Per brevità analizzerò due esempi di immagini ove lo sguardo si lascia pietrificare dalla Medusa: l’incontro tra Marianne e il nano e l’incidente simulato di Ferdinand e Marianne.
Dopo un primo piano del nano con la pistola ingrandita dalla ripresa ravvicinata, un’inquadratura mostra Marianne con un paio di forbici che apre e chiude imprimendo al braccio un movimento da destra verso sinistra. Il volto di Marianne è inquadrato nel centro dell’immagine; ai lati, appesi al muro, i due quadri di Picasso (Jacqueline coi fiori e Ritratto di Silvette sulla poltrona). Nei due quadri domina il blu, ma in Jacqueline coi fiori la parte inferiore del quadro è rossa come il maglione di Marianne. Ma se osserviamo attentamente l’inquadratura, notiamo che Marianne è intenta a tagliare il fotogramma stesso (come ha tagliato il blu del quadro di Picasso lasciando il rosso del suo maglione). In pratica sta eseguendo un montaggio all’interno dell’immagine. Il blu dei due Picasso è il dramma che la diegesi ci mostrerà o non ci mostrerà (la tortura di Pierrot da parte dei banditi soltanto udita – al suo posto Jacqueline coi fiori – e il nano morto disteso sopra un tappeto rosso). In uno dei due quadri il blu è stato però tagliato da un colpo di genio di Picasso (la parte superiore di Jacqueline è blu ma quella inferiore è rossa), mentre Marianne non solo sta affrontando il nano con le forbici (diegeticamente impossibile), ma sta soprattutto tagliando il fotogramma stesso e lo sta rimontando pittoricamente. Il sapere non si sfoglia nel sintagma successivo attraverso lo scontro tra Marianne e il nano, e (supponiamo) casuale vittoria di Marianne che riesce a spuntarla contro un revolver, ma trova la sua motivazione nel fatto che Marianne ha tagliato il sintagma successivo, obbligandoci a leggere lo scontro dentro l’immagine stessa: un taglio all’interno dell’immagine, là dove un revolver non può spuntarla contro il montaggio, perché è stato tagliato immediatamente prima. Tagliando pezzi in qua e là (come l’andare a zonzo – in qua e là - di Marianne che volteggia intorno a Ferdinand nel bosco) e incollandoli col tempo e con i “mostri” di Picasso, si è formata una chimera (il mostro accovacciato sulle spalle nello Spleen di Baudelaire si è fatto visibile). Adesso vediamo i nostri incubi (o sogni): la morte, l’amore, il tempo, la violenza (in una parola: “emozione”, come dice Fuller all’inizio del film) giustapposti in pose diverse, non immaginate come nella prospettiva quattrocentesca, ma analizzate e poi sintetizzate come nella prospettiva cubista. Marianne è una sorta di prosopopea della pittura di Renoir (l’abbiamo già vista rappresentare l’impressione dell’attimo, la spontaneità, la vita che Pierrot non riesce ad imbrigliare). Le sue vittime, sia amando che uccidendo, sono il frutto dell’impressione dell’attimo. L’attimo dopo può essere dominato da altre impressioni. Per questo Marianne è una bugiarda nel sintagma, perché solo la verità dell’immagine può essere contraddetta dalla verità opposta di un’altra immagine (e quindi nel sintagma Marianne dice di amare Ferdinand ma poi scappa in un’isola col suo amante). Nell’immagine stessa invece possiamo affrontare la potenza del falso, la sua verità. Marianne Renoir che taglia l’immagine, vestita di rosso (sangue), forse colato da Jacqueline coi fiori, è nel mezzo a due quadri blu (o quasi) di Picasso, colori che rimandano a Pierrot (non solo ai sintagmi successivi, ma anche a quelli precedenti), alla sua morte (il blu che dipingerà sul proprio volto) e al suo diario in cui cerca di definire Marianne (Amour, arm, Marianne = amare Anna) senza riuscirci. Marianne ha nel suo nome l’arma, ama e uccide, è bugiarda ma sincera (guarda in macchina quando dice che no, sì, non tradirà, sì). Questa immagine sembrerebbe un collage cubista, tagliato in “diretta” da Marianne (due quadri colori rosso e blu, forbici, Renoir). Ma c’è anche la deformazione dell’immagine (forbici in primissimo piano, collo allungato di Jacqueline), deformazione della geometria che è nell’immagine. Questa immagine mostro (formata da serie differenti: Picasso-Ferdinand-Pierrot, Marianne-Renoir, i colori, l’andare a zonzo, la serie Fuller che cita se stesso) porta nel suo grembo il prima e il dopo, ma soprattutto ci fa vedere lo scorrere all’indietro del tempo (Pierrot è già stato torturato sin dal primo fotogramma, Marianne ha già montato il film con i suoi amanti e i suoi omicidi, ha già ucciso il nano ancor prima di ucciderlo). Mentre secondo la visione classica del film il nano sarà ucciso, Pierrot sarà tradito, ecc., secondo la visione cubista-espressionista tutto è già accaduto eppure sta accadendo nell’immagine stessa: le “distruzioni” di Picasso, i suoi mostri, ritagliati e innestati nel montaggio in fieri (Marianne che taglia il fotogramma per evitare di essere uccisa), e il rosso del maglione. Una chimera. Un’irrealtà che definisce il sapere (come afferma Godard: “la libertà dello spettatore alla libertà dell’essere”) meglio della verosimiglianza (Bonnie e Clyde ripetuti all’infinito non formano il circuito ma appagano il già saputo, mentre il sapere non si fa conquistare).
