Ben
Affleck sa benissimo che per conoscere, ricordare, assorbire il “clima” di
un’epoca tanto criticata ma poco analizzata sarebbe meglio vedere film coevi
(anche quelli in costume). E infatti gestisce l’opera come rappresentazione del
mondo contemporaneo, un 2012 afflitto da una crisi di cui non se ne vede
termine che ripropone la stessa crisi del 1980 (la pericolosa deriva nucleare
dell’Iran). L’operazione Canadian Caper, che nella realtà ha visto un maggiore coinvolgimento
del Canada, viene mostrata tramite un modo di girare che in alcune sequenze
ricorda il reportage, in quanto i rapporti interpersonali tra i vari personaggi
sono tenuti a distanza lasciando spazio alla Storia come principale
protagonista della pellicola. Ma è una Storia fittizia ferma nel raccontare
soprattutto il mondo attuale e pertanto ancorata alla percezione distante e
imprecisa che l’Occidente ha della complessa realtà iraniana. In effetti le
masse popolari del film sono colte come un pericolo (vedi la pressione della
folla che prima preme sul cancello dell’ambasciata e poi imperversa nei locali
diplomatici come un’ondata incontenibile, oppure la folla che blocca per un
attimo il furgone con i fuggitivi o
quella del bazar che ostacola gli stessi per una foto scattata con una polaroid)
senza che Argo approfondisca la
ricchezza e la complessità di un paese agli albori del khomeinismo (se non nel
mostrare alcuni brevi sequenze di cittadini vittime della violenza dei Pasdaran).
D’altronde Argo, nel riproporre un
evento doloroso, si distingue per la riflessione sull’importanza dell’immagine
come rappresentazione dell’immaginario collettivo. L’assalto all’ambasciata rimane
impresso nella mente come una fotografia, nel senso che, pur non potendo
rappresentare tutti i rivoli di una complessa situazione diplomatica e
militare, l’immagine si stabilizza nella coscienza come simbolo di un evento. La
parziale scelta del reportage (con movimenti di macchina che ricordano a tratti
Dogma) è una scelta fatta per non cadere nella retorica del patriottismo
americano, del manicheismo di certo cinema di guerra e della “riscossa” come
sentimento liberatorio e appagante . L’aspetto più interessante del film si
riscontra nello stratagemma usato per far uscire i sei diplomatici dall’Iran: il
cinema, la fiction intesa come mezzo d’inganno sia nel suo prodotto finito (la
pellicola da riversare sul telo bianco di una sala) che nella sua fase iniziale
(la ricerca delle location); la sci-fi, infine, utilizzata come presupposto per
giustificare l’esotismo del paese mediorientale: esotismo della scenografia (i
paesaggi desertici per ambientare il film Argo)
ed esotismo inteso come distanza delle ideologie. Queste diversità, e qui
secondo me sta il grande merito di Affleck, si allineano nell’epilogo, quando i
fuggitivi mostrano ai pasdaran la story board e si soffermano nel narrare gli
eventi del film, omologando in tal modo i guardiani della rivoluzione a loro
stessi (i diplomatici americani). Il fumetto come distrazione e il racconto
come inganno riescono a indebolire la profonda diffidenza dei soldati nei
confronti degli occidentali. Anzi la story board prende il sopravvento, il film
di fantascienza si sviluppa sotto i nostri occhi. Argo prende forma e si pone su tre livelli. Il primo è l’evento, la
disavventura dei diplomatici, i fatti così come sono stati tramandati dalla
Storia (per quel che ci è dato sapere essendo stati resi pubblici da pochi
anni); il secondo livello è la trama di Argo, l’avventura, il film nel film,
luogo in cui i personaggi recitano di essere una troupe illudendoci di non
esserlo (sono diplomatici) pur essendolo veramente (sono attori); il terzo livello è più complesso, sfocia nel
mito. Argo è la nave comandata da Giasone con il seguito dei suoi Argonauti in
rotta verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro, per cui è indispensabile
