Sin dalle origini il documentario impone all’autore una scelta, un punto di vista, un modo di disporre il profilmico. L’unica distinzione possibile con la fiction potrebbe essere l’assenza di scenografie (e/o ricostruzioni di ambienti e luoghi) e di personaggi interpretati da attori professionisti e no. D’altro canto il cinema di “recitazione” (soprattutto con i film di avanguardia) non disdegna l’utilizzo di scene documentarie. Anzi a volte immagini naturalistiche, inserite in un film di fiction, contribuiscono ad ingigantire l’esplosione dell’onirico (come nel prologo de L’âge d’or [1930] di Buñuel, dove gli scorpioni che camminano tra le rocce pronti a morire del loro stesso veleno fanno da contrappunto ai banditi che muoiono spossati senza combattere, ancor prima dell’arrivo dei “maiorchini”) o del perturbante che può partire da una rappresentazione del “reale” per arrivare ad una rappresentazione fisica dell’Irreale (nel Nosferatu [1922] di Murnau sono ricreate atmosfere inquietanti che trascendono il “reale” restando attaccate alla realtà e utilizzando anche elementi documentaristici come la pianta carnivora o il polipo trasparente, metafore rispettivamente del vampiro che succhia il sangue e del fantasma che terrorizza). La storia del cinema documentario è la storia di un incontro-scontro, di un amore-orrore, col cinema di recitazione. Non si possono tracciare frontiere, segnare divisioni. Considerare il cinema documentario più “vero” o come “la realtà colta nel suo farsi” allontanerebbe dalla possibilità, affascinante, magica, misteriosa, che è la possibilità della mente dello spettatore di immaginare. L’immaginario non è la realtà, va oltre la realtà, è qualcosa di più.
L’esperienza nel documentario di Dziga Vertov come collaboratore del cinegiornale Kinonedelja gli è utile per elaborare la sua poetica: negazione dell’attore e negazione dell’elaborazione narrativa della realtà, affermazione dei fatti. Il cine-occhio (non il cinema di finzione o il cinema verità) deve analizzare criticamente la realtà mostrandone la complessità dei significati o l’incomprensibilità dei significanti: il caotico andirivieni di immagini, situazioni, eventi, avvenimenti. Con Čelovek s Kinoapparatom [L’uomo con la macchina da presa –1929] teoria estetica e pratica del documentario si fondono per dare vita ad un’opera in cui il cinema si interroga sul suo linguaggio. La mdp entra in campo colta nel suo rapporto-comunione col mondo e con la città. Se il mondo non è riducibile al linguaggio (il cinema di finzione e il documentario non sono il “reale”) allora il linguaggio sarà un mondo. La città, gli oggetti, i passanti saranno “creati” dalla mdp per essere proiettati sullo schermo. Il cine-occhio (protesi per vedere meglio, per conoscere e capire) è entrato nel quadro, si è autorappresentato; lo spettatore è dentro e fuori lo spettacolo. Essere cineocchio significa essere un uomo con la mdp. «Io sono un occhio, dirà Vertov, Un occhio meccanico e sono in costante movimento».
Nei documentari della scuola britannica fondata da Grierson (dirige nel 1929 l’unico suo lavoro, Drifters [Pescherecci]), si deve al contrario tenere conto della complessità della vita sociale, ma soprattutto, nel caos delle immagini riprese, si deve fare ordine nella mole infinita di informazioni per salvare quelle in grado di rendere un quadro razionale e critico della realtà. Fondamentale è quindi “la messa in scena della narrazione documentaria” (M.Grande). I materiali si collegano tramite il senso fino a comporre un “significato” globale, ossia fino a dare l’idea dell’importanza della vita sociale e del lavoro. Il documentario per Grierson non riguarda la sola descrizione del “reale”, ma soprattutto la sua elaborazione creativa. La drammaticità insita nel “reale”, nel mostrare i personaggi in lotta contro gli eventi, è talmente narrativa da non richiedere la manipolazione del regista. Anche Robert Flaherty prova orrore ad utilizzare i metodi classici del cinema di finzione, quali personaggi, recitazione, montaggio, poiché le riprese devono dare il senso di un incontro casuale con la realtà. Tutto deve essere il più “naturale “ possibile. Dopo Nanook of the Nord [1922], storia della vita quotidiana di un eschimese (mostrata come se si fosse fatta da sola), la sintesi delle componenti della sua arte si ha con Man of Aran [L’uomo di Aran, 1934] dove si compenetrano insieme attenzione ai fatti, documentarismo, rappresentazione lirica della natura. La vita dura di un pescatore delle isole Aran, e la sua lotta quotidiana per la sopravvivenza, sono rese senza enfasi, con semplicità. Gli avvenimenti si susseguono senza ordine: la pesca del ragazzo e i pescatori che tornano a casa, le barche che vanno in mare per prendere uno squalo, la tempesta che minaccia di far annegare il padre. Ma questo documentarismo non è il cinegiornale d’attualità. La mdp non può garantire l’oggettività. Il cinema deve partecipare alla vita dell’uomo, deve diffondere l’autenticità delle sue azioni. Non oggettività ma lirismo. Consapevolezza quindi che la presenza della mdp modifica la realtà e il personaggio-attore deve essere cosciente della presenza della mdp. Non fiction (attore, montaggio, sceneggiatura), non cineocchio (oggetti, mondo, occhio meccanico), ma “cinema-verità” (protagonisti che interpretano se stessi, durata rappresentazione coincidente con durata realtà fenomenica).Pertanto, sin dalle sue origini, il documentario non si contrappone al film di finzione in base alla sua supposta superiorità riguardo alla rappresentazione del “reale”. Il concetto stesso di realismo è ambiguo e fuorviante. Roman Jakobson ha chiarito il concetto riferendosi alla pittura, ma il discorso potrebbe valere anche per il cinema: «Il carattere convenzionale, tradizionale della presentazione pittorica determina in larga misura il modo stesso di percepirla visualmente. A mano a mano che le tradizioni si accumulano, l’immagine pittorica diviene un ideogramma, una formula legata all’oggetto da un’associazione di contiguità: il riconoscimento è perciò immediato, ma noi non vediamo più il quadro. Il pittore innovatore deve vedere nell’oggetto una realtà che ieri non era vista e deve imporre una nuova forma alla percezione».