Godard forma delle serie con le citazioni che scorrono lungo tutto il film. Serie che s’intersecano con altre serie, che a volte si scontrano, si stratificano, si respingono si fondono: sono materiali (come dice Amengual), residui di materiali (spezzoni di pubblicità, monconi di frasi di cartelloni pubblicitari, ecc.) che Godard assembla come gli artisti pop. «Ma Godard attinge anche alle opere d’arte e dello spirito. Senonché le riduce subito a residuati: frammenti letti male, detti male, sviliti, deteriorati, scorci presi di sghembo, riproduzioni di riproduzioni» (7). Queste serie talvolta s’intersecano fondendosi, formano aggregati, fusione di frammenti di realtà (come nella “Bottega dell’antiquario” della Pelle di Zigrino di Balzac) che sovrapposti, assemblati, incorporati, generano veri e propri mostri.
Come abbiamo visto la serie “storia dell’arte/pittura” (Picasso, Renoir, Espressionisti) e la serie “colore” (blu, rosso, giallo – morte follia sangue) si intersecano con la serie “taglio, tagliare” (le forbici di Marianne, la Galaxy che lascia la via diritta e taglia la strada per andare in mare, il cofano sbattuto sopra il corpo del benzinaio che risulta tagliato in due); si fondono impressionando la pellicola stessa, in un punto dell’immagine, per poi disperdersi, prendere altre vie, cercare altre soluzioni.
Quando Pierrot e Marianne lasciano la loro auto (la 404) nel luogo di un precedente incidente (lamiere contorte di auto e morti-manichini fusi in una composizione che ricorda White Burning car Twice (1963) di Andy Warhol) sparando sul cofano e innescando un incendio sulla composizione mostruosa, citano una serie di città in cui sarebbero potuti andare (è una serie “geografia/cartoline” che s’innesca: Chigago, Las Végas, Montecarlo, Venezia, Firenze, Atene). Questi viaggi che Marianne e Ferdinand non faranno mai, queste città che non visiteranno mai, e che avrebbero potuto visitare solo se Marianne non avesse bruciato i soldi nella valigia, sono comunque luoghi di ipotetici viaggi, sono il viaggio stesso, perché l’avventura non comincia quando arriviamo sulla spiaggia, ma già nel momento in cui si compra il biglietto del treno per andare su quella spiaggia (8). Il viaggio è anche pericolo, è un rischio, può finire con un incidente. E l’incidente può anche solo essere nominato (nel cinema classico può essere non mostrato con un’abile ellissi al momento giusto), si può mostrarne solo l’epilogo (la parte finale dell’incidente) o la scena finale (il risultato finale dell’incidente: la macchina deformata, le lamiere contorte, forse anche i morti opportunamente coperti o il volto sanguinante della vittima, ecc.). Però in questa immagine l’incidente è posto all’inizio del viaggio. Vediamo un’auto incidentata con due morti-manichini, che ricorda i crash test delle case automobilistiche. Vediamo Marianne che prende la mira, spara sulla 404 (i nostri eroi dicono: “simuleremo un incidente”); vediamo il fuoco che inonda la 404, lo spezzone di viadotto con le lamiere contorte delle auto del precedente incidente. Infine udiamo le voci off di Ferdinand e Marianne che dicono: “Capitolo Ottavo. Una stagione all’inferno”. Inizia pertanto, come nella raccolta di poesie in prosa di Jean-Arthur Rimbaud, il viaggio all’inferno, una discesa entro se stessi, che comporta il pericolo del dissolvimento completo della propria personalità, la frantumazione della stessa psiche umana. Non a caso mentre i viaggi ipotetici di Marianne sono proiettati