Bisogna dare atto a Rubini del suo impegno per un cinema che cerca di uscire dai cliché tipici di molto, troppo, cinema italiano contemporaneo. Una strada smarrita da ritrovare vagando per vie incerte e che conducono alla produzione di film ripetitivi e soporiferi. Rubini (ma per fortuna non è il solo) ci prova e questo lo si nota in ogni immagine, in ogni sequenza. Prove di cinema, citazioni di cult (Hitchcock, De Palma, Rivette) ma soprattutto sequenze claustrofobiche che tolgono il respiro. E per fare questo ci vogliono grandi capacità registiche. Purtroppo la strada è appena imboccata e il gioco stimolante di portare l’arte in scena, di mostrare un cinema che riflette sulle proprie valenze estetiche ma anche sociali, naufraga a causa di una pressoché assente capacità di “pungere” il cinema stesso (estetica) e il mondo che lo circonda (sociale). Sembra che le bellissime location del film (aspetto peraltro da valutare) non riescano a sorreggere i movimenti degli attanti, così come la riprese fluttuanti (mdp che si avvicina e gira intorno oppure che riprende da una distanza metafisica) non abbiano la forza di penetrare l’immagine. Non è sufficiente formare un puzzle composto da mille pezzi meravigliosi (una Roma stupefacente, paesi da cartolina, i locali della Biennale pieni di vere opere d’arte, un nudo come icona della classicità) per ottenere un insieme riuscito e funzionale. In altre parole le immagini (e io apprezzo intensamente l’immagine presa di per sé) non sono completamente formate in quanto vengono abbandonate al loro effimero destino di profilmico non consumato. Voglio dire che sfuggono alla visione. Lo sguardo non riesce a penetrarle. L’idea di creare una claustrofobia densa come pece, capace di trascinarci nell’impeto delle passioni, è encomiabile. Il fatto purtroppo è che queste passioni vengono rimandate sempre, abbandonate sulla superficie degli oggetti (una collana, una sfera nera con impronta di mano, un inutile lenzuolo avvolto sul corpo di Adrian, un nudo lasciato andare troppo presto, una pistola che sembra stata rubata da un campionario di un piazzista anziché da un’opera d’arte). Il tentativo di occupare il quadro con l’arte non decolla, l’arte rimane come sospesa in una vetrina alla mercé di uno sguardo che ricorda il parossistico mordi e fuggi del turista più che la morbosa attenzione dell’appassionato estimatore. L’arte e il cinema sono attanti come altri, mentre gli oggetti usati per “dare carne” al plot vengono abbandonati a se stessi, non possedendo nemmeno una loro autonomia. Sono lì (la collana, il revolver, la scultura sferica con impronta) perché in seguito “saranno usati”, ma avrebbero dovuto essere lì anche in quanto oggetti autonomi, vivi, surreali e funzionali ai rapporti tra personaggi. I personaggi stessi (la recitazione sopra le righe potrebbe anche andare) non funzionano alla perfezione, perché non formano un connubio univoco, non entrano in sintonia in quanto ogni pedina gioca a mostrare il proprio mondo, mentre avrebbero potuto “scavalcare” la trama portandoci nell’abisso. In particolare s’eleva su tutti il ruolo di Lulli, ossia l’artefice, il regista delle “vite” delle vittime designate (Adrian e Gloria) il quale, introdotto nella storia ex abrupto, comincia a muovere le sue pedine sulla scacchiera del Caso. Lulli in effetti sembra vivere oltre il tempo, quasi come rappresentazione di un brutto ricordo o tentazione resa carne dalle ambizioni inappagate di Adrian. Adrian stesso, che vorrebbe emulare l’atemporalità, non ha la forza di dominare il proprio destino rimanendo sospeso nell’attimo (esemplare l’intervista alla Biennale o l’improvviso sfogo nella galleria in occasione della sua “personale”) poiché non possiede i codici per penetrare in quel mondo di “killer” (i critici) sempre pronti a definire l’arte, a domarla, e quindi incapaci di “capirla”. Solo Gloria sembra percorrere razionalmente il tempo (è l’unica a possedere ricordi). Ma il tempo, esemplarmente analizzato e avviato da Rubini (a differenza di tanti film in cui viene deliberatamente ignorato) non riesce a prendere il sopravvento, rimanendo impantanato nei limiti fisiologici della sceneggiatura. Dicevo dell’abisso, della speranza di essere presi per mano e trascinati lungo il tunnel della disperazione e della follia, ma non appare nessuna prospettiva di abisso, tutto avviene sulla superficie. La follia di Lulli (magistralmente interpretato da Rubini) non inonda lo schermo, non invade mai l’immagine. Una parte così importante è stata legata all’evoluzione del personaggio Adrian, mentre si poteva allineare il mondo allo sguardo di Lulli. In altri termini il momento più drammatico del film non c’è, e non ho ancora capito (probabilmente per mia incapacità) quale sia lo Spannung. Coincide con l’epilogo? È da ricercarsi nei flashback che non sorprendono? Oppure negli sguardi sperduti (perché purtroppo non controllati da Scamarcio e dalla Puccini) di Adrian e Gloria? Insomma la debolezza del film (che tra l’altro mi è piaciuto) è la rinuncia a suscitare forti emozioni e a "colpire" fino in fondo, sia attraverso le forme che sono troppo verginali, sia tramite l’analisi di un mondo (quello dell’arte, del cinema e dei ministeri finanziatori) che viene appena sussurrato senza mai essere denudato. Più che una Puccini senza veli forse si doveva mostrare che il Re è nudo (1). (1) Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’Imperatore










