13 luglio 2007

Orlando (Sally Potter, 1992)

Il volto di Tilda Swinton (ultima inquadratura di Orlando), seduta con la schiena poggiata al tronco di un albero mentre osserva un angelo sospeso sopra di lei, mi rammenta il concetto di fotogenia caro a Balázs (il volto umano nel Primo Piano assume la varietà del paesaggio). Ma qui il paesaggio/volto di Tilda/Orlando è anche il tempo trascorso: una vita di quattro secoli che invecchia di un giorno la diafana carnagione della Swinton. Un Primo Piano che ci porta fuori dal tempo e dallo spazio, dove il personaggio non è più individuabile. Nichilismo del volto terrorizzato dal suo stesso nulla: immagine-tempo (Deleuze).
Sembrerebbe un Primo Piano come tanti nel cinema (tempo, passato, il nulla, il movimento che cessa a vantaggio del tempo e il tempo che si dilata per quattro secoli raccolti in uno sguardo). Invece c’è di più. Improvvisamente lo sguardo di Orlando (nel sintagma osserva l’angelo in cielo e nell’immagine osserva il tempo) si volta verso la macchina da presa e mi guarda dentro. In questo modo, collegando fotogenia, immagine-tempo e memoria, scardina il verosimile, ciò che è pertinente e pregno di significato per lo spettatore. È un atto ermeneutico, dove ho provato sulla pelle il superamento di quella coerenza intima (G. della Volpe) che rende credibile anche l’impossibile.
Dopo lo sguardo della Swinton che penetra dentro l’anima ho provato un brivido: il volto di Orlando, ingigantito nel Primo Piano, è diventato incredibile e possibile.

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