musica, il musical, restituisce colori, come il colore restituisce musica. Il musical non è musical perché non è composto da danza, canto, musica e recitazione, ma da surrogati di danza, di canto, di musica e di recitazione, altrimenti saremmo stati di fronte a un pessimo musical. Se dovessi giudicare il film come un musical non ne sarei entusiasta. Invece il film non è un musical perché è successo un fatto imprevedibile: musica canto e recitazione si sono compenetrati formando una sorta di monocolore mono-musicale, una sinestesia; le canzoni impossibili da ricordare, monocordi, simili a nenie distruttive, a ninnananne infernali, trasportano colori e immagini, ossia sottolineano, esaltandola, l’ambientazione e la recitazione. Una musica viva e grandiosa avrebbe potuto alienare la Chimera isolandola come componente interessante ma debole del film. In questo modo il suono s’è fatto carne, contribuendo alla formazione parossistica del rosso. Stesso discorso per la recitazione e la scenografia. Per sfruttare una sinestesia il film è un rosso ululato.
Incubo del colore. Questo ci porta all’epilogo. Chimera e sinestesia, ossia pezzi di cadaveri e inversione sensoriale sono proiettate verso il regno del rosso, la caduta nell’inferno del mondo dove l’errore, l’ingiustizia, l’infanzia perduta, il male, il falso e il brutto diventano marcatori estetici che devono essere presi in considerazione come e quanto i loro opposti. D’altronde nella Chimera il Bello soffre della sua stessa presenza poiché da due parti giustapposte e belle non necessariamente si forma un tutto bello. Il colore che sgorga dalle gole, che intinge il vetro del lucernario (e quindi dell’obiettivo), che permane nello sguardo e scivola oltre la botola, che gocciola come acqua sui volti e sui corpi persi e pronti per il pasticcio della signorina Lovett, in fondo è come una liberazione, è qualcosa di tristemente umano, è la crudeltà del sangue fuori posto (al suo posto: vita; fuori dal suo posto: morte), che sgorgando e liberandosi, annulla il movimento dei corpi. In fondo il taglio delle gole è una cesura obbligata per unire fotogrammi e formare la Chimera, per illuderci dell’esistenza di altri mondi (meravigliosi, affascinanti, romantici, pieni d’amore) ma che alla fine sono sempre mostruosità in nuce. Il taglio è un evento indispensabile nel cinema, utilizzato per creare sintagmi, per confrontare immagini e far scattare nella mente lo sviluppo narrativo. Indispensabile ma tragico. Il taglio porta con sé il rischio di rinunciare alla conoscenza. Quando Sweeney taglia l’ultima gola innocente rinuncia al riconoscimento (la vittima poco prima gli ha detto: Ma ci conosciamo?), rinuncia al percorso ovvio e logico di una ricerca sensata, rinuncia alla speranza, alla voglia di cercare, anche se a volte può sembrare inutile. Cambiando sequenza e gettando l’immagine tagliata nella botola, il barbiere ha compiuto l’ultimo atto insensato. Da ora in poi non sarà più possibile sfornare pasticci ma solo dipingere quadri astratti.
(1) Wikipedia: La chimera nella mitologia greca, “figlia di Echidna e Tifone, venne allevata dal re di Caria Amisodare, e visse a Patara. Il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderla perché essa si dava a scorrerie nel suo territorio. Con l'aiuto di Pegaso, Bellerofonte vi riuscì. Si racconta che egli avesse la punta della sua lancia di un pezzo di piombo. Al calore delle fiamme lanciate dalla Chimera, il piombo si sciolse e uccise la bestia”.
