19 settembre 2010

Lebanon (Samuel Maoz, 2009)

Il mondo esterno visto attraverso il mirino di un carro armato può essere qualsiasi cosa: una città rasa al suolo dall'aviazione israeliana, con le rovine, i morti, ma anche con i poster attaccati ai pochi muri non crollati che una volta ospitavano sale arredate, cucine, camere. I poster mostrano la Torre Eiffel, il Big Ben ed anche, immagine emblematica, il World Trade Center di New York che all'epoca era ancora in piedi. La realtà, vista dalla distanza di un mirino (anche se vicina), continuamente "interrotta" da immagini del mondo occidentale, si fa amorfa, si mescola, diventa qualcosa di impalpabile, etereo, che non ha più valore. L'unica realtà tangibile, consistente, si trova all'interno del carro, si sviluppa nell'umidità dell'acciaio delle pareti, al di sopra della pozza d'acqua che ricopre la base del mezzo e sui volti sempre più sporchi e sofferenti dei soldati. Ogni tanto il mondo di fuori irrompe con violenza e forza dall'apertura del portello della torretta del carro con l'entrata di un ufficiale, di un prigioniero siriano, un soldato israeliano ucciso, un falangista cristiano loro alleato: spezzoni di reale trasferitosi dal "mondo" esterno visto dall'interno attraverso il mirino, emblemi del fuori che sorgono nel dentro come incarnazione di un'inquadratura. La realtà in questo modo mostra la sua ineluttabile cogenza, la pertinenza del mondo-ambiente, la sua forza cruda, che deve essere utilizzabile anche al di qua del mirino poiché una coscienza precisa del mondo ci appartiene anche quando non ne siamo consapevoli (1). In questo modo la distruzione relegata nel fuori, la morte, le torture, la disperazione, non sono uno spettacolo distante e angosciante, anche se a volte possono sembrarlo. La distruzione mostrata dallo schermo, trasportata nell'etere fin nelle nostre case, non è percepita come tale; non per questo viene negata ma, essendo solo una proiezione, un riflesso, viene spesso rimossa e/o allontanata. Nel carro invece non è possibile perché il sangue (il cadavere del soldato), la politica con le sue ambiguità e perversioni (il falangista), il potere (l'ufficiale israeliano), il nemico (il prigioniero siriano) si mostrano in tutta la concretezza, il simbolo s'incarna e si fa tangibile, verificabile. Il carro non è solo ferraglia che serve a uccidere e a proteggere, è anche una sorta di ossimoro. Il metasemema si forma dalla compenetrazione di due forze apparentemente opposte: ferocia all'esterno, ossia capacità del mezzo di portare morte e distruzione (i palestinesi uccisi dalle raffiche), dolore e sofferenza (il trasportatore di polli e la moglie che ha appena perso il marito); protezione all'interno della tana per i soldati che ci vivono, sperando che l'operazione finisca il prima possibile. Il carro armato è come una fiera in azione che aggredisce ma anche rassicura almeno noi spettatori con l'apparente immunità degli "eroi" e con la forza distruttiva del mezzo. Contribuisce a sottolineare questa "doppia personalità" l'estrazione di una realtà vista come riflessa da uno specchio e pertanto non percepita in tutta la sua drammaticità: in fondo la distruttività del mezzo è come tenuta a distanza, nascosta dal mirino, come una bomba al fosforo camuffatasi da fumogeno. Il "ritorno" al campo di girasole e il momento in cui il soldato, illuminato dal sole, appare sulla torretta, non rappresenta il classico finale di un film di guerra. Il nemico sembra assente, il paesaggio sembra un momento di riposo, una pausa bucolica prima di altri tragici fatti; la guerra non è finita: solo tre mesi dopo la prima guerra libanese (giugno 1982) avvenne il massacro di Sabra e Shatila compiuto dai Cristiani falangisti con la connivenza dei comandi militari della forza d'invasione in Libano che non intervennero per evitare la carneficina. La guerra non finirà mai perché non assistiamo al ritorno del soldato nella "pace" della famiglia in trepida attesa. Rimane soltanto l'immobilità della natura, impotenti girasoli mossi dal vento che accolgono loro malgrado la ferraglia di un carro e i loro uomini persi, incapaci di determinare un cambiamento.
(1) cfr. Heidegger, "Essere e tempo"

4 commenti:

Giuseppe(eraservague) ha detto...

Mi è piaciuta la tua analisi, sono molto curioso di vedere Lebanon che ancora, ahimè, non ho visto mi incuriosisce molto quest'idea di stare costantemente dentro un carro armato, potrebbe porre nuove questione tra schermo e spettatore.

a presto

Luciano ha detto...

@Giuseppe. In effetti un film molto interessante specialmente se riusciamo ad accantonare le implicazioni politiche (punto di vista dell’invasore). Il mirino come schermo interattivo (vedi ma anche spari) è senz’altro un’ottima idea.

Chimy ha detto...

Credo sia un film linguisticamente davvero importante. Il regista (all'esordio in un film di finzione) è davvero rigoroso nel rispettare l'idea di cinema che sta alla base del film stesso: un Leone d'oro meritato e una gran voglia di rivederlo da parte mia :)

Un caro saluto

Luciano ha detto...

@Chimy. Senza dubbio un ottimo film e di grande rilevanza il modo di concepire la visione. L'ho già visto due volte e mi pento di non avere ampliato il post magari pubblicando una seconda parte.

Un caro saluto