Dopo l’esperienza di The
Tree of Life Malick sembra affinare
ulteriormente il suo stile riuscendo a indebolire la scorza della narrazione nell’enunciare
storie più vicine al nostro sentire quotidiano mostrandone il lato oscuro. Nel
vedere e assaporare To The Wonder ho
avuto la sensazione di essere stato preso per la mano dal regista e trasportato
direttamente fuori dal racconto. Un’esperienza visiva di notevole impatto in
cui paesaggi, volti, pro filmico e filmico, legati da un doppio filo a poche
frasi, quasi sussurrate al di fuori dagli eventi allo scopo di non formare
dialoghi, prendono il sopravvento sul plot. Eppure questo modo di procedere
permette a Malick di allontanarsi dai meri dati cronachistici innestando i
rapporti umani in un procedimento che si rifà direttamente alla poesia. L’espressività
prende il sopravvento allontanando il significato non per negarlo ma per innestarlo
direttamente nella funzione naturale delle cose. Se per Christian Metz “[…] il
cinema è un’arte a connotazione omogenea (connotazione espressiva su di una
denotazione espressiva)”(1) il tentativo di Malick si innesta in questa tipica
caratteristica della settima arte al fine di “lasciare” all’immagine il compito
di raccontare. Gli eventi pertanto non si esplicano tramite la significazione
come fattore esterno all’immagine, come convenzione (oserei dire cliché)
accettata e riconosciuta, mezzo fondante del consenso, già integrata nei valori
standard della civiltà occidentale. Ad esempio, nel racconto l’amore, il
divorzio, la fede, il viaggio devono possedere qualità per cui non sarebbe
possibile definirli altrimenti. L’incipit con i due innamorati che “danzano”
sulla plumbea ed “elastica” spiaggia di Mont Saint-Michel “aprono” alla mente ricordi
(studi, visioni, letture) di un romanticismo sottinteso in ogni storia d’amore.
Il tradimento, l’ira del tradito, cuciono nell’ordito sensazioni di amarezza o
senso di perdita con annessa percezione di gelosia in omaggio. Oppure
l’abbandono, la partenza, pescano nella situazione più angosciante del
“lasciarsi”. Ma non è così in To The
Wonder. Non interessa qui ricostruire i rapporti, la storia d’amore, di tradimento
e di abbandono o almeno non occorre importarli dall’esterno. Il racconto non
deve spiegare niente. Tutto è lasciato all’immagine sfruttando in pieno la
peculiarità del cinema per cui il senso deve essere immanente alla cosa
confondendosi alla forma (2). Il cinema deve uscire allo scoperto occupando lo
spazio lasciato alla significanza nell’affermare la propria peculiarità, ossia
la naturale espressività del mezzo per cui il cinema racconta già con la sua
stessa presenza. Come afferma Metz “L’espressività del mondo (il paesaggio, il
volto) e l’espressività dell’arte (la malinconia dell’oboe wagneriano)
obbediscono essenzialmente allo stesso meccanismo semiologico: il «senso» si
sviluppa naturalmente dall’insieme del significante, senza fare ricorso a un
codice”(3). E non a caso il film mostra paesaggi e volti come indici di eventi
già accaduti o intrinseci alla loro messa in opera. La felicità, l’amore,
il tradimento, l’ira sono presenti nelle
immagini, si accumulano sui volti, scivolano via nel montaggio che segue la
danza perenne dei personaggi e dei paesaggi. Semmai si potrebbe obiettare che
queste caratteristiche sono tipiche del cinema in generale. Non vi sono dubbi
che il montaggio unisca nel sintagma la significanza. Ma ritengo che Malick
cerchi di arrivare a un cinema che non debba ricorrere a un discorso
esplicativo pescando nella narrazione e nella diegesi lo scopo del suo agire.
Il suo cinema deve essere immanente, altamente espressivo, epurando tutto ciò
che non dovrebbe riguardarlo. Sentire con l’animo gli accadimenti non
raccontati ma intrinseci alla visione. Per fare questo ha dovuto trasformare i
dialoghi, ancora vagamente presenti in The
Tree of Life, in “messaggio incentrato su sé stesso”, veri e propri inni
alla incomunicabilità ma allo stesso tempo segni polisemici che interagiscono
con l’immagine come vecchie didascalie di film muti non per spiegare l’immagine
ma per rimescolare le carte, come pensieri di personaggi che non escono dalla
mente. Le parole dette si inseguono e si compenetrano in una babele di lingue
(inglese, francese, spagnolo, italiano). L’ordito dei dialoghi tramonta
lentamente all’orizzonte lasciando emergere il senso profondo delle cose nei
bellissimi paesaggi e nell’espressione dei volti. Volto e paesaggio: due facce
di una stessa medaglia a cui il cinema ha fatto riferimento sin dagli esordi
(4). Ritornare alle origini senza aderire a certi canoni del cinema muto nel
ritrovare la peculiarità di un cinema universale a cui non servono le lingue
per far provare emozioni allo spettatore. Vorrei citare un esempio del
procedimento seguito da Malick rifacendomi ad alcune sequenze tra le tante del
film.
