7 aprile 2014

Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013): 1/2 Brillanza e desaturazione

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio (1).

Film post apocalittico distopico? No grazie. Il  ghiaccio invade la visione bloccando un mondo già immobile dove l’unico movimento (almeno per quasi tutto il film fino a poche inquadrature dall’epilogo) è un moto perpetuo di una macchina che trasporta l’umanità. Sembra però che stavolta il novello Noè sia un Macchinista-Dio che giustifica il proprio potere come violenza necessaria per controllare la popolazione. Ma non bastava mettere anticoncezionale nelle barrette del cibo? In effetti se si rimane concentrati troppo a lungo nell’evento si rischia di perdere il senso profondo del Sublime che anima il film dall’inizio alla fine. Snowpiercer ci prepara ad apprezzare la magnificenza e la minaccia della natura anche se continuamente maltrattata dagli esseri umani. I canyon gelati su cui scorre il treno, i binari sospesi nel nulla, le valanghe, le città congelate, i porti, il mare, le fabbriche: il mondo esterno chiede di essere osservato come visione che cresce vagone dopo vagone, metro dopo metro percorso dal gruppo dei ribelli. Eppure l’incipit sembra costruire un classico apocalittico con vagoni blindati, senza luce, ciarpame e masserizie ovunque, spazio claustrofobico occupato da esseri umani deformi, sporchi e disperati: i nuovi miserabili post-apocalittici saltati sul vagone senza prenotazione. Perseguitati da poliziotti che arrivano per depredare e sequestrare bambini e qualche persona capace (anche di suonare il violino), gli emarginati iniziano il loro cammino di morte e violenza per raggiungere la testa del treno. Lo spazio pertanto sembra oscuro (vagoni blindati senza finestre) e rettilineo (il treno). Invece improvvisamente lo spazio si apre sul fuori (il mondo congelato) e schiarisce all’interno con luminosità e saturazione. Oltre ad essere metafora della storia del cinema (dal bianco e nero al colore, dalle storie classiche rettilinee con incipit ed epilogo a quelle circolari o aperte), il film proporne un interessante accostamento tra oscurità-bene (in fondo nel bene e nel male gli esclusi sono brave persone provate dalla vita dura e dalla fame ma pur sempre solidali e in grado di organizzarsi) e brillanza-male (i vagoni di testa, apparentemente paradisiaci sono in realtà spettacoli sublimi pertanto pervasi da dolore e disperazione eppure attraenti e capaci di tentare indebolendo tutti coloro che provano ad occupare nuovo spazio). Là dove nei vagoni di coda si cerca di arrangiarsi, magari unendo le proprie forze, e i dialoghi sono più o meno da cinema classico (coerenti, logici), in quelli di testa prende sempre più forza l’ipocrita riconoscenza a un dio salvatore e il racconto di un falso bene trasmesso a scolaresche addomesticate da maestrine sdolcinate e sorridenti che ricordano tanto le massaie di Edward mani di forbice. L’avvento del colore e della luce è una falsa verità. Il bene, il futuro del mondo (del cinema forse) non è rappresentazione di bellezza edulcorata e stereotipata come imposta per accomodare certezze utili a mantenere certi equilibri di potere. Il cinema deve invece percorrere anche altre strade, scavare nel sottosuolo per verificare altri punti di vista, altre verità. Pertanto le tre coordinate del colore (brillanza, contrasto e tonalità) non sono altro che l’epilogo di un abbaglio capace di portare alla cecità. Lo schermo bianco (massima brillanza possibile), come assenza di immagine ma somma di tutte le immagini (colori), non è redenzione né tanto meno soluzione di una volontà (migliorare le proprie condizioni di vita). Il cinema può soltanto ricordare la sua incapacità di identificare la strada giusta (oppure nel gergo usuale: capacità di raccontare) ma al contempo diventa carica prorompente se utilizzato come mezzo di conoscenza (capacità di rivelare). Per far questo assume importanza la desaturazione ossia l’abbattimento del colore nel limite estremo del bianco e nero. L’incipit è il Paradiso già raggiunto, il covo sicuro punto di partenza di un futuro che verrà, di un cinema che sarà. Da lì in poi le immagini potranno solo corrompersi, il colore saturare e la chiarezza accelerare (sia come luminosità che come esplicitazione del “male” contenuto nel mondo). Lo spazio inoltre potrà solo mostrare l’inganno, il proprio trompe-l‘oeil, da spazio rettilineo (il serpentone del treno) a spazio circolare (la grande curva dei binari percorsa dallo snowpiercer), quindi uno spazio pericoloso (sparatoria da vagone a vagone sfruttando la visibilità del mondo congelato) ed estremamente luminoso (grandi finestre che lasciano entrare il gelo del mondo). Abituati a vedere il pericolo di tanti film distopici celato nell’oscurità, rimane difficile da capire per lo sguardo il terrore annidato nella luce, nel riflesso del bianco che illumina il mondo e i vagoni di testa del treno. I nuovi mostri sono adesso personaggi apparentemente innocui (la maestra, le donne dal parrucchiere, la sauna, i partecipanti della festa in maschera) ma in grado di colpire chi ingenuamente si fida delle apparenze.


1 Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine. Incipit.

2 commenti:

Ismaele ha detto...

anche per me il film è molto di più di un film di genere, all'inizio il discorso della signorina nei vagoni di coda è il discorso di Menenio Agrippa ai poveri scontenti a Roma, 2000 anni fa.
la lotta di classe, la cooptazione, tutte cose legate all'umanità.

Luciano ha detto...

@Ismaele. Hai usato un interessante e acuto paragone col discorso di Agrippa. In efffetti il discorso di Agrippa , paragonando le classi sociali all'organismo, diventa contemporaneamente un falso in quanto le classi sociali non sono l'organismo e poiché il cinema, la rappresentezaione in atto, è un falso, si potrebbe dire (con tutte le dovute cautele) che il cinema deve mettere in evidenza almeno la a-logicità di chi spesso arringa le folle, fatto ben evidenziato nel film in questione. Grazie per lo spunto.