13 giugno 2009

INLAND EMPIRE. Oltre il postmoderno? (2/6)

INLAND EMPIRE è un film sulla narrazione, racconta l’atto del raccontare, sublima il rapporto tra la “storia” e l’atto del guardare. Non è un film “astratto” o un film che predilige la deissi a discapito della diegesi. La stessa classica contrapposizione diegetico vs iconico (Chateau, 1983) viene messa in crisi, o meglio, viene considerata come un mezzo utile a mettere in atto un procedimento; l’importante è misurare il livello qualitativo del meccanismo, condurre la creazione stessa del film nell’impero della mente (1). È un modo come un altro di raccontare. Non si tratta di delegittimare il cinema più o meno “classicheggiante” o un cinema più “intelligibile”, ma si tratta di portare avanti un progetto narrativo alternativo per decostruire, disconnettere l’euforia del postmoderno. Pur rimanendo all’interno del sistema (cosa oggi non è postmoderno?) vi è il tentativo di ristrutturare l’estetica postmoderna per via di una inquietudine che non pare colmata/calmata dall’approccio contemporaneo alla visione di un film. In altri termini l’estetica postmoderna (citazione, intertestualità, rifacimento, ironia, scomparsa del tempo e numero infinito di direzioni spazio temporali) affermatasi in questi ultimi venti anni, questo impasto di citazioni, un pastiche formato da frammenti, pezzi sparsi di altri lavori, pur nella sua esaltante, appassionante, capacità di trascinare lo spettatore nel gioco, col tempo rischia di dar vita ad una nuova norma, un inamovibile locus terribilis della mente che potrebbe presentare (e per certi film sta accadendo) il rischio di determinare un pubblico passivo. L’estetica del remake (Bernardi, 2007), la nuova moda della iper-citazione (intesa ormai come gioco e pertanto nuovo status visivo), questo nuovo sapere (ma che sempre più spesso rischia di essere una nuova routine), queste cause concomitanti che stanno sempre più caratterizzando il cinema degli ultimi venti anni, riducono le possibilità del testo, annullando la dialettica testo-spettatore, trasformando lo spettatore in soggetto passivo o meglio post-passivo, nel senso che mentre nel cinema classico si rischiava di avere uno spettatore-sognatore, col cinema post-moderno si rischia di trovarsi davanti a uno spettatore-giocatore. Ovvio che la mia non vuole essere una critica al cinema post-moderno e in questo mi trovo in disaccordo con quei teorici che postulano la morte del cinema, ucciso dalla voracità estrema del postmodernismo pronto a divorare il logos per “conformare” ogni cosa, per trasformare le categorie estetico-culturali in un magma confuso ove tutto può avere senso, ma tutto si rimescola con il rischio di smarrire quello che secondo me è il senso dell’arte: la conoscenza. La forza di INLAND risiede nel tentativo di aprire una nuova strada che tenga conto delle esigenze positive del postmodernismo e pertanto vada oltre quegli aspetti più caratterizzanti del cinema dei nostri giorni. In realtà questo sembra essere sempre stato il proposito di Lynch; i suoi film pur raccontando storie riescono a mantenere “ […] il senso sospeso, incerto, alla maniera dei moderni” (2), “ […] contrastando il citazionismo euforico del gusto postmoderno” (3). Con Lynch l’immagine torna ad essere un mistero, un manufatto da esplorare, da riscoprire, da studiare, da conoscere. In INLAND utilizza la potenziale violenza della narrazione per ri-costruire (de-costruendo il giocattolo) la forza evocativa, angosciante di uno scontro violento, senza speranza, tra sequenze/blocchi narrativi. Le suture tra sequenze e addirittura tra una scena e l’altra, oltre a formare una "struttura a domino" (Bellavita, 2008), non compongono solo rettilinei "provvisori" (prima del nuovo innesto con un'altra tessera del domino), ma incroci in cui si assiste sovente all’urto incostante e pericoloso di immagini che provengono da ogni direzione. Un cinema dell’incrocio, dell’uscita, forse impossibile, dal pastiche e dalle nuove regole di un gioco fagocitante (anche se gradevole). Ritorno al moderno e a un cinema-saggio stile Godard? Probabilmente no, perché le condizioni storico-culturali non lo permettono e perché evidentemente non è semplice destabilizzare il racconto rimanendo nel racconto (nella Nouvelle Vague la citazione serviva a rompere la narrazione). Un nuovo assetto del post-moderno? Forse, perché la strada è lunga e spero che INLAND EMPIRE sia solo l’inizio di un percorso Lynchiano (un percorso seguito da altri autori anche se con diverse modalità, vedi ad esempio Sokurov) che potrebbe trascinare lo sguardo in altre dimensioni dinamico-conoscitive.

