1 maggio 2013

Cosmopolis (David Cronenberg, 2012) 4/4: Uscire dal romanzo



Molti  critici e cinefili hanno scritto che la sceneggiatura è quasi una fotocopia del romanzo. Questo è innegabile. Basta leggere il capolavoro postmoderno di DeLillo per rendersene conto. Eppure questa “quasi coincidenza” tra sceneggiatura del film e romanzo si scioglie e si perde nei flutti del particolare via via che il film “scorre” lungo il suo asse, via via che la trama del romanzo si dipana verso altri lidi. Il risultato, l’epilogo, pare essere lo stesso, ma il senso profondo del plot non segue le scelte di DeLillo. Cronenberg preferisce un'immagine allineata a rimarcare l’uscita dai suoi precedenti film, nel meditare come i suoi “mostri fisici” (vedi ad esempio le opere dell’esordio come Videodrome e in primis eXistenZ) stiano lentamente uscendo dalla metafora per affermarsi come “immagine di mondo” ossia parametro di paragone diretto con l’inesplicabile sofferenza dei tempi moderni. Per questo sceglie l’astrazione pura, la deformazione del reale che diventa essa stessa immagine di mondo. L’angoscia di una New York in preda al mercato di una finanza ctonia e onnisciente che segue vie imperscrutabili (paragonabile a un disegno di Dio negato alla comprensibilità umana) viene evidenziata come apparenza amorfa astratta dal mondo, per cui nella figura di Eric “imprigionato” nella sua Limousine (ai lati dei quali scorrono come all’esterno di un tapis roulant i suoni, le storie, le violenze, i matrimoni, i funerali, le proteste di una distante New York più mentale che reale ma per questo dannatamente vera) cresce il senso di un’umanità al tramonto incapace di realizzare la propria intima essenza, persa nei flutti di un’altra creazione, una sorta di escrescenza amorfa, un feto mostruoso che lievita nel suo grembo (qui allineandosi al suo precedente cinema): l’obbedienza al demone di una crescita perenne (consumi, egocentrismi, pil,  ecc.) dissimulato come bisogno di felicità, che distrugge vite e annienta speranze, capace di trasformare un impiegato moderno (Benno) in vendicatore solitario. La pittura di Cronenberg nel film si allinea pertanto a quella di Rothko al fine di proseguire nel lungo percorso di ricerca di una conoscenza che per Cronenberg potrebbe portare all’affermazione di un cinema pregno di espressioni linguistiche innovative, immagini, piani, sequenze disadorne, uscite dalla metafora in cui la scrittura esce allo scoperto come dominante ed essa stessa narrazione. Il romanzo al contrario persegue altri obiettivi. Il denaro con cui acquistare la Cappella Rothko, al fine di permettere ad Eric di contemplare nell’intimità un opera d’arte d’incommensurabile valore estetico, non è di alcuna utilità, risulta superfluo, inservibile, moneta impalpabile legata a bit che assommano cifre in un parossismo autoreferenziale per cui spostare ingenti somme e bruciarle è un gesto banale come mingere o bere un caffè al banco. Questa vacuità quotidiana, questo gioco virtuale (bruciare soldi in borsa) si concretizza quando Eric decide di spogliarsi per unirsi a un gruppo di trecento persone nude sdraiate nella strada:

Naturalmente c’era un contesto. Qualcuno stava girando un film. Ma quella era solo una cornice di riferimento. I corpi erano crude realtà, nudi sulla strada. […] Si sdraiò in mezzo a loro. Sentì le variazioni di spessore dei ringrossi di gomma da masticare compressi da decenni di traffico. Annusò le esalazioni del terreno, le perdite d’olio e le strisciate di pneumatici, estati di asfalto rovente. […] Il suo corpo si sentiva stupido in quel luogo, una schiuma perlacea di grasso animale dentro uno scarico industriale. […] La ripresa dal dolly cominciò, con la telecamera che si abbassava lentamente, ed Eric chiuse gli occhi. Adesso che era cieco in mezzo a loro vide i corpi ammassati come li vedeva la telecamera, freddamente. Stavano fingendo di essere nudi o erano nudi davvero? C’erano molte sfumature di carnagione, ma lui li vedeva in bianco e nero e non sapeva perché. Forse una scena come quella necessitava di una tetra monocromia (2)