(2) Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, A ciascuno la sua chimera
Formazione del mostro. Dostoevskij nel suo “Memorie dal sottosuolo” afferma che il totale è molto di più della somma delle sue parti, quattro è molto di più di due più due. Le parti del film: colore, recitazione, profilmico, musica, découpage, prese di per sé, isolate, non aggiungono niente all’arte di Burton, anzi si limitano a ripetere e mostrare ciò che è già stato detto e visto in tanti suoi film precedenti. Il barbiere Sweeney come il sig. Pirelli, che si confrontano in una gara di rasatura, o le tante gole tagliate da Sweeney o la carne macinata ottenuta da pezzi di cadaveri umani, sono immagini già viste, elaborate, recepite. Eppure tutte queste cose insieme, non so come (e questa è la magia del cinema) generano la Chimera, portando la deissi allo stesso livello del soggetto del film. L’irrealtà fattasi mostro, appena percepibile nell’incipit (una normale storia di soprusi) prende sempre più il sopravvento trasportando i personaggi verso quel mirabile epilogo che è insieme tragedia e pittura, danza e horror, quadro invaso dalla carne e spiritualità degli eventi, commedia degli equivoci e tradimenti e amore non corrisposto, lucidità della follia e pazzia della logica. In altri termini l’epilogo è la summa di tutte le compenetrazioni, l’esplosione dei componenti del montaggio; è come se Burton si fosse divertito a smontare il film davanti a nostri occhi facendo esplodere dall’interno il découpage e la pellicola. Mostrandoci il procedimento di costruzione del film, come epilogo tragico del mondo, ha dato vita alla creatura come novello Frankenstein che ha forgiato il suo mostro costruito con pezzi trafugati nei cimiteri. Per fare questo il nostro Tifone non ha sottratto per sommare (tipico dei grandi registi), ma ha diminuito, forse comprendendo che fare il passo più lungo della gamba a volte non conviene. Ha abbassato l’intensità del colore riducendolo ad una sorta di bianco e nero colorato (azzurri, grigi, neri) non solo per rendere il clima gotico di una Londra dipinta come luogo di residenza del male, ma per non utilizzare l’intera tavolozza, perché la Chimera possiede solo parti, non tutti i corpi. Si è riservato di usare l’intera tavolozza solo nell’incipit “idilliaco” (molto breve) del barbiere ingenuo e nel sogno della signorina Lovett, riservando all’arcobaleno la parte idilliaca e sognatrice ma anche la parte capace di annientare la conoscenza. Infatti i colori del sogno sono più falsi di quel mélange gotico monocolore del film e inoltre il sogno ci restituisce uno Sweeney marionetta che non è componente attiva (nel classico sogno idilliaco il barbiere avrebbe dovuto corrispondere l’amore della signorina Lovett), ma è stato preso in prestito da un incubo a colori. Per questo il sogno della signorina Lovett è un sogno diminuito (non completo), altrimenti non sarebbe stato possibile utilizzarlo come pezzo cadaverico della Chimera. Insomma, qualunque aspetto del film è diminuzione, riduzione, evaporazione acquea, come se la finta pioggia che cade su Londra dell’incipit (suppongo volutamente falsa) stia evaporando davanti allo sguardo per lasciare il rosso come unico colore disposto a invadere il quadro. Stesso discorso potrebbe essere fatto per i bambini (che non sono l’infanzia ma una loro flebile parte), l’infanzia è stata appena mostrata: tutta intera non sarebbe servita. E anche per altri aspetti del film che non starò a sottolineare.
Sinestesia dei suoni. Ossia associazione di due termini che si riferiscono a sfere sensoriali diverse. Colore e suono non sono separati, o meglio, come pezzi trovati nel ciarpame sono separati, ma insieme interagiscono e la musica, il musical, restituisce colori, come il colore restituisce musica. Il musical non è musical perché non è composto da danza, canto, musica e recitazione, ma da surrogati di danza, di canto, di musica e di recitazione, altrimenti saremmo stati di fronte a un pessimo musical. Se dovessi giudicare il film come un musical non ne sarei entusiasta. Invece il film non è un musical perché è successo un fatto imprevedibile: musica canto e recitazione si sono compenetrati formando una sorta di monocolore mono-musicale, una sinestesia; le canzoni impossibili da ricordare, monocordi, simili a nenie distruttive, a ninnananne infernali, trasportano colori e immagini, ossia sottolineano, esaltandola, l’ambientazione e la recitazione. Una musica viva e grandiosa avrebbe potuto alienare la Chimera isolandola come componente interessante ma debole del film. In questo modo il suono s’è fatto carne, contribuendo alla formazione parossistica del rosso. Stesso discorso per la recitazione e la scenografia. Per sfruttare una sinestesia il film è un rosso ululato.