verso città moderne (Las Vegas, Montecarlo) quelli di Ferdinand sono diretti alle città-arte (Firenze, Venezia, Atene). Ognuno quindi alla ricerca del proprio inferno. Una serie città moderna, degli affari, dei casinò (giochi, grattacieli, palazzi di vetro, altitudine) si allinea ad una serie città-arte (classicità, rinascimento, illuminismo). Le due serie sono mentali, ipotetiche (ah, se avessero avuto i soldi!), ma solo nel sintagma dato che nel prosieguo del film questi viaggi non avvengono. Avvengono invece nell’immagine stessa, nel momento stesso in cui i nostri due eroi si allontanano all’orizzonte, mentre il troncone di viadotto brucia (la fine, incidente finale di tanti film-tragedia, è qui l’inizio); avvengono quando la discesa agli inferi ha luogo. Ciò che hanno detto: soldi, città, moderno, arte: un percorso insomma di esperienze, ha luogo. Tutto ha avuto luogo, la creatura si è già formata nell’immagine ove confluiscono e si dipanano i fili di mille viaggi (come arrivo o come partenza – vedi i due manichini giunti al loro porto e i nostri colti in fieri, ancora fiduciosi nel futuro dei mari del Sud), ove iniziano (ma anche l’inizio qui ha il sapore dell’eternità ove niente è mai iniziato né mai terminato) questi viaggi mentali. Ferdinand-Pierrot (Dr.Jekyll-Mr.Hyde, tanto per ricordarci di Robert Louis Stevenson citato nel film) e l’arma-amante Renoir Impressione-Vita-Morte (insomma Marianne) si annegano nei loro corpi, abbandonati nel fuori campo, citando Rimbaud. In questo allontanarsi vediamo il tempo ingigantirsi come nelle poesie-prosa di Una stagione all’inferno, ove Rimbaud descrisse passato, presente, futuro, omettendo ogni collegamento temporale. L’eternità dell’attimo ci viene mostrata come alla fine del film, quando le voci off di Marianne e Ferdinand (non le voci dei corpi, ma dei loro spiriti) declamano ancora Rimbaud: «È ritrovata!/ Che? l’eternità./ È il mare che si fonde/ Con il cielo» (9). Ed è in questa fusione di città, incidenti di percorso, morte, modernità, arte-pop, colori, in questo groviglio di citazioni, (mare e cielo uniti non sono più solo mare o solo cielo) che le mostruosità tentano di paralizzare lo spettro del sintagma, nel non semplice tentativo di fare esplodere l’analogia, “luogo” ove «[…] si raccolgono le ceneri del senso […], gli eccessi dell’immaginazione […], la malinconia per la fine del tempo poetico e il sogno d’una mutazione» (10).
(7) B. AMENGUAL, Jean-Luc Godard, «Etudes Cinématographiques», 1967, 57-61.
(8) J.L.GODARD, Il cinema è il cinema (1968), Milano, Garzanti, 1981, p. 241.
(9) A. RIMBAUD, Una stagione all’inferno (1873) in Opere, a cura di Ivos Margoni, Milano, Feltrinelli, 1975(4), p.231.
(10) A. PRETE, Il demone dell’analogia, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 10.
(*) Luciano Orlandini, Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, in Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, Università Firenze, Anno II, 2001, pp. 141-150.
3 commenti:
Ho letto la tua analisi tutta in una volta. Che dire? Complimenti vivissimi, è sempre un enorme piacere e uno straordinario stimolo leggerti. Complimenti davvero.
Come sempre gentilissimo Chimy. Ti ringrazio per avere avuto la pazienza di leggere questa analisi in effetti un po' "lunga".
^^
A presto.
Luciano
Sono anni che non commentavo!
Vista l'ora tarda mi limito ad associarmi ai complimenti, davvero eccellente questa analisi, come al solito!
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