
Sweeney Todd è uno di quei film che mi scuotono dal dentro, perché sono iperrealistici. La realtà non è scomparsa nell’incubo di una Londra ricostruita in teatro e ritoccata col computer, né è stata scacciata dai colori surreali dei sogni, ma è rientrata dalla finestra deformante del cinema, attraverso quel fascio di luce che dal proiettore fende l’aria mostrando il pulviscolo e le particelle leggere di solito invisibili all’occhio. E com’è possibile che quella luce (che una volta illuminava le volute del fumo di centinaia di sigarette punteggiate nella sala oscura come lucciole di maggio), com’è possibile che riesca, attraverso tanti ostacoli, a trasportare immagini fino allo schermo? È come se Sweeney Todd sia riuscito a “raccattare” tutte le impurità del reale, assorbendo la polvere e le scorie del mondo. Questo è uno dei rari casi in cui il cinema esprime benissimo se stesso, in cui mostra il mostro facendolo affiorare alla superficie. Perché ogni grande film è un mostro, ossia una Chimera(1). La Chimera è innanzitutto un mostro che finisce tragicamente ucciso dal piombo ed è un animale “irreale” costituito da parti di animali “reali”. Il cinema è una Chimera perché è un surrogato di reale (quindi irreale) costituito però da pezzi di reale (il profilmico) che in base alla loro giustapposizione formano tipi diversi di chimere. Questo film riesce a mostrare il deittico con una potenza del Falso che non ha uguali (almeno riguardo ai film di questi ultimi anni eccetto forse INLAND EMPIRE), riuscendo a rivelare quel paesaggio moderno dove l’espressività delle immagini si forma nel momento in cui vengono osservate, perché appunto si è formata una chimera, e con essa l’angoscia, il nostro mostro accovacciato sulle spalle(2), le immagini seriali o il collage di immagini seriali della modernità che rimangono come invischiate nel fotogramma. In effetti quando l’immagine cerca di riprodurre il film, non può “scorrere”, anche se scorre nel nostro immaginario, facendo sembrare “strano”, astratto, ciò che troviamo naturale nel quotidiano. Ecco i punti che mi interessano: Formazione del mostro, Sinestesia dei suoni, Incubo del colore.
Formazione del mostro. Dostoevskij nel suo “Memorie dal sottosuolo” afferma che il totale è molto di più della somma delle sue parti, quattro è molto di più di due più due. Le parti del film: colore, recitazione, profilmico, musica, découpage, prese di per sé, isolate, non aggiungono niente all’arte di Burton, anzi si limitano a ripetere e mostrare ciò che è già stato detto e visto in tanti suoi film precedenti. Il barbiere Sweeney come il sig. Pirelli, che si confrontano in una gara di rasatura, o le tante gole tagliate da Sweeney o la carne macinata ottenuta da pezzi di cadaveri umani, sono immagini già viste, elaborate, recepite. Eppure tutte queste cose insieme, non so come (e questa è la magia del cinema) generano la Chimera, portando la deissi allo stesso livello del soggetto del film. L’irrealtà fattasi mostro, appena percepibile nell’incipit (una normale storia di soprusi) prende sempre più il sopravvento trasportando i personaggi verso quel mirabile epilogo che è insieme tragedia e pittura, danza e horror, quadro invaso dalla carne e spiritualità degli eventi, commedia degli equivoci e tradimenti e amore non corrisposto, lucidità della follia e pazzia della logica. In altri termini l’epilogo è la summa di tutte le compenetrazioni, l’esplosione dei componenti del montaggio; è come se Burton si fosse divertito a smontare il film davanti a nostri occhi facendo esplodere dall’interno il découpage e la pellicola. Mostrandoci il procedimento di costruzione del film, come epilogo tragico del mondo, ha dato vita alla creatura come novello Frankenstein che ha forgiato il suo mostro costruito con pezzi trafugati nei cimiteri. Per fare questo il nostro Tifone non ha sottratto per sommare (tipico dei grandi registi), ma ha diminuito, forse comprendendo che fare il passo più lungo della gamba a volte non conviene. Ha abbassato l’intensità del colore riducendolo ad una sorta di bianco e nero colorato (azzurri, grigi, neri) non solo per rendere il clima gotico di una Londra dipinta come luogo di residenza del male, ma per non utilizzare l’intera tavolozza, perché la Chimera possiede solo parti, non tutti i corpi. Si è riservato di usare l’intera tavolozza solo nell’incipit “idilliaco” (molto breve) del barbiere ingenuo e nel sogno della signorina Lovett, riservando all’arcobaleno la parte idilliaca e sognatrice ma anche la parte capace di annientare la conoscenza. Infatti i colori del sogno sono più falsi di quel mélange gotico monocolore del film e inoltre il sogno ci restituisce uno Sweeney marionetta che non è componente attiva (nel classico sogno idilliaco il barbiere avrebbe dovuto corrispondere l’amore della signorina Lovett), ma è stato preso in prestito da un incubo a colori. Per questo il sogno della signorina Lovett è un sogno diminuito (non completo), altrimenti non sarebbe stato possibile utilizzarlo come pezzo cadaverico della Chimera. Insomma, qualunque aspetto del film è diminuzione, riduzione, evaporazione acquea, come se la finta pioggia che cade su Londra dell’incipit (suppongo volutamente falsa) stia evaporando davanti allo sguardo per lasciare il rosso come unico colore disposto a invadere il quadro. Stesso discorso potrebbe essere fatto per i bambini (che non sono l’infanzia ma una loro flebile parte), l’infanzia è stata appena mostrata: tutta intera non sarebbe servita. E anche per altri aspetti del film che non starò a sottolineare.
