28 luglio 2007

Il quinto elemento (Luc Besson, 1997)

Il punto di fuga verso spazi immaginifici. La costante del cinema di Besson è il punto di fuga, quello che il Barocco cercò di elaborare verso spazi siderali, fuori dalla portata dell’occhio umano, ma ben dentro la mente umana: ciò a cui sfuggiva la “realtà”, ma a cui ricadeva la percezione della realtà. Così Il quinto elemento, e forse in maniera più evidente dei suoi film precedenti, se non altro perché qui la fantascienza crea quella possibilità in più, il genere funziona da pretesto, coinvolge la percezione oltre il “famigliare”, predispone ad accettare il surplus, l’animo si adatta, opponendo una minore resistenza, all’esplosione incoerente delle forme e dei colori. Si vive in tre dimensioni, i loculi abitati di una New York irriconoscibile (ma non tanto) si aprono verso l’esterno, sul vuoto che inghiotte il traffico cittadino sopra e sotto (le auto scorrono ad ogni livello della città, volando tra i grattacieli). L’alto dal punto di vista del loculo dove abita Korben Dallas (tassista sul punto di perdere la licenza) è nascosto dal traffico mentre il basso, sotto altro traffico (mezzi che brulicano come uno sciame caotico ma ordinato), protegge il suolo con una coltre di nebbia. Al suolo non si scorre, non c’è movimento; l’oscurità della nebbia immobilizza gli eventi, proteggendo la fuga del tassista e della ragazza-clone Leeloo, dea arrivata dal cielo per salvare il mondo. Ultima reliquie del Mondoshawan, sorta da una mano sopravvissuta all’esplosione dell’astronave giunta per aiutare la Terra contro il Male (una sorta di pianeta magmatico, oscuro, fagocitante), Leeloo è un punto di sutura: prima mano amorfa, mostro composto da una sofisticata sequenza di DNA, poi, in una dissolvenza miracolosa che solo il Cinema può regalarci, splendida dea dai capelli rossi, punto luminoso solo capace di unificare il materiale inerte (acqua, fuoco, aria, terra), frantumato, incomprensibile. Leeloo il movimento? La luce che sprigiona dal suo corpo, la bellezza del corpo di Leeloo (quinto elemento ossia beltà del movimento, fascino della luce che “scolpisce il tempo”?) sono sorti da un pezzo, un frammento di mondo. Un clone ricostruito dall’imperfezione degli umani che distrugge, unificando il materiale primario nella luce e nel movimento, l’oscurità delle dissolvenze, i punti morti, maligni, che attentano alla “storia”. Il racconto Terra sarà salvo ancora per cinquemila anni e il nero, la deissi che fagocita tutto, infinità, universo improponibile di senso, dovrà rimandare il suo avvento. La poesia come fiume inondante che rientra nel suo alveo non metterà in onda la sua autodistruzione. Che ci rimane allora? Leeloo e Korben Dallas che escono dai loro cloni (Leeloo impara a parlare e dalla afasia passa al logos, mentre Dallas impara ad essere eroe ordinario e non più tassista straordinario) inibendosi nei corpi di Bruce Willis e Milla Jovovich? Ci rimangono gli spazi eclatanti, le linee che saettano veloci verso l’infinito, le ricostruzioni computerizzate (fumetti elettronici?) che ricordano le scene d’angolo dei Bibiena (in particolare mi riferisco alla scena delle «Logge» del Didio Giuliano rappresentato a Piacenza nel 1678). In effetti l’esasperazione dell’effetto diagonale caro a Ferdinando Bibiena cattura lo smarrimento di uno spettatore incapace di adattarsi allo spazio magico della scena con due fuochi. In particolare nella scena citata, la dilatazione dello spazio barocco viene affidata ad un sottinteso: allo spettatore viene data la possibilità di immaginare altri spazi infiniti, mentre lo spazio visibile sul palcoscenico ne è una premessa. È la perfezione del Barocco. La visione risulta così razionale, non determinata dalle mutazioni di scena ideate dal Burnacini o dal Torelli dove dominano le grandi macchine. Il meraviglioso, l’effetto speciale (per usare un termine moderno) viene portato dai Bibiena dentro la mente dello spettatore, senza metamorfosi prodigiose, né macchinari ingegnosi, ma con un semplice effetto ottico (due fuochi laterali con angolo di palazzo nel centro della scena). L’infinito viene costruito dallo spettatore, diventa un fatto mentale. Besson costruisce questo infinito nella fuga dei materiali, nelle immagini del tempio isolato nel deserto (il punto di fuga delle due file di colonne del tempio è all’infinito, oltre la quinta di fondo, dove sono visibili, oltre lo spazio inscatolato, attraverso il buco della parete, la gradinata del tempio e le dune del deserto), come pure nelle immagini di una New York di trecento anni a venire, che esplode di punti di fuga: in alto, in profondità (le strade “aeree” che costeggiano i grattacieli e che portano lo sguardo nello smarrimento di uno spazio illimitato), ma soprattutto verso il basso (vedi la sequenza del “volo” di Leeloo che si getta come un uccello nelle fauci della città o quella della fuga quando Korben guida il taxi verso i piani bassi dei palazzi) dove le linee prospettiche puntano tutte verso più fuochi, saettano in un groviglio di cunicoli e ostacoli. La mente fatica a contenere tutta questa ridondanza di effetti. Eppure sono questi che sorreggono le immagini, la storia e i personaggi. Leeloo, fisicamente simile a tante donne di Besson (vedi Nikita o la ragazzina di Leon), donna potente ma fragile, fatica ad uscire dalla sua afasia, fatica ad esprimersi, non comunica con la parola, ma con la danza (lo scontro con i Mangalore) e con la pantomima (i brividi di freddo o i primi piani di un volto di bambina che scopre il mondo, l’amore e la sofferenza); Korben è l’archetipo dell’eroe assoluto, modesto nel sacrificio quotidiano (è un tassista che “spera” di non perdere punti sulla sua patente) ma eroe quando si tratta di lottare per la salvezza del mondo e per l’amore; Cornelius, strano prete, è un ibrido tra astrologo, cartomante e buddista del ventitreesimo secolo; Zorg, infine, è il prototipo del “cattivo”, adoratore del male assoluto, da cui non sprigiona un pizzico di dubbio. Sono personaggi da fumetti, essenze cartacee che non devono trasformarsi in esseri umani, o meglio, che non devono dare illusione di caratterizzazione psicologica. Il film è l’immagine di un sogno, un perdersi nell’infinito delle esplosioni dello sguardo, un vagare della mente verso l’invisibile dell’immagine: spazi e tempi infiniti (il 1912 in Egitto o i cinquemila anni di vita del quinto elemento, o il futuro del 23° secolo su Fhloston Paradise) che non si ricongiungono, che fuggono distanti, nell’impossibile dello smarrimento. Alla superficie, nel verosimile del fumetto è tutto reale, accettabile, tranquillizzante; ma all’interno, dove lo sguardo affonda, c’è l’impossibile della verità, c’è il dolce canto di Plavalaguna, aliena che ipnotizza per un attimo i mostri con la bellezza del canto della Lucia di Lammermoor di Donizetti.