Nel romanzo l’abbandono di Rothko avviene lentamente ma avviene. Da osservatore incapsulato nella sua limousine Eric diventa personaggio. Non potendo contemplare la cappella Rothko, non potendo capire il motivo per cui lo yen non vuole scendere, decide di entrare (partecipando come comparsa nuda in un film) in una sorta di quadro di Tunik. Adesso sopravvive nel fluire immemore dello sguardo, sta scomparendo nei meandri enigmatici della visione. Non potendo comprendere il caos (una New York contemporanea che rappresenta il mondo intero), non potendo, nonostante i suoi soldi, percepire il senso profondo dell’arte, decide di diventare il personaggio che effettivamente è per il lettore del romanzo di DeLillo. Eric è un’istanza narrativa che prende coscienza della propria essenza crescendo nella mente del lettore come sensazione di un potere che decade nel nulla. Così ad esempio è emblematico il momento del funerale del rapper quando risuona la sua musica con gli adattamenti vocali dell’antica musica sufi e la folla comincia a partecipare, lasciandosi andare all’estasi e all’esaltazione:

La sua voce era sempre più incalzante, in urdu, poi in inglese indistinto, ed era trafitta dalle grida acute di un membro femminile del coro. C’era estasi in tutto questo, un’intensa esaltazione […] oltre il limite, l’esaurirsi di ogni significato fino a lasciare solo un’eloquenza carismatica, parole che crescevano una sopra l’altra, senza percussioni né battimani né le grida impostate della donna. (3)

I corpi nudi, visti ad occhi chiusi in un campo lungo di un’immagine in bianco e nero da Eric, tendono a formare una qualcosa di diverso, come il tentativo ineludibile di conoscere il senso della follia di un mondo che galleggia nel caos economico di una finanza folle e astratta attraverso il riconoscimento della perdita di ogni significato. Lo spazio pertanto da mentale (una New York vista dal “dentro” – ossia il punto di vista cinematografico di Eric) diviene istanza esterna, una nuda concretezza (odore dell’asfalto, calore dei corpi) riempita da una nudità che inonda e fonde corpi in un amalgama indefinito, una macchia di colori e sfumature cromatiche. La differenza tra Eric e Benno è già stata superata; la materia di carne incorpora lo psicodramma del futuro assassino e del candidato vittima poiché nella nudità diffusa e amalgamata sull’asfalto non esistono differenze sociali. La nudità è una libertà latente che non siamo in grado di esprimere, di proiettare nel mondo, conservata nel senso di sicurezza offertoci dall’intimità di un momento o di un amplesso. DeLillo vuole catapultare l’uomo nell’estasi della propria debolezza, lanciarlo come personaggio di un paesaggio, colore e odore di una visione. Mentre per Cronenberg il percorso deve ancora essere delineato. Saprà il nostro definire una nuova forma di carne, né metaforica (il pensiero di una nudità) né deformante (come mostrato nei suoi film degli esordi), ma efficiente, ossia amalgamata col paesaggio antropico, post industriale, ante decrescita, capace di ospitare la carne come oggetto della visione, lo spettatore come sguardo scrutato?

(1) Don DeLillo, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2005, pp.148-151.
(2) Ivi  p. 116.

2 commenti:

Ismaele ha detto...

adesso ne ho scritto:

http://markx7.blogspot.it/2013/05/cosmopolis-david-cronenberg.html


ciao!

Luciano ha detto...

@Ismaele. Ho letto il tuo interessante post e le tue preziose segnalazioni di altri che ne hanno scritto. Grazie.