L'ipotesi che vi sia una relazione di «incassamento»tra i diversi piani narrativi del testo(Basso Fossali, 2006) è molto interessante e lungimirante, come è interessante l’analisi di Andrea Bellavita che postula una relazione di «arborescenza». In altri termini in queste giunzioni, passaggi di mondo, in queste giunzioni-suture, la narrazione acquista una valenza ulteriore, accresce la vitalità immanente all’immagine stessa suscitando nello sguardo dello spettatore un senso di angoscia, di smarrimento. Guardando un film di Lynch e in particolare guardando INLAND EMPIRE si corre il pericolo di farsi male. Rischiare di subire danni non è ovviamente gradevole e teoricamente parrebbe una soluzione da evitare, ma per farsi male non intendo il subire un danno mentale (cosa che accade caso mai lasciandosi trascinare passivamente dall’esclusiva visione di certi blockbuster) piuttosto intendo il procurarsi un danno emotivo, poiché può essere spiacevole “entrare” nel quadro per tentare di conoscere il grande enigma lynchiano. Per appassionarsi alle vicende di INLAND EMPIRE bisogna pertanto frequentare i punti di sutura tra mondi, rischiando di "farsi tagliare un occhio" (4) o meglio di trovarsi tra le mani un cacciavite come unica arma da taglio capace di innestare due sequenze. Il taglio dell’occhio buñueliano è qui il buco nella tela o sono le mani portate a coprirsi gli occhi allo scopo di oltrepassare/saltare da una via all’altra, come se le strade fossero diventate canali d’acqua la cui corrente non trascina alla presunta conclusione (il ma[r]e?) ma in un groviglio kafkiano di altri canali (il ma[l]e?). L’epilogo è insomma situato in ogni passaggio, posto ai bordi di un mondo-sequenza perché l’altro lato è un altro angosciante mistero. Ritengo che questo encomiabile lavoro risponda a esigenze intrinseche e sempre presenti nel cinema di Lynch e che Lynch abbia operato più o meno casualmente (volutamente per caso non casualmente per volontà) per produrre un metodo operativo (a questo punto possibile solo grazie all’utilizzo del digitale), o meglio un discorso narrativo che sia innovativo. Insomma la narratività effettua un salto di qualità soprattutto tramite due procedimenti apparentemente contrapposti ma in realtà (e qui per me sta la grandezza di questo regista) (con)fuse in un unico meraviglioso metodo: operazioni sull’intreccio; operazioni sul discorso. In altri termini iconico = diegetico (?).

Note
(1) Sarebbe interessante vagliare il film attraverso i concetti espressi da Dominique Chateau nel suo lavoro Diégèse et énonciation , in Communications, 1983, 38, pp.3-29. trad. it., Diegesi ed enunciazione, in Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati, Il discorso del film, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma, 1987
(2) Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Marsilio, Venezia, 2007, p. 320.
(3) ibidem.
(4) Alla maniera di Buñuel.

Bibliografia
- Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Marsilio, Venezia, 2007.
- Paolo Bertetto, David Lynch, Marsilio, Venezia, 2008. Il volume presenta lavori in cui ciascun autore analizza un film di Lynch. INLAND EMPIRE viene analizzato da Andrea Bellavita.
- Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati, Il discorso del film, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma, 1987
- Pierluigi Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Edizioni ETS, Pisa, 2006.
- David Lynch, In acque profonde, Meditazione e creatività. Mondadori, Milano, 2008.