Incubo del colore. Questo ci porta all’epilogo. Chimera e sinestesia, ossia pezzi di cadaveri e inversione sensoriale sono proiettate verso il regno del rosso, la caduta nell’inferno del mondo dove l’errore, l’ingiustizia, l’infanzia perduta, il male, il falso e il brutto diventano marcatori estetici che devono essere presi in considerazione come e quanto i loro opposti. D’altronde nella Chimera il Bello soffre della sua stessa presenza poiché da due parti giustapposte e belle non necessariamente si forma un tutto bello. Il colore che sgorga dalle gole, che intinge il vetro del lucernario (e quindi dell’obiettivo), che permane nello sguardo e scivola oltre la botola, che gocciola come acqua sui volti e sui corpi persi e pronti per il pasticcio della signorina Lovett, in fondo è come una liberazione, è qualcosa di tristemente umano, è la crudeltà del sangue fuori posto (al suo posto: vita; fuori dal suo posto: morte), che sgorgando e liberandosi, annulla il movimento dei corpi. In fondo il taglio delle gole è una cesura obbligata per unire fotogrammi e formare la Chimera, per illuderci dell’esistenza di altri mondi (meravigliosi, affascinanti, romantici, pieni d’amore) ma che alla fine sono sempre mostruosità in nuce. Il taglio è un evento indispensabile nel cinema, utilizzato per creare sintagmi, per confrontare immagini e far scattare nella mente lo sviluppo narrativo. Indispensabile ma tragico. Il taglio porta con sé il rischio di rinunciare alla conoscenza. Quando Sweeney taglia l’ultima gola innocente rinuncia al riconoscimento (la vittima poco prima gli ha detto: Ma ci conosciamo?), rinuncia al percorso ovvio e logico di una ricerca sensata, rinuncia alla speranza, alla voglia di cercare, anche se a volte può sembrare inutile. Cambiando sequenza e gettando l’immagine tagliata nella botola, il barbiere ha compiuto l’ultimo atto insensato. Da ora in poi non sarà più possibile sfornare pasticci ma solo dipingere quadri astratti.
(1) Wikipedia: La chimera nella mitologia greca, “figlia di Echidna e Tifone, venne allevata dal re di Caria Amisodare, e visse a Patara. Il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderla perché essa si dava a scorrerie nel suo territorio. Con l'aiuto di Pegaso, Bellerofonte vi riuscì. Si racconta che egli avesse la punta della sua lancia di un pezzo di piombo. Al calore delle fiamme lanciate dalla Chimera, il piombo si sciolse e uccise la bestia”.
(2) Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, A ciascuno la sua chimera
29 commenti:
Come (quasi) sempre la tua è la recensione più completa tra le (molte) che ho letto.
Hai una capacità d'analisi davvero considerevole, ottima dote.
Non leggo niente, per mancanza di tempo, e ripasso domani.
Non vedo l'ora ^^
@Mr. Hamlin. Ti ringrazio, cerco di fare quello che posso anche se credo che ognuno di noi (almeno i blogger che frequento compreso tu) stia dando il massimo scrivendo recensioni peculiari e originali. Io ad esempio invidio ad ognuno di voi capacità che non possiedo come sintesi, pathos, descrizione, intrattenimento, humor. Ti ringrazio per la stima ^^
@Chimy. Come ti capisco. Il tempo è un bene prezioso che scarseggia. A presto^^
ecco hai espresso bene un concetto: è vero c'è il "solito" armamentario burtoniano e preso ogni elemento a sé non aggiunge nulla; ma il miracolo è la somma delle parti. E visto che un regista è uno che coordina aspetti diversi... di chi sarà cotanta maestria?
@Noodles. Sì, in effetti non ho detto la parola giusta: una grande regia. D'altronde non è semplice curare le parti e assemblarle ma ancora più complesso è diminuire e/o ridurre scegliendo una parte soltanto, che sia quella giusta, anche se apparentemente "limitata" da cucire con altre. La struttura insomma, composta dalle sue funzioni essenziali. Non è semplice.
Bellissima quest'associazione cinema-Chimera, mi sta dando molto da riflettere.
Mi convince, anche se ci sono casi in cui il cinema lo vedo più come il mostro di Frankenstein in quanto "scimmiotta" il reale.
Prende parti di uomo per costruirne un altro, reale e mostruoso nello stesso tempo.
In ogni caso si tratta di visioni contigue e in parte sovrapposte.
Grazie per questa interessante analisi Luciano, il film non l'ho visto ma prima o poi conto di recuperarlo.
Una recensione molto interessante, perché porta in superficie aspetti profondi suggeriti dal film di Tim Burton. Il film può sembrare poco emozionante, un musical zoppo, le canzoni possono non piacere, ma poi riesce a piacere.