In uno degli episodi centrali, quando l’amore è al tramonto,
Marina chiede a Neil se la vuole come moglie. Quindi inizia la sequenza del
supermercato in cui vediamo Neil che spinge un carrello con Marina sopra. Lei scende
dal carrello, (“Come amante?” dice a Neil) si volta e tra gli scaffali pieni di
derrate e casalinghi, nel corridoio senza clienti, si tira giù la lampo del
golf. Cambio di inquadratura: nel corridoio
Neil spinge il carrello e Marina davanti a lui continua a spogliarsi camminando
all’indietro; adesso ha il golf aperto e si abbassa le spalline (“Come
compagna?”) facendo credere di sfilarsi il top. Lui cerca di afferrarla. Altra
inquadratura: Marina danza volteggiando tra gli scaffali, prende una scatola di corn flakes e li lancia a Neil. Corre piroettando
prendendo una scopa; il suo girotondo aumenta di velocità, la steadicam segue la danza da vicino con
le scaffalature che fuggono via ai lati dello schermo come quinte di paesaggi
on the road in procinto di uscire fuori campo. Improvvisamente cambia la
sequenza: Marina apre la porta di casa ed esce in giardino di corsa (“Mi sta
uccidendo”). Neil la rincorre la riporta a casa. Primo piano della donna che
cammina per entrare in casa con travelling all’indietro. Il suo volto, quindi il
volto di Neil che rientra. Il paesaggio è nei volti della coppia: la luna di
miele è finita. Immagini, sguardi, movimento della mdp, frasi fuori campo,
piroette, girotondi. L’immagine si ingrandisce oscurando gli eventi. La crisi
matrimoniale di Neil e Marina non risponde a un percorso da psicodramma. La
fotografia affonda la psicoanalisi. In pochi secondi e tre sequenze scarse la
coppia si frantuma. In un’altra sequenza Neil e Marina sono nel suv che viaggia
lungo la borde line del paesaggio americano. Lei lo ha già tradito e nell’auto
gli rivela proprio il suo tradimento. Neil la butta fuori dall’auto e la lascia
sul bordo della strada. Il volto di Marina occupa gran parte del fotogramma,
poi lei fugge lungo la carreggiata. Ma stavolta la mdp non la insegue,
lasciandola al suo destino. E anche se Neil torna a recuperarla con l’auto (con
cambio di piano da CL a FI), nell’immagine la mdp ha deciso di lasciar scappare
la donna. Adesso la danza che ha impreziosito le sequenze del supermercato, che
si è trasformata in movimenti convulsi nella lotta di una coppia in crisi (lei
cerca di inghiottire pillole, lui cerca di impedirglielo) è cessata. Marina
corre e si muove come una danzatrice zoppa perché il movimento adesso è entrato
dentro il campo (nel supermercato invece la mdp correva con i due personaggi
piroettando e correndo insieme a loro). La strada che fugge nel fuoco
dell’infinito e contiene paesaggi sublimi per un attimo relega nella distanza il
disastro, quasi come nei paesaggi americani di Antonioni. La danza della donna per
eccitare l’uomo o che lotta con lui per rimarcare il proprio rifiuto è cessata.
I movimenti di macchina, i movimenti dei corpi, il paesaggio che si “scioglie”
ai lati o si staglia nel sublime (come la vista di Mont Saint-Michel soprattutto
dell’incipit ma anche del prologo), mostrando l’espressività di un volto, o i
volti che si illuminano o si abbuiano come paesaggi… tutto questo rappresenta
la storia. Non c’è psicodramma, non c’è un vero e proprio piano narrativo. Ci sono
le immagini e i movimenti.
(1) Christian Metz, Semiologia
del cinema, Garzanti, Milano 1989(2), p. 115
(2) Ivi, p. 114.
(3) Ib.
(4) Secondo Simmel “[…] il paesaggio assume nella pittura
l’aspetto espressivo del volto umano, raggiunge una tonalità omogenea, una Stimmung, parola intraducibile, tipica
della poesia romantica tedesca che designa un’atmosfera malinconica intrisa di
spiritualità, in cui gli oggetti, lo spazio, i luoghi assumono un volto.
Riprendendo il concetto di Stimmung,
Balázs osserva che nel cinema accade qualche cosa di simile o, meglio, il
contrario: il volto umano, ingrandito nelle sproporzioni del primo piano,
assume la stessa complessità e varietà di un paesaggio”.
Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema. Le Lettere, Firenze 1994 pp.
27-28
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6 commenti:
Splendida analisi. Da leggere e rileggere. In attesa della seconda parte :)
Grazie Chimy. Come sempre molto gentile :) A presto.
Ciao Luciano. Il film non l'ho visto e non so se lo vedrò a breve (non ho mai amato molto Malick in passato, figurati adesso), ma quando lo farò tornerò di sicuro qui a leggere i tuoi post.
P.S.: ti segnalo un interessante refuso all'inizio del tuo articolo: "Three of Life" (anziché "Tree...")! ^^
Ciao Christian! Sono molto compiaciuto di risentirti. Vedo che pubblichi sempre molto mentre per me il web sta diventando un luogo sconosciuto. E' vero, non me ne ero accorto. Interessante. In effetti: "I tre della vita" o "Il tre di vita". Mah, non saprei come tradurre in italiano. Grazie per la segnalazione, provvedo subito a correggere ;)
Il film non l'ho ancora visto, ma la tua recensione è a dir poco ottima complimenti. Sicuramente inserisco questa pellicola tra i film da vedere!
Passa da me se ti va
http://lovedlens.blogspot.it
@Monica. ti ringrazio, sei gentilissima. Scusami per il ritardo della risposta ma purtroppo frequento sempre più raramente anche il mio stesso blog. Sono passato velocemente da te e il tuo blog mi sembra molto interesasnte. Conto di tornare con più calma. A presto^^
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