(per rendere interessante e diegeticamente plausibile la narrazione) il
superamento di numerosi ostacoli posti durante il percorso degli eroi. Il
racconto ha bisogno dell’eroe e degli ostacoli, dell’avventura, ma il racconto
è anche il surrogato di un mito, la manifestazione di un presentimento, la
scoperta del fatto che stiamo vivendo da sempre all’interno di una storia da
cui non possiamo uscire. Il viaggio, il percorso degli argonauti dalla Grecia
alla Colchide e ritorno, è l’avventura, in quanto non contano l’arrivo e la
presa del vello d’oro; importa il viaggio di Giasone con i suoi marinai, i
pericoli, gli ostacoli, Medea, gli aiutanti, il racconto stesso. Argo è un film sul racconto, timidamente
inteso a mostrare la nascita, l’idea primordiale del film (produttore
esecutivo, produttore, sceneggiatore, regista, ecc.). Nell’impossibilità di
ricostruire fedelmente gli eventi, così come sono accaduti, tenta di riformare
il ricordo adeguandolo ai telegiornali d’epoca, alle folle viste in tv. Il
cinema irrompe in questo mondo mostrando la contemporaneità di una sci-fi che
andava per la maggiore (Star Wars),
rapportandola alla drammatica fuga dei sei diplomatici. Ma Argo, oltre al racconto (Le
Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio), è anche un atto di fede come
di riconoscimento celato (nel senso di conoscersi ancora senza farlo sapere). Sin
dall’incipit sappiamo che in un primo momento i sei diplomatici rifugiati
nell’ambasciata canadese non si fidano di Tony Mendez, mentre la loro stima
cresce con il dipanarsi dell’intreccio esplodendo del tutto nell’epilogo nel
classico stile da happy end. Argo è anche
il cane di Ulisse che ha atteso per venti lunghi anni il ritorno del padrone solo
per rivederlo una sola, ultima volta. Ulisse, travestito da mendicante, per non
farsi scoprire dai Proci, deve fingere di non riconoscere il suo amato cane
ormai morente: «Com'egli vide il suo
signor più presso, / E benché tra que' cenci, il riconobbe, / Squassò la coda
festeggiando, ed ambe / Le orecchie, che drizzate avea da prima, / Cader
lasciò: ma incontro al suo signore / Muover, siccome un dì, gli fu disdetto. / Ulisse,
riguardatolo, s'asterse / Con man furtiva dalla guancia il pianto, / […] / Ed
Argo, il fido can, poscia che visto / Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse, / Gli
occhi nel sonno della morte chiuse». (1). Il mito fuoriesce dalla narrazione
indicando il continuo ritorno di connotazioni semantiche ormai esaurite, eppure
sempre di facile presa per suscitare stereotipate consolazioni appaganti. Forzare
questi costrutti consumati dall’abitudine con richiami al mito e all’epica,
ricordando pertanto che “stasera” non va in scena la Storia ma un surrogato di
Storia percepito da un pubblico diegeticamente abituato a sostenere sensazioni
e sentimenti preconfezionati, contribuisce a dare qualità a un film purtroppo
non privo di sequenze deboli e difficilmente recuperabili (la governante del
Console canadese che si salva oltrepassando il confine con l’Iraq, il decollo
dell’aereo seguito dalle jeep dei Pasdaran, un uomo ucciso dai pasdaran nel
cortile, i servizi segreti che d’improvviso non voglio più aiutare Mendez, ad
esempio).
(1)
Omero, Odissea, libro XVII (vv
290-329) traduzione di Ippolito Pindemonte
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2 commenti:
Interessantissima recensione, soprattutto per le argute ed auliche citazioni!!
Il film a me era piaciuto molto, uno dei migliori dell'anno e l'ennesima conferma della bravura dell'Affleck regista.
@Grazie Babol. Il tuo commento mi lusinga molto. Senza dubbio un buon film che conferma le grandi qualità di Affleck anche se per me non è ai livelli degli altri due. Comunque si tratta sempre di cinema che merita di essere visto.
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