18 commenti:

Monsier Verdoux ha detto...

Sembra una maledizione, non riesco a vederlo mai!!!!! Devo riuscirci poichè tutti ne parlano magnificamente...

Chimy ha detto...

Aggiungo una questione... e se INLAND EMPIRE facesse invece parte del postmodernismo (non tanto a livello di struttura o di citazioni) nel senso legato al pensiero di Fredric Jameson, in particolare come esempio di opera (citando Jameson) che narra della fine della narrazione?

Questione e domanda spinosa, ma il discorso è talmente interessante che volevo chiederti un parere :)


Un saluto

Artax ha detto...

Mi sto appassionando ed è solo la seconda delle recensioni. Hai citato anche Sokurov come chi tenta nuove strade, mi chiedo se anche in quel caso si possa parlare di iconico=diegetico, certo in maniera molto minore, o forse dovrei dire diversa: più che un'equivalenza direi che il rapporto in alcuni film di Sokurov, come Madre e figlio, è allegorico. Ma è l'iconico a essere allegoria rispetto al diegetico, segno di un piano ulteriore di senso, autosufficiente.
Che ne pensi?Forse esagero...
Comunque la tua recensione mi ha portato a pensare ad una scena in particolare di Inland Empire, quella dove la Dern muore sul set del film che sta girando, è come se risvegliandosi poi, oltre che avere un'espressione allucinata sembrasse delusa, almeno mi ha dato questa impressione e mi ha fatto pensare che è una perfetta metafora del modo di girare di Lynch: lei è delusa perché voleva vedere-esperire di più di ciò che è stato, la finzione è una realtà insufficiente ma anche la realtà diventa una finzione insufficiente non avendo i mezzi per esperirla fino in fondo; il cinema di Lynch è portato a "guardare fino in fondo allo sguardo, girare intorno al suo punto buio". E' innegabile che nella maggior parte dei suoi film ci sia qualcuno che tenta di guardare oltre un ostacolo o qualcosa che occlude la vista (un muretto, una scatola blu, ecc, in Mullholland drive; il corridoio buio in Lost highway; una serie di scene in Inlenad Empire come quella dell'inseguimento della sagoma fuggitiva nello studio cinematografico; il calorifero in Ereserhead, ecc.), è forse uno dei pochi elementi narrativi costanti e riconoscibili. Quindi si conferma quella che hai chiamato tensione alla conoscenza, fin quasi ad un livello morboso e ossessivo ed è per questo che il "buio" (anche quello della propria interiorità-mente) resta il simbolo-icona-oggetto del suo cinema, più che la luce; un po' come Caravaggio (certo non in senso cromatico, più metaforico) che viene sempre nominato, forse anche troppo, per il suo uso eccezionale della luce, ma ho sempre pensato che l'eccezionalità e la sua intuizione fosse nella prospettiva del buio.
Mi sono dilungato troppo, è quasi una recensione, chiedo venia, ma si libera istintivamente l'intertestualità.

Giuseppe(eraservague) ha detto...

penso che in se INLAND EMPIRE estremizza quel concetto di cinema postmoderno per il quale lo spazio filmico non è più luogo di semplice collocazione degli elementi fisici e narrativi, ma diventa vero spazio percorribile, nel caso di INLAND EMPIRE,fatto sia dagli stessi attori, sia dallo spettatore. Questa estremizzazione porta al collassamento dei diversi spazi/mondi che convivono "incassati" e paralleli uno dentro l'altro, che grazie attraverso delle fratture interne è possbile attraversare.

Luciano ha detto...

@Monsieur Verdoux. Mi piacerebbe molto leggere una tua recensione di questo film.

Luciano ha detto...