Sinestesia dei suoni. Ossia associazione di due termini che si riferiscono a sfere sensoriali diverse. Colore e suono non sono separati, o meglio, come pezzi trovati nel ciarpame sono separati, ma insieme interagiscono e la musica, il musical, restituisce colori, come il colore restituisce musica. Il musical non è musical perché non è composto da danza, canto, musica e recitazione, ma da surrogati di danza, di canto, di musica e di recitazione, altrimenti saremmo stati di fronte a un pessimo musical. Se dovessi giudicare il film come un musical non ne sarei entusiasta. Invece il film non è un musical perché è successo un fatto imprevedibile: musica canto e recitazione si sono compenetrati formando una sorta di monocolore mono-musicale, una sinestesia; le canzoni impossibili da ricordare, monocordi, simili a nenie distruttive, a ninnananne infernali, trasportano colori e immagini, ossia sottolineano, esaltandola, l’ambientazione e la recitazione. Una musica viva e grandiosa avrebbe potuto alienare la Chimera isolandola come componente interessante ma debole del film. In questo modo il suono s’è fatto carne, contribuendo alla formazione parossistica del rosso. Stesso discorso per la recitazione e la scenografia. Per sfruttare una sinestesia il film è un rosso ululato.
Incubo del colore. Questo ci porta all’epilogo. Chimera e sinestesia, ossia pezzi di cadaveri e inversione sensoriale sono proiettate verso il regno del rosso, la caduta nell’inferno del mondo dove l’errore, l’ingiustizia, l’infanzia perduta, il male, il falso e il brutto diventano marcatori estetici che devono essere presi in considerazione come e quanto i loro opposti. D’altronde nella Chimera il Bello soffre della sua stessa presenza poiché da due parti giustapposte e belle non necessariamente si forma un tutto bello. Il colore che sgorga dalle gole, che intinge il vetro del lucernario (e quindi dell’obiettivo), che permane nello sguardo e scivola oltre la botola, che gocciola come acqua sui volti e sui corpi persi e pronti per il pasticcio della signorina Lovett, in fondo è come una liberazione, è qualcosa di tristemente umano, è la crudeltà del sangue fuori posto (al suo posto: vita; fuori dal suo posto: morte), che sgorgando e liberandosi, annulla il movimento dei corpi. In fondo il taglio delle gole è una cesura obbligata per unire fotogrammi e formare la Chimera, per illuderci dell’esistenza di altri mondi (meravigliosi, affascinanti, romantici, pieni d’amore) ma che alla fine sono sempre mostruosità in nuce. Il taglio è un evento indispensabile nel cinema, utilizzato per creare sintagmi, per confrontare immagini e far scattare nella mente lo sviluppo narrativo. Indispensabile ma tragico. Il taglio porta con sé il rischio di rinunciare alla conoscenza. Quando Sweeney taglia l’ultima gola innocente rinuncia al riconoscimento (la vittima poco prima gli ha detto: Ma ci conosciamo?), rinuncia al percorso ovvio e logico di una ricerca sensata, rinuncia alla speranza, alla voglia di cercare, anche se a volte può sembrare inutile. Cambiando sequenza e gettando l’immagine tagliata nella botola, il barbiere ha compiuto l’ultimo atto insensato. Da ora in poi non sarà più possibile sfornare pasticci ma solo dipingere quadri astratti.
(1) Wikipedia: La chimera nella mitologia greca, “figlia di Echidna e Tifone, venne allevata dal re di Caria Amisodare, e visse a Patara. Il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderla perché essa si dava a scorrerie nel suo territorio. Con l'aiuto di Pegaso, Bellerofonte vi riuscì. Si racconta che egli avesse la punta della sua lancia di un pezzo di piombo. Al calore delle fiamme lanciate dalla Chimera, il piombo si sciolse e uccise la bestia”.
(2) Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, A ciascuno la sua chimera