L’esperienza nel documentario di Dziga Vertov come collaboratore del cinegiornale Kinonedelja gli è utile per elaborare la sua poetica: negazione dell’attore e negazione dell’elaborazione narrativa della realtà, affermazione dei fatti. Il cine-occhio (non il cinema di finzione o il cinema verità) deve analizzare criticamente la realtà mostrandone la complessità dei significati o l’incomprensibilità dei significanti: il caotico andirivieni di immagini, situazioni, eventi, avvenimenti. Con Čelovek s Kinoapparatom [L’uomo con la macchina da presa –1929] teoria estetica e pratica del documentario si fondono per dare vita ad un’opera in cui il cinema si interroga sul suo linguaggio. La mdp entra in campo colta nel suo rapporto-comunione col mondo e con la città. Se il mondo non è riducibile al linguaggio (il cinema di finzione e il documentario non sono il “reale”) allora il linguaggio sarà un mondo. La città, gli oggetti, i passanti saranno “creati” dalla mdp per essere proiettati sullo schermo. Il cine-occhio (protesi per vedere meglio, per conoscere e capire) è entrato nel quadro, si è autorappresentato; lo spettatore è dentro e fuori lo spettacolo. Essere cineocchio significa essere un uomo con la mdp. «Io sono un occhio, dirà Vertov, Un occhio meccanico e sono in costante movimento».
Nei documentari della scuola britannica fondata da Grierson (dirige nel 1929 l’unico suo lavoro, Drifters [Pescherecci]), si deve al contrario tenere conto della complessità della vita sociale, ma soprattutto, nel caos delle immagini riprese, si deve fare ordine nella mole infinita di informazioni per salvare quelle in grado di rendere un quadro razionale e critico della realtà. Fondamentale è quindi “la messa in scena della narrazione documentaria” (M.Grande). I materiali si collegano tramite il senso fino a comporre un “significato” globale, ossia fino a dare l’idea dell’importanza della vita sociale e del lavoro. Il documentario per Grierson non riguarda la sola descrizione del “reale”, ma soprattutto la sua elaborazione creativa. La drammaticità insita nel “reale”, nel mostrare i personaggi in lotta contro gli eventi, è talmente narrativa da non richiedere la manipolazione del regista. Anche Robert Flaherty prova orrore ad utilizzare i metodi classici del cinema di finzione, quali personaggi, recitazione, montaggio, poiché le riprese devono dare il senso di un incontro casuale con la realtà. Tutto deve essere il più “naturale “ possibile. Dopo Nanook of the Nord [1922], storia della vita quotidiana di un eschimese (mostrata come se si fosse fatta da sola), la sintesi delle componenti della sua arte si ha con Man of Aran [L’uomo di Aran, 1934] dove si compenetrano insieme attenzione ai fatti, documentarismo, rappresentazione lirica della natura. La vita dura di un pescatore delle isole Aran, e la sua lotta quotidiana per la sopravvivenza, sono rese senza enfasi, con semplicità. Gli avvenimenti si susseguono senza ordine: la pesca del ragazzo e i pescatori che tornano a casa, le barche che vanno in mare per prendere uno squalo, la tempesta che minaccia di far annegare il padre. Ma questo documentarismo non è il cinegiornale d’attualità. La mdp non può garantire l’oggettività. Il cinema deve partecipare alla vita dell’uomo, deve diffondere l’autenticità delle sue azioni. Non oggettività ma lirismo. Consapevolezza quindi che la presenza della mdp modifica la realtà e il personaggio-attore deve essere cosciente della presenza della mdp. Non fiction (attore, montaggio, sceneggiatura), non cineocchio (oggetti, mondo, occhio meccanico), ma “cinema-verità” (protagonisti che interpretano se stessi, durata rappresentazione coincidente con durata realtà fenomenica).Pertanto, sin dalle sue origini, il documentario non si contrappone al film di finzione in base alla sua supposta superiorità riguardo alla rappresentazione del “reale”. Il concetto stesso di realismo è ambiguo e fuorviante. Roman Jakobson ha chiarito il concetto riferendosi alla pittura, ma il discorso potrebbe valere anche per il cinema: «Il carattere convenzionale, tradizionale della presentazione pittorica determina in larga misura il modo stesso di percepirla visualmente. A mano a mano che le tradizioni si accumulano, l’immagine pittorica diviene un ideogramma, una formula legata all’oggetto da un’associazione di contiguità: il riconoscimento è perciò immediato, ma noi non vediamo più il quadro. Il pittore innovatore deve vedere nell’oggetto una realtà che ieri non era vista e deve imporre una nuova forma alla percezione».
2 commenti:
grande approfondimento...l'uomo con la macchina da presa è un capolavoro...bel blog, ti linko subito...
Grazie per il tuo positivo giudizio e per avermi linkato. Ho visto il tuo interessante e originale blog. Provvedo subito a linkarti.
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