@Chimy. Purtroppo non ho approfondito il pensiero di Jameson (mi pare anni fa fosse molto critico nei confronti del postmodernismo essendo autore di ispirazione marxista, ma che negli ultimi anni abbia rivalutato il movimento). Le critiche al postmodernismo (provo a ragionare nell'ambito di un'estetica marxista) sono comunque legate alla società capitalistica passata dai grandi monopoli al dominio incontrastato delle multinazionali (postmoderno), società in cui domina la frammentazione del sapere, dei valori etico-culturali e del gusto, frammentazione che potrebbe trascinare (e forse non è già così?) l'umanità in un nuovo conformismo culturale (ma anche politico e sociale) dove la cultura viene comunque e sempre gestita dal potere: parcellizzata, ambiguamente differenziata e amaramente pseudo-libertaria. A questo punto non so cosa Jameson proponga, mi pare che cerchi, partendo dal postmodernismo, di recuperare quegli aspetti positivi (che non sono pochi secondo me) da utilizzare per contrastare quella "cultura" capitalista che sta annullando la soggettività e la forza del singolo (ma non solo) di lottare ed esprimere la propria libertà (aggiungerei) estetica (ma non solo). Da un punto di vista operativo non ho ben compreso cosa proponga Jamenson. So che altri marxisti stanno pronosticando la fine del postmoderno e con esso l'eclissi del postmodernismo anche nell'arte, ma spero che se dovesse accadere (questa è un mia personale fissazione) non si torni al rispecchiamento: l'arte è molto di più di una semplice sovrastruttura legata allo sviluppo economico, l'arte è anche operatività.

In effetti è un problema complesso e di difficile valutazione. Non possiamo conoscere cosa accadrà nei prossimi anni. Credo che il digitale aprirà strade fino ad oggi impensate anche se correremo un grosso rischio post-moderno, nel senso che l'eccesso di immagini parcellizzate (video girati da milioni di persone) non è detto garantirà una democrazia della notizia (o addirittura un'estetica-democratica). Con questo non intendo affermare che l'eccesso di libertà-artistica sia da ripudiare, ma l'esatto contrario; affermo che l'arte del futuro potrebbe essere un'arte di scambio, un'arte di tutti fatta di mondi parziali, di immagini recuperate dagli angoli più remoti della fantasia. Il pericolo sarà tutto nella debolezza della fruizione, nella possibilità che l'eccessiva divulgazione di "lavori" sia intesa come una miriade di narrazioni tutte valide e "comprensibili". Uscire dalla narrazione per me non significa la fine della narrazione, ma la consapevolezza che la narrazione è falsa. Questo mio concetto è ovviamente postmoderno e quindi, per l'estetica marxista in generale non corretto. È vero, l'esaltazione del Falso (a cui spesso contribuisco con le mie idee) può veramente fare danni, l'importante è rendersi conti che la Verità non è un dato assoluto e nemmeno è legata al potere, e che nonostante tutto esiste. Una volta disarticolato il concetto unitario di Verità (parlerei infatti di più verità) il moderno avrebbe dovuto dare forma ad una dialettica reciproca, all'apertura di tutti i punti di vista (un postmodernismo anche questo?). In sintesi il postmodernismo ha grossi difetti ma splendidi pregi.

Rispondendo alla tua interessantissima domanda, personalmente, con tutti i limiti di questa mia affermazione, ritengo che INLAND potrebbe essere l'inizio di un percorso che porta la narrazione verso altri lidi, una narrazione (questo concetto dovrei approfondirlo nei prossimi post) che comprende nel suo seno l'atto di raccontare, il racconto e la risposta del fruitore, insomma più che una meta narrazione, una performance. Ma questo mio concetto è molto vago e da approfondire. Grazie per questa stimolante e affascinante domanda.

Luciano ha detto...

@Artax. In maniera sicuramente diversa. L'equazione iconico=diegetico vuole essere solo una proposta e forse una provocazione. Sokurov lavora diversamente da Lynch. Di Sokurov mi incuriosisce in particolare l'Arca russa, questo "unico" ininterrotto piano sequenza dove il tempo è protagonista e lo sguardo sul tempo che scorre dentro un museo è un dinamico atto di conoscenza. Non so, dovrei rivedere alcuni film del grande regista. Iconico come allegoria del diegetico: mi sembra una proposta interessante. Rivedrò Sokurov tenendo conto di questa tua ottima idea.

