
31 luglio 2007
Zabriskie Point (Michelangelo Antonioni, 1970)

Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1956)

28 luglio 2007
Il quinto elemento (Luc Besson, 1997)

25 luglio 2007
La morte corre sul fiume (Charles Laughton, 1955)

22 luglio 2007
Vital (Shinya Tsukamoto, 2004)

19 luglio 2007
Tokyo-Ga (Wim Wenders, 1985)

Tokyo-ga: un documentario che racconta di un viaggio alla ricerca di Ozu, dove un mondo che non c’è più cede il passo al mondo attuale: il traffico, le vetrine, i giocatori di Pachinko, i monitor tv negli alberghi. Ciò che non esiste più (Ozu, il Giappone di una volta) viene mostrato attraverso ciò che rimane (oggetti, amici, città). Si tratta di mostrare l’inesistente attraverso l’esistente per scoprire che ciò che non esiste si opacizza nascondendo il mostrato stesso. Il mondo di Ozu, il fascino del passato che ha raccontato, è finito. E ciò che è stato risorge nei ricordi di Chishu Ryu (attore preferito di Ozu) e dell’operatore Yuharu Astuta che non ha più voluto lavorare con altri registi dopo la morte di Ozu. Nel Giappone tecnologico del dopo Ozu non c’è niente da raccontare. C’è soltanto il traffico, c'è la città, ci sono i giochi dei giapponesi, il mondo. Il cinema moderno può riflettere soltanto su se stesso e sull’impossibilità di raccontare, mentre lo sguardo di Ozu era capace di dare ordine in un mondo sempre più confuso. Adesso regna il vuoto. «Una tale rappresentazione della realtà, una tale arte non esistono più nel Cinema. Lo erano un tempo. Attualmente regna Mu, il Vuoto», ci racconta Wenders, commentando la visita al cimitero dov'è sepolto Ozu. La realtà invece non si può raccontare. Ognuno apprende da sé ciò che significa la percezione della realtà. «La realtà. Non c’è nozione più inutile e vuota nel contesto del Cinema».
16 luglio 2007
La Ricotta (Pier Paolo Pasolini, 1963)

Eppure bisogna affrontare il dolore che provoca l’ambiguità del testo e l’impossibilità di rappresentare la vita (ma se è una corsa verso la morte si può tentare). Quando il tableau-vivant della Pietà del Pontormo si spezza, quando Cristo cade e tutti si mettono a ridere, i colori per un attimo irradiano nella vita. Ecco! Questa è l’emozione che per un attimo ho provato: poter afferrare la vita osservandola dall’alto e congelarne il senso. Ma è stato un attimo.
13 luglio 2007
Orlando (Sally Potter, 1992)

Sembrerebbe un Primo Piano come tanti nel cinema (tempo, passato, il nulla, il movimento che cessa a vantaggio del tempo e il tempo che si dilata per quattro secoli raccolti in uno sguardo). Invece c’è di più. Improvvisamente lo sguardo di Orlando (nel sintagma osserva l’angelo in cielo e nell’immagine osserva il tempo) si volta verso la macchina da presa e mi guarda dentro. In questo modo, collegando fotogenia, immagine-tempo e memoria, scardina il verosimile, ciò che è pertinente e pregno di significato per lo spettatore. È un atto ermeneutico, dove ho provato sulla pelle il superamento di quella coerenza intima (G. della Volpe) che rende credibile anche l’impossibile.
Dopo lo sguardo della Swinton che penetra dentro l’anima ho provato un brivido: il volto di Orlando, ingigantito nel Primo Piano, è diventato incredibile e possibile.
10 luglio 2007
Mulholland Drive (David Lynch, 2001)

Il silenzio delle immagini diventa quindi quello che solo lo spettatore può ricostruire (o decostruire se preferisce) diventa la possibilità del testo di essere qualcos’altro. Questo percorso ermeneutico, ripreso bene dal titolo della 50a Biennale di Venezia (la dittatura dello spettatore) è quello che Lynch, da grande autore qual è, ha perfettamente individuato nel suo film: le infinite possibilità del testo, che si trasforma (o meglio ancora si deforma) attraverso e/o tramite la mente dello spettatore evoluto, non passivo ectoplasma che assorbe e sogna le ombre proiettate sullo schermo bianco, ma creatore-dio, assemblatore delle immagini in sé. All’autore/regista non rimane che allontanarsi nel suicidio reiterato, fuggendo dall’abbraccio della diegesi e della narratività che ingannano con uno sterile appagamento, dall’abbraccio di ilari gnomi/spettatori incapaci di progredire, vaghi distanti relitti che impediscono al testo di ridefinirsi ogni volta differente. Il senso apparente, ottuso, deve quindi svanire, eclissarsi, per lasciare emergere l’atto stesso del vedere. Roland Barthes in un suo famoso saggio descrive bene questa “evaporazione del senso” (La morte dell’Autore, 1967 – e anche se qui si tratta di scrittura, la citazione può essere riferita all’immagine): “Una volta allontanato l’Autore, la pretesa di “decifrare” un testo diventa del tutto inutile. […] Nella scrittura molteplice […] tutto è da districare, ma nulla è da decifrare; […] la scrittura esprime costantemente un certo senso, ma sempre in vista della sua evaporazione: essa procede sistematicamente a una sorta di “esonero” del senso.”
Siamo noi spettatori quindi che costruiamo e diamo vita all’episodio, alla “storia” di Diane-Betty e quello che abbiamo visto e dobbiamo ancora vedere (il suicidio è già avvenuto, il cadavere sul letto, visto da Betty e Diane è per ora solo un morituro) si completa nella nostra mente. L’Autore, alter ego del Lynch regista di successo, in Mulholland Drive, è già morto. Stasera assisteremo alla nascita dello spettatore.
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