28 settembre 2011

Source Code (Duncan Jones, 2011)


I binari “raggiunti” dall’alto dopo un volo sopra le torri di una Chicago asettica fino alla periferia dove un treno di pendolari si sta avvicinando alla stazione sono una via obbligata su cui scorre inesorabile il futuro degli ignari passeggeri. La brana (1) monodimensionale (il convoglio, visto dalla distanza aerea che lascia sotto di sé torri alte oltre quattrocento metri, sembra non possedere le tre dimensioni) riduce il connubio treno-binari a una pellicola che scorre negli ingranaggi di un proiettore. Una regola impone la reiterazione dei soliti interminabili otto minuti (metafora della pellicola che riporta alla vista lo stesso identico film visto diversamente ogni volta?). Lo spazio del film si curva e si allinea rovesciando i presupposti logici con cui viene comunemente misurato. Lo spazio naturalistico di un treno in viaggio verso la stazione di Chicago diventa un’icona mentale reiterata in grado di perdere le proprie coordinate geometriche. Lo spazio è come un filamento distante dal bulk pluridimensionale dell’esterno, luogo che non è neppure possibile immaginare. Tutto qui sembra irreale e la sua resistenza alla crudeltà chirurgica dello sguardo è possibile per il fatto che il thriller possiede anche lo status di opera fantascientifica. Considerata la preponderanza del genere è possibile accettare l’irrealtà spaziale ridotta a mera rivoluzione lineare, nel senso che nella brana monodimensionale la realtà è più semplice da manipolare, più comprensibile. Il tempo è iterativo e non può che sfociare in un epilogo “irrealizzato”. Mentre sui binari il mondo naturale si sviluppa in una dimensione impossibile e fantastica, nel fuori (il presupposto mondo reale) ossia nel laboratorio del capitano dell'Air Force Colleen Goodwin, la realtà claustrofobica ha bisogno di un’immagine falsificata per connettere Colter Stevens al terminale del laboratorio. La mente dell’elicotterista ha bisogno di un’immagine ritenuta in un primo momento più sostanziale e realizzabile delle sequenze che si svolgono sul treno. In altri termini la capsula o l’ambiente che Colter ha ricreato mentalmente per sopportare il suo status di uomo cavia da laboratorio è supposto più reale del mondo percorso dal treno. In un primo momento lo spazio arrotolato su se stesso ci viene presentato come più concreto di quello conosciuto nell’incipit per poi risultare nell’epilogo uno spazio contraffatto creato dalla mente dell’eroe confinato in un ambito ancora più terrorizzante: il “contenitore” della sede militare che cela l’ulteriore realtà. Pertanto non sappiamo quale sia veramente il “mondo reale”, posto il fatto che nell’epilogo la realtà (alternativa) rientra dalla finestra coincidendo, dopo un frame stop in movimento (2), con quella dell’incipit, ovviamente non senza un tributo dovuto alle esigenze dell’happy end. Ma riflettendo non c’è happy end, non c’è realtà. Lo spazio si forma e si deforma in continuazione e le differenze tra spazio mentale e spazio reale si assottigliano. Dall’alto della nostra brana tridimensionale non conosciamo cosa ci aspetta al di là, nel bulk pluridimensionale. Il cinema ci incanta e ci illude, ma ci aiuta a comprendere la rarefazione dei punti di vista, l’assenza di un nocciolo duro su cui sostare. La pellicola si svolge così come deve e i vari aggiustamenti (i cambiamenti che nonostante tutto Colter riesce a introdurre ogni volta nei suoi otto minuti) corrispondono al naturale procedimento di un’opera in fieri che cambia direzione ogni otto minuti, la cui sceneggiatura viene via via rimaneggiata dal regista davanti ai vari ostacoli che potrebbero impedire al film di giungere in porto. L’epilogo d’altronde è già sin dall’incipit nella mente di Colter (la sfera) a indicare appunto che il lungometraggio è stato comunque girato e che noi in fondo vediamo solo il suo passato. Volenti o nolenti il percorso monodimensionale è una proiezione dei nostri sogni. Colter vuole soltanto vivere un’altra vita proprio come noi spettatori quando ci identifichiamo in un personaggio, nostro alter ego di un universo parallelo deformato come gli oggetti riflessi dalla sfera del Millenium Park.

(1) “In un mondo a più dimensioni, le brane sono i confini di tutto lo spazio a più dimensioni, il volume pluridimensionale noto nella comunità scientifica come «bulk». […] Il bulk di conseguenza è massiccio, laddove, a confronto la brana è piatta (in certe dimensioni), come un’ostia”. Lisa Randall, Passaggi curvi. I misteri delle dimensioni nascoste dell’Universo, Il saggiatore, Milano, 2006, p.67.
(2) Il frame stopo dell’epilogo non è un vero e proprio frame stop perché l’immobilità dei personaggi e di tutto un universo permette sempre il movimento della macchina da presa. Definirei la sequenza come una carrellata all’interno di un immobile (né vento né oggetti o animali che si muovono al suo interno) “paesaggio antropico”.

2 commenti:

recenso - Recensioni à Go Go ha detto...

E' un o' che non passo ma sono sempre molto belle le tue recensioni, ma come mai nessuno ha commentato questa? Sarà colpa della brana? :X
Scherzo, ho studiato fisica e mi fa piacere trovare termini come questi e il film ovviamente si presta a molteplici interpretazioni come la teoria dei molti mondi.
Venendo al film: l'ho trovato affascinante nel suo genere anche se inferiore a Moon, ma una bella novità non proprio scontata :)
Jake Gilleenhalla (ma come cavolo si scriverà quel cognome?) piacione
Buona giornata :)

Luciano ha detto...

@Recenso. Anch'io purtroppo non passo da molto sul tuo blog e me ne scuso. Devo rimediare al più presto. Vero, vero, le brane creano solo problemi ;) Be' se hai studiato fisica avrai sicuramente sorriso nel vedere accostati termini scientifici in una recensione di film. Anche per me il film è inferiore a Moon ma comunque molto interessante. Buona giornata anche a te^^