11 commenti:

Christian ha detto...

Film fumettoso, non eccezionale (soprattutto nella seconda parte) ma divertente, che mi ha fatto innamorare di Milla Jovovich. Da allora l'ho seguita e continuo a seguirla in tutti i suoi film, uno più brutto dell'altro (con qualche eccezione, come la Giovanna d'Arco dello stesso Besson).

Luciano ha detto...

"Fumettoso" è proprio la parola giusta.

Anonimo ha detto...

Non mi ha mai entusiasmato particolarmente, Besson ha fatto di meglio, molto meglio.
Ale55andra

Luciano ha detto...

Ale55andra. Sono d'accordo. Non è sicuramente il suo migliore film. Visto che mi hai contattato (grazie per i tuoi commenti)tengo a farti sapere che non riesco a visualizzare il tuo blog (dipende forse da explorer?). Comunque farò il possibile per risolvere l'inconveniente.
A presto.

Anonimo ha detto...

Si, con Internet Explorer nn è visualizzabile ma con tutti gli altri broswer si. Mi dispiace ma non riesco a risolvere il problema ^^
Ale55andra

Luciano ha detto...

Appena possibile cercherò di installare un altro browser (Mozilla?). Purtroppo non da questo server (ho problemi di collegamento). La prossima settimana sarò collegato da un altro server. Non ho ancora visto il tuo blog e non riesco più a controllare la mia curiosità.

Gino ha detto...

Questo non l'ho visto.
Di Besson ho visto soltano "Léon" e "Nikita" e sono parte dei miei film "personali", ossia quei film che pur non essendo capolavori mi hanno colpito particolarmente, diciamo così, a livello emotivo.
Un amore irrazionale(se mai lo sia).

Luciano ha detto...

@Gino. Sinceramente non credo sia all'altezza di Léon e Nikita, anzi... Però mi sono piaciute alcune sequenze e in quel periodo sentii il bisogno di pubblicare questo lavoro scritto alcuni mesi prima.

Gino ha detto...

Prima o poi mi deciderò a vederlo. Besson non è tra le mie priorità, ma dovrò approfondire.
"Nikita" e "Léon" non credo siano grandi film, ma lo sento!
Non so se posso spiegarmi... è che mi piacciono e basta, mi hanno colpito molto, nonostante sia ben consapevole che per quanto possano essere validi film non li reputo capolavori nel vero senso del termine.

Luciano ha detto...

@Gino. Mi rendo conto. Capita anche a me. Alcuni film piacciono e basta. Comunque quelli di cui stiamo discutendo non saranno capolavori ma sono sicuramente ottimi film.

Unknown ha detto...

Buoni film on-line possono essere trovati qui http://www.altadefinizione.one/