Le tecnologia digitale permette a von Trier un film dove gli attori sono tutti contempora-neamente in scena. La videocamera (impugnata dallo stesso regista) si sposta da un personaggio all’altro avvicinandosi ai volti degli attori, poi allontanandosi per piroettare in ogni direzione. Queste riprese sono tipiche dei suoi film, ma in Dogville lo spazio subisce una drastica metamorfosi: la scenografia viene ridotta all’essenziale, oggetti e luoghi scompaiono alla vista dello spettatore. La cittadina deve essere ricostruita direttamente nella mente dell’osservatore. Non esistono né case, né alberi, né panorami, ma ogni cosa è raccolta in uno spazio teatrale dove le case sono disegnate per terra come in una mappa. Rimangono solo alcuni mobili, la parte più alta di un campanile, un gruppo di rocce, un camioncino, un'auto e naturalmente gli attori che possono muoversi liberamente sul set. Il concetto stesso di set subisce una metamorfosi: adesso il set è ovunque (o, se si preferisce, non c’è più). L’attore non esce mai di scena, ma vi rimane anche quando non è al centro della ripresa; niente esce mai veramente di campo, perché lo spazio del film tradizionale viene letteralmente abolito per essere sostituito da uno spazio definitivo ove la videocamera galleggia, si muove, ondeggia. Il concetto stesso di immagine si afferma con forza a discapito del sintagma inteso come montaggio di immagini per creare uno spazio narrativo. Qui l’immagine occupa l’intera scena, somigliando al piano sequenza ininterrotto della vita vissuta. E come nella vita l’interno e l’esterno non sono che “eterna” esteriorità (e l’interno di noi stessi è “rinchiuso” in una dimensione psichica), in Dogville i concetti di Dentro e Fuori perdono di significato. Il fuori campo scompare perché ora non dobbiamo più immaginarci le forme e i colori di un fuori che è stato un dentro (esempio: un fiume osservato da un personaggio che il cinema classico prima o poi ci mostrerà e che, una volta mostrato, per convenzione continueremo a immaginare), ma dobbiamo ricostruire gli oggetti stessi, dobbiamo immaginarci (come a teatro, ma ancor più che a teatro) gli oggetti e i colori stessi. In questo film von Trier si avvicina agli stilemi e alla ricerca filmica di Godard: l’immagine prende il sopravvento relegando lo spazio in secondo piano. L’immagine diventa movimento del tempo (Deleuze: “L’immagine tempo”). La visione risulta in tal modo straniante, ma anche e soprattutto realistica: innanzitutto la recitazione continua degli attori deve essere maggiormente curata, l’attore non recita più una parte scomparendo nel Fuori, ma recita e improvvisa rimanendo nella Vita; inoltre la scomparsa degli oggetti (case, alberi, strade, fiori, ecc.) permette allo sguardo di bucare il Chiuso. Quando la videocamera riprende per le strade di Dogville la polizia che interroga i cittadini, sullo sfondo, nella casa priva di pareti di Chuck (Stellan Skarsgård), si consuma la violenza ai danni di Grace (Nicole Kidman) da parte di Chuck stesso. Nessuno “può vedere” quello che succede, perché per convenzione vi sono le pareti. Ma noi spettatori abbiamo facoltà di farlo (von Trier ci ha tolto il fuoricampo) e le intense emozioni che proviamo (repulsione, fastidio, angoscia) risultano amplificate dalla presenza di tutto il mondo che sta intorno alla “violenza” subita da Grace. L’abolizione dello spazio ha reso concreto e insopportabile lo svolgersi implacabile e inarrestabile del tempo. In questo caso specifico lo stupro di Grace diventa patrimonio pubblico sottolineando allo sguardo come tutt’intorno allo stupro vi sia un mondo che non vede o non vuol vedere
2 commenti:
forse il miglior von trier
sia sul piano formale che contenutistico
finale stupendo
dome
Perfettamente d'accordo con te.
Grazie per il tuo commento.
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