La tua idea del "buio" mi sembra interessante e pregna di possibili sviluppi. In effetti in INLAND il buio (corridoi, scatole, percorsi quasi kafkiani) potrebbe contenere la "luce" della visione, nel senso che nel buio lo sguardo si riposa, si adatta alle nuove condizioni di luce,la mente ragiona di più (ad esempio si cammina con attenzione e se si conosce la stanza si immagina la collocazione degli oggetti), ma l'occhio comunque cattura parvenze luminose, costruisce, "scolpisce" nuove forme e teorizza nuovi "valori". Probabilmente il "buio" serve a Lynch per abituare la vista a conoscere anche la debolezza della luce e insegnare allo sguardo a frequentare anche i confini e i limiti, luoghi in cui si innestano le fratture e i passaggi spazio-temporali (luce/oscurità come metafora ulteriore della frattura del senso?). Be'... in effetti lo stile pittorico di Caravaggio consiste nel far uscire le figure dall'oscurità della scena mentre in quasi tutti i suoi quadri lo sfondo coincide spesso con una zona più o meno oscura; questo perché per Caravaggio i personaggi devono risaltare e diventare gli unici soggetti d'interesse (come divi del cinema?). La tua proposta di pensare, per questo film, alla pittura di Caravaggio mi sembra molto interessante. Non mi era venuto in mente.

Luciano ha detto...

@Eraservague. Osservazione molto profonda e illuminante. Lo spazio in effetti diventa un percorso da seguire e da esperire e presenta appunto fratture e "buchi neri" che trascinano in altre "zone". Lo spazio ha un peso e si potrebbe pertanto definire anche "curvo". Dovrei scriverne in uno dei prossimi post. In generale mi trovo d'accordo con questa tua proposta.

Chimy ha detto...

Grazie a te per l'interessantissima risposta Luciano :).

Ne riparleremo nei prossimi post allora


Un saluto

Luciano ha detto...

@Chimy. Benissimo^^ A presto.

iosif ha detto...

da scrittore consumato, chiudi col punto interrogativo, "gancio" iconizzato ;)
non farci sudare troppo le altre puntate, o luciano.

MilenaOne ha detto...

Mi hai dato un motivo in più per recuperare al più presto questo film che ancora non ho visto. Le tue recensioni offrono sempre uno degli spunti di riflessione e discussione più interessante!

Luciano ha detto...

@Iosif. Bellissimo il "gancio" iconizzato. Questa espressione, scusami, te la rubo^^

Cercherò di essere abbastanza celere per porre termine a questa "sofferenza" ;)

Luciano ha detto...

@Milena. Appena l'avrai visto leggerò con piacere una tua recensione. Sono curioso di conoscere il tuo punto di vista.

Anonimo ha detto...

"come se le strade fossero diventate canali d’acqua la cui corrente non trascina alla presunta conclusione (il ma[r]e?) ma in un groviglio kafkiano di altri canali (il ma[l]e?)"

Mi complimento oltremodo per tutto il post che mi ha tenuta incollata letteralmente allo schermo, ma soprattutto per questo passaggio.
Ale55andra

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Sei sempre gentilissima. Grazie. Ma ti assicuro che questo film lancia talmente tanti segnali che le idee/immagini scorrono nella mente senza mai cessare. E questo vale per chiunque sia riuscito a godersi la visione.

Unknown ha detto...

complimenti per la lucidità d'analisi. linko il tuo blog al mio; se ti interessa dacci un'occhiata. Su INLAND EMPIRE ho scritto poche, miserrime righe per ora. non ho ancora avuto tempo di fare un'analisi decente. Devo ancora finire di leggere la tua. Poi magari commenterò in modo più approfondito.

Luciano ha detto...

@Ti ringrazio Alessandro. Sei molto gentile. Ricambio volentieri il tuo link e spero di visitare il tuo blog il prima possibile sperando che tu possa pubblicare la tua recensione su INLAND.
A presto.