E tu spieghi benissimo le ragioni profonde. :)
Interessantissima la motivazione che dai del fatto che questo film non sia un vero e proprio musical, mi trovi completamente d'accordo. Ah e sensazionale il rimando alla Chimera ^^
Ale55andra
mi colpisce il tuo entusiasmo, ed apprezzo la prospettiva particolare con cui hai osservato la pellicola. è vero, la musica è complementare, ma non perchè (a mio parere) così sia nel progetto originario del musical teatrale, ma per un effetto voluto dallo stesso burton, una sorta di ripiegamento autocelebrativo su se stesso. e poi ha mancato di coraggio! quel sangue sgorgante come acqua (tu stesso lo hai sottolineato) è così visibilmente fittizio, da suggerire una sola idea: burton non ha avuto il coraggio di creare raccapriccio. troppa correttezza politica, gratuitamente adottata dda un autore che poteva permettersi il contrario!
@Ti ringrazio Martin. In effetti se inteso come corpo irreale/fantastico composto da pezzi di reale, il cinema è accostabile alla Chimera, cioè è un mostro. Ma questa riflessione vale per tutti i film, anche per quelli reputati “realtà in azione” (ma per me solo verosimili). Addirittura vale anche per il cinema-documentario, perché quando si opera un taglio del reale, nonostante la buona volontà, operiamo una scelta. Da tante scelte soggettive (ed anche opinabili) sorge il mostro fantastico. In questo film, secondo me, c’è il tentativo (non so quanto riuscito ma ad una prima visione sembra proprio riuscito) di rendere visibile il male in ogni sua forma, mostrando la sequenza fattasi carne. Anche la metafora di Frankenstein mi sembra pertinente e illuminante ^^
@Lilith. Ti ringrazio per la fiducia. Praticamente siamo in sintonia ^^
@Ale55andra. Ti ringrazio anche per il “sensazionale”. In effetti quella della Chimera è una vecchia metafora che ho usato molti anni fa per definire alcuni film, cioè quei film che si preoccupano di mostrarla senza pudori. Svelare la mostruosità del meccanismo e la sua potenza che, se usata in modo sbagliato, può fare male (la Chimera usa fare scorribande nei territori del re). Insomma il cinema può essere allo stesso tempo Leone/Capra/Drago?
@Mario. Ho visto il film solo una volta e le motivazioni di Burton in effetti sono difficili da intuire (potrebbe anche essere autocelebrazione, chissà). Interessante la tua affermazione sulla mancanza di coraggio. Utilizzare più raccapriccio, quindi sangue più “verosimile”? Può darsi. Forse il film sarebbe potuto essere migliore. O forse il raccapriccio non avrebbe compensato gli equilibri strutturali del film. A me è piaciuto probabilmente perché sin dall’inizio ho visto il sangue non come plasma ma come colore che è andato a striare il fondo monocolore della tela, strappandola ,lacerandola, tagliandola. Un film senza dubbio da ri-visitare. Grazie Mario per i tuoi interessanti spunti. A presto^^
Mi sono emozionato moltissimo. Mi hai ritrasmesso le magiche sensazioni provate durante la visione.
Sinceri complimenti....
@Chimy. Ti ringrazio e mi fa piacere ti averti trasmesso sensazioni perché in fondo, quando scrivo (ma questo credo valga per tutti) spero di trasmettere qualcosa delle mie emozioni (naturalmente quando leggo cerco di carpire emozioni dagli altri).
splendida
non so più come complimentarmi!
sei un grande
@Honeyboy. Grazie sei sempre molto gentile. Comunque, credimi, le tue recensioni non sono da meno e le leggo sempre con grande piacere. Grazie per aver appoggiato la mia candidatura nella Cinebloggers ^_^
ancora non visto, che vergogna...
cmque complimenti per la recensione :)
Simone
Complimenti Luciano anche da parte mia. Io però sulla prima parte del film sono perplesso, non capivo cosa volesse dire Burton e dove volesse andare...poi il finale è meraviglioso aiutato da una bellissima fotografia che evidenzia il rosso del sangue che rispetto al nero che aveva formato ogni immagine in precedenza.
Come al solito senza parole!...ti dico solo che ti ho dato il benvenuto "a modo mio" nella Connection. C'è una sorpresa per te su Cinedrome. Un abbraccio ;-)
Bravissimo, come sempre, anche se concordo solo in parte.
Stavolta Burton non è riuscito a smuovermi.
Ho apprezzato il film, come si apprezza sempre la bellezza, ma non mi ha poi trasmesso tanto.
Non so come spiegarmi, solitamente subito dopo la visione di un film (che ho molto gradito) avverto una spece di brivido che mi scende lungo il corpo.
Stavolta niente!
Sarà sicuramente un mio limite...
Ciao
@Grazie Simone. Anch'io purtroppo sto perdendo molti bellissimi film. :(
@Edo. Sì in effetti l'epilogo è come una sutura che ricollega tutti i pezzi, restituendo il senso dell'intero film nel colorare il quadro col rosso del sangue e rendendo in tal modo bene l'astrazione e la follia del mondo.
