8 maggio 2015

Interstellar (Christopher Nolan, 2014). 1/3 Equazioni e tesseratti

Un tesseratto a quattro dimensioni, forse sempre lì, dall’inizio del tempo, o meglio, dell’assenza di tempo, dove immergersi  è come cadere in un grande cavo elastico che mostra ciò che vuoi vedere, perché nell’ipercubo il dentro è fuori e viceversa. Come in Flatlandia (1) gli  abitanti delle due dimensioni non possono concepire il cubo (e ogni altro solido), se non smontato in sei quadrati giacenti sul piano, così negli universi tridimensionali non è possibile concepire un tesseratto se non dispiegato nella rete degli otto cubi. Non dico niente di nuovo nel citare la stupenda opera di Salvator D’Alì, quel Corpus hypercubus, un ipercubo dispiegato nel 3D in otto cubi, simile a una croce posta dietro il Cristo crocifisso che enuncia la corrispondenza, fin troppo evidente, tra l’impossibilità per la mente umana di comprendere la struttura di un oggetto quadridimensionale e l’incapacità  di intuire lo spazio trascendentale di Dio. Pertanto per analogia, giacché siamo seduti in sala a vedere comunque un film, non è possibile comprendere servendoci di una logica prosastica o, peggio ancora, scientifica. Ovvio che le incongruenze (anche se Nolan ha cercato di legare il più possibile la fantascienza alla fisica teorica) fanno parte del gioco anche perché personalmente non ho mai creduto che un film (anche quello più fedele, anche un documentario o una ripresa di una telecamera portata per la strada in giro per il mondo a riprendere la folla dei boulevards) mostri la realtà: figuriamoci se sia possibile abbinare fedelmente un film a una teoria scientifica – e dovrebbe essere sufficiente il fatto che nel cadere in un buco nero  forse qualcosa al nostro corpo potrebbe capitare. Ma Interstellar è solo un’opera cinematografica e pure di ottima qualità, un lavoro che punta a “scombinare” le sequenze giocando con la circolarità degli eventi, nell