Nel commentare i lungometraggi ho deciso di riportare la sinossi
pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei
cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul
sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web
e infine il mio commento attuale.
A
moi seule (Frédéric Videau, 2011)
Una ragazza siede nella sala d’attesa di una stazione
degli autobus in mezzo al nulla. In mano ha la foto di una bambina scomparsa.
E’ lei. Otto anni prima, infatti, Gaëlle era stata rapita e tenuta isolata dal
mondo. Un’esperienza traumatica con cui dovrà imparare a convivere, mentre
cerca di adattarsi a una libertà. Il film riporta lo spettatore indietro nel
tempo per farlo partecipare alla lotta per la sopravvivenza della piccola
protagonista, chiusa in una cella sotterranea senza finestre, in attesa di
vedere il suo rapitore. Con l’uomo che l’ha rapita, lei finisce per stabilire
una relazione singolare, di sottomissione e di potere, di paura e di attesa,
fino all’epilogo.
Gradevole
da seguire e accattivante. Preso nella sua interezza mi è piaciuto, ma
analizzato nelle sue sequenze profuma di cliché (ad esempio l’aguzzino in fondo
non poi così aguzzino, la ragazza che a tratti sembra innamorarsi del suo
carnefice, ecc.)
Voto
3
Un film a prima vista
interessante che analizza il rapporto tra la vittima e il suo aguzzino con
relativa Sindrome di Stoccolma. Eppure Videau rinuncia ad approfondire i
rapporti tra gli esistenti mescolando (tramite l’utilizzo di flashback) il
periodo della prigionia con quello dell’acquisita libertà. E se si sofferma a
mostrare quanto poco libera sia la ragazza anche dopo la prigionia (le
restrizioni della casa di cura), il film non decolla. Lo studio del rapporto
tra il rapitore e Gaëlle
non riesce a portarci dentro una così smisurata tragedia, limitandosi a presentare
un rapitore che vuole essere solo un padre padrone (insegna i compiti alla
“figlia” e rinuncia volontariamente a fare sesso con lei) senza che via sia
almeno l’abbrivo di un pathos o le motivazioni di un gesto simile. Mentre la
ragazza viene abbandonata a se stessa, tra il “ricordo” della prigionia e il
nuovo rapporto con madre e psicologo,
rinunciando a conoscere le sue più recondite pulsioni (come estrarre la rabbia di
Gaëlle o mostrarci il terrore
della ragazza per l’acquisita libertà), l’aguzzino evapora nel plot come una
qualsiasi comparsa: purtroppo il personaggio rimane imbrigliato sulla
superficie del film. Forse A moi seule ambiva a diventare metafora dell’artista
che non riesce a recuperare la propria libertà espressiva neppure dopo una
“prigionia” creativa (forse un romanzo o un film girato su commissione?). In
effetti recuperare la propria libertà espressiva, liberarsi dai limiti imposti
da un’economia che fagocita qualsiasi aspetto della nostra vita rimane un tabù.
Ma se sia stato davvero questo l’intento di Videau allora il film risulta ancora meno riuscito, perché Videau non ha
avuto il coraggio di affondare la lama
nel riflusso di un mercato che obbliga l’arte a sottomettersi, rinunciando a
proporre una visione autentica (ad esempio creare un doppio tra la figura del
rapitore e dello psicologo), con il legarla magari a un suo personale punto di
vista; per fare un esempio (ma questa affermazione non vuole essere una scelta
di campo): prospettare una decrescita economica riferita almeno all’arte.
Future last forever (Özcan Alper, 2011)
Sumaru sta conducendo una ricerca etnomusicale per
conto dell’Università di Istanbul. Per raccogliere le canzoni popolari
dell’Anatolia si reca a Diyarbakir, città del sud-est della Turchia, abitata
prevalentemente da curdi. Nel corso del suo viaggio ascolta anche le storie
delle donne curde che hanno perso i loro mariti e i loro figli durante la
sanguinaria tirannia ed è costretta a confrontarsi col suo passato. Il suo
compagno, partito per un remoto villaggio del Kurdistan, non è mai più tornato.
Le persone che incontra nel suo viaggio non riescono a rimarginare la sua
profonda ferita. Neanche Ahmet, col quale inizia una breve relazione, riesce a
liberarla dal passato. Il giovane non comprende cosa cerchi Sumaru in quel
desolato villaggio nella provincia di Hakkari al confine dell’Iraq, cosa del
suo passato la conduce proprio lì.
Interessante e gradevole perché (come è stato
già detto) sembra un documentario innestato in un film più tradizionale. Sono
rimasto affascinato dai suoi campi lunghi.
Voto
4
Elegia di un popolo
ferito da guerra ed eccidi resa mirabilmente tramite interviste ai veri
abitanti di un villaggio turco del Kurdistan al confine dell’Irak. Nonostante
le premesse il film non scade mai in facili messaggi politici o nell’esasperazione
del dramma, in quanto lo “sfondo” di un popolo sofferente, le sue cicatrici mai
rimarginate, diventano la degna cornice di un viaggio alla ricerca della
propria anima come dell’anima del mondo. Il paesaggio stesso diviene
(soprattutto quei campi lunghissimi sulle pianure e sulla costa dell’Anatolia)
un personaggio. Citando Béla Balázs
(per il quale vi è una corrispondenza tra volto umano e paesaggio per cui un
primo piano può racchiudere un intero mondo) direi che la sofferenza dei volti
degli uomini intervistati assume la straordinaria fotogenia dei colori e delle
forme del paesaggio anatolico. Stessa cosa accade per il volto di Sumaru, la
bellissima studentessa che intraprende il suo viaggio per raccogliere le
canzoni popolari dell’Anatolia, obbligata a fare i conti con il suo passato legato appunto a
quegli stessi luoghi. Un insieme perfetto di bellezza (i luoghi, il volto della
donna), sofferenza (gli intervistati, le fotografie sul muro), relazioni
(amore, amicizia) che concorrono a creare il pathos di questo film, la sua
elegia.
L. (Babis Makridis, 2012)
Il protagonista, un uomo di quarant’anni, è molto più
che un autista personale. Il suo lavoro è letteralmente la sua vita e la sua
macchina è molto di più che un semplice mezzo di trasporto, ci vive dentro e lì
riceve, a scadenze fisse, la sua famiglia. Il suo datore di lavoro è un ricco
narcolettico che, ovviamente, non può guidare. L’autista, che noi conosciamo
come l’uomo, gli procura del miele speciale, ma quando arriva un altro ancora
più rapido di lui, perde il lavoro e decide di cercarsi un altro mezzo di
trasporto. Il nostro eroe procede inconsapevole verso il disastro. Siamo a una
metafora della Grecia attuale?
Ottimo film con il suo linguaggio per me
innovativo da tenere in considerazione. Spero davvero che questo regista riesca
a sviluppare un modo di girare film capace ogni volta di sorprenderci.
Voto
4
Metafora della vita,
metafora del mondo, metafora delle aspettative e dei sentimenti di un uomo, L.
raccoglie e dispone luoghi deputati rivoltandoli e rovesciandoli. L’auto-casa,
il lavoro per un narcolettico, il suo licenziamento perché surclassato in
abilità da un antagonista più rapido a consegnare il miele, l’amico ucciso per
errore, la sua famiglia che incontra nei parcheggi, il miele stesso come
combustibile-cibo speciale, l’abbandono dell’auto e il suo sodalizio con un
gruppo di motociclisti, rappresentano il montaggio stesso, la capacità di
decostruire il filmico e disporlo lungo una nuova linea di luoghi deputati che
non rappresentano ognuno la propria realtà (auto, miele, orso, famiglia, ecc.)
ma la possibilità di ricomporre in nuove immagini la conoscenza. In questo
“paesaggio” decostruito si muovono le azioni umane, i loro reciproci rapporti
che si formano e deformano in continuazione impedendo al cinema di fissarli
indelebilmente. Ad esempio l’auto non è solo un mezzo di trasporto, ma una
casa, un lavoro, un’ostrica che protegge e permette di sopravvivere. Il suo
abbandono per la moto costituisce un cambiamento, una trasformazione, regola il
plot ma anche un nuovo tipo di messaggio:
la storia della vita attraversa le forme plasmandosi a sua volta.
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