@Pickpocket. Ho visto la sorpresa e ti ringrazio immensamente. Un bel regalo. Adesso corro sul tuo blog a leggermi la recensione ^_^
@Filippo. Nessun limite. Non possiamo avere tutti le stesse reazioni e provare le stesse emozioni. Ci mancherebbe! Nella visione di un film c'è un qualcosa ad un certo punto che ti punge (come dice Barthes) e che ti fa apprezzare l'immagine. Quel qualcosa è ciò che fa la differenza e interessante diventa cercare di capire perché una cosa che punge me non punge invece te (o viceversa). Grazie per aver appoggiato la mia candidatura. ^_^
"riesce a mostrare il deittico con una potenza del Falso che non ha uguali (almeno riguardo ai film di questi ultimi anni eccetto forse INLAND EMPIRE)[..]l’espressività delle immagini si forma nel momento in cui vengono osservate"
Ok, con queste parole mi hai dato in pratica l'ultima spinta per andarlo a vedere. E' da quando è uscito che sono molto dubbioso e alla fine rimando sempre scegliendo altri film.
Complimenti per l'analisi, tornerò a leggerla dopo aver visto il film (ho saltato l'ultima parte sull'epilogo).
Ciao,
Lorenzo
@Grazie Lorenzo. Non vedo l'ora di conoscere il tuo punto di vista che (lo sai) giustamente non ha trovato pareri unanimi.
A presto ^^
Come al solito tanto di cappello per le parole. Il film non l'ho ancora visto e conto di farlo in questo fine settimana.
Ciao!
@Roberto. Allora rimango in attesa di un tuo probabile post. Ciao!
Quando Sweeney taglia l’ultima gola innocente rinuncia al riconoscimento (la vittima poco prima gli ha detto: Ma ci conosciamo?), rinuncia al percorso ovvio e logico di una ricerca sensata, rinuncia alla speranza, alla voglia di cercare, anche se a volte può sembrare inutile.
Interessanti questa interpretazione del taglio della come rinuncia alla conoscenza. O forse è il contrario: solo un taglio garantisce la possibilità di conoscere, altrimenti la conoscenza sarebbe posseduta.
Un saluto :)
@Dottor Benway.Nel vedere le ultime sequenze del film ho proprio avuto la sensazione di un “adagiarsi”, di una “perdita del senso” da parte di Sweeney poiché ha proseguito imperterrito nei tagli senza “guardare bene”, oltre le apparenze. In questo caso il sintagma mi è sembrato un surrogato del reale che tagliando “profilmici” differenti non rende un senso di ricerca, non trasporta lo sguardo al di là dei cliché. E il cliché di Sweeney è la catena di montaggio delle gole per sfornare pasticci in attesa che la vendetta sia compiuta. Allora mi è parso che i rischi del montaggio siano tutti nell’accostamento “chimerico”, mostruoso, indispensabile (d’accordo) ma pericoloso. Infatti la scelta dei tagli può essere fuorviante e sta al nostro sguardo non lasciarsi intrappolare. Ho scritto del “rischio di riunnciare alla conoscenza” perché non ho niente contro il montaggio (anche se ammetto adoro i lunghi piani-sequenza), ma sono contrario al montaggio ruffiano costruito per “illudere” lo sguardo allontanandolo dalla percezione del senso. Comunque è solo un rischio (ma in molti film purtroppo il rischio si concretizza). Sono d’accordo con te che “possedere la conoscenza” significa già rinunciare alla conoscenza. E ho visto le gole tagliate come il desiderio di Sweeney di catalogare il mondo. Burton è stato grande perché ha mostrato la forza distruttiva dell’apparenza attraverso l’invasione del rosso e delle sue possibilità di dipingere il caos. Con questo voglio dire che adesso Sweeney potrà solo dipingere quadri nel senso di uno sgocciolamento alla Pollock sul volto della sua amata. Sono d’accordo con te che il taglio può anche garantire la possibilità di conoscere, ma deve essere un taglio consapevole che riesca a trasferire il senso dell’immagine nell’immagine che segue. L’immagine che precede non va persa se c’è la volontà di mostrare l’inganno. Ecco, la scena finale del film è grande anche per questo, nel senso che viene mostrato l’inganno anche se è tardi e lo sguardo si smarrisce nel caos del mondo. Ottima riflessione e stimolante osservazione la tua. Ti ringrazio. A presto^^
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