Molti anni dopo, di fronte al plotone di
esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto
pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio (1).
Film post apocalittico distopico? No grazie.
Il ghiaccio invade la visione bloccando
un mondo già immobile dove l’unico movimento (almeno per quasi tutto il film
fino a poche inquadrature dall’epilogo) è un moto perpetuo di una macchina che
trasporta l’umanità. Sembra però che stavolta il novello Noè sia un Macchinista-Dio
che giustifica il proprio potere come violenza necessaria per controllare la
popolazione. Ma non bastava mettere anticoncezionale nelle barrette del cibo?
In effetti se si rimane concentrati troppo a lungo nell’evento si rischia di
perdere il senso profondo del Sublime che anima il film dall’inizio alla fine. Snowpiercer ci prepara ad apprezzare la
magnificenza e la minaccia della natura anche se continuamente maltrattata
dagli esseri umani. I canyon gelati su cui scorre il treno, i binari sospesi
nel nulla, le valanghe, le città congelate, i porti, il mare, le fabbriche: il
mondo esterno chiede di essere osservato come visione che cresce vagone dopo
vagone, metro dopo metro percorso dal gruppo dei ribelli. Eppure l’incipit
sembra costruire un classico apocalittico con vagoni blindati, senza luce,
ciarpame e masserizie ovunque, spazio claustrofobico occupato da esseri umani deformi,
sporchi e disperati: i nuovi miserabili post-apocalittici saltati sul vagone
senza prenotazione. Perseguitati da poliziotti che arrivano per depredare e
sequestrare bambini e qualche persona capace (anche di suonare il violino), gli
emarginati iniziano il loro cammino di morte e violenza per raggiungere la testa
del treno. Lo spazio pertanto sembra oscuro (vagoni blindati senza finestre) e
rettilineo (il treno). Invece improvvisamente lo spazio si apre sul fuori (il
mondo congelato) e schiarisce all’interno con luminosità e saturazione. Oltre
ad essere metafora della storia del cinema (dal bianco e nero al colore, dalle
storie classiche rettilinee con incipit ed epilogo a quelle circolari o
aperte), il film proporne un interessante accostamento tra oscurità-bene (in
fondo nel bene e nel male gli esclusi sono brave persone provate dalla vita
dura e dalla fame ma pur sempre solidali e in grado di organizzarsi) e brillanza-male
(i vagoni di testa, apparentemente paradisiaci sono in realtà spettacoli
sublimi pertanto pervasi da dolore e disperazione eppure attraenti e capaci di
tentare indebolendo tutti coloro che provano ad occupare nuovo spazio). Là dove
nei vagoni di coda si cerca di arrangiarsi, magari unendo le proprie forze, e i
dialoghi sono più o meno da cinema classico (coerenti, logici), in quelli di
testa prende sempre più forza l’ipocrita riconoscenza a un dio salvatore e il
racconto di un falso bene trasmesso a scolaresche addomesticate da maestrine
sdolcinate e sorridenti che ricordano tanto le massaie di Edward mani di forbice. L’avvento del colore e della luce è una
falsa verità. Il bene, il futuro del mondo (del cinema forse) non è
rappresentazione di bellezza edulcorata e stereotipata come imposta per
accomodare certezze utili a mantenere certi equilibri di potere. Il cinema deve
invece percorrere anche altre strade, scavare nel sottosuolo per verificare
altri punti di vista, altre verità. Pertanto le tre coordinate del colore
(brillanza, contrasto e tonalità) non sono altro che l’epilogo di un abbaglio
capace di portare alla cecità. Lo schermo bianco (massima brillanza possibile),
come assenza di immagine ma somma di tutte le immagini (colori), non è
redenzione né tanto meno soluzione di una volontà (migliorare le proprie
condizioni di vita). Il cinema può soltanto ricordare la sua incapacità di
identificare la strada giusta (oppure nel gergo usuale: capacità di raccontare)
ma al contempo diventa carica prorompente se utilizzato come mezzo di
conoscenza (capacità di rivelare). Per far questo assume importanza la
desaturazione ossia l’abbattimento del colore nel limite estremo del bianco e
nero. L’incipit è il Paradiso già raggiunto, il covo sicuro punto di partenza
di un futuro che verrà, di un cinema che sarà. Da lì in poi le immagini
potranno solo corrompersi, il colore saturare e la chiarezza accelerare (sia
come luminosità che come esplicitazione del “male” contenuto nel mondo). Lo
spazio inoltre potrà solo mostrare l’inganno, il proprio trompe-l‘oeil, da
spazio rettilineo (il serpentone del treno) a spazio circolare (la grande curva
dei binari percorsa dallo snowpiercer), quindi uno spazio pericoloso (sparatoria
da vagone a vagone sfruttando la visibilità del mondo congelato) ed
estremamente luminoso (grandi finestre che lasciano entrare il gelo del mondo).
Abituati a vedere il pericolo di tanti film distopici celato nell’oscurità,
rimane difficile da capire per lo sguardo il terrore annidato nella luce, nel
riflesso del bianco che illumina il mondo e i vagoni di testa del treno. I
nuovi mostri sono adesso personaggi apparentemente innocui (la maestra, le
donne dal parrucchiere, la sauna, i partecipanti della festa in maschera) ma in
grado di colpire chi ingenuamente si fida delle apparenze.
1 Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine. Incipit.
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2 commenti:
anche per me il film è molto di più di un film di genere, all'inizio il discorso della signorina nei vagoni di coda è il discorso di Menenio Agrippa ai poveri scontenti a Roma, 2000 anni fa.
la lotta di classe, la cooptazione, tutte cose legate all'umanità.
@Ismaele. Hai usato un interessante e acuto paragone col discorso di Agrippa. In efffetti il discorso di Agrippa , paragonando le classi sociali all'organismo, diventa contemporaneamente un falso in quanto le classi sociali non sono l'organismo e poiché il cinema, la rappresentezaione in atto, è un falso, si potrebbe dire (con tutte le dovute cautele) che il cinema deve mettere in evidenza almeno la a-logicità di chi spesso arringa le folle, fatto ben evidenziato nel film in questione. Grazie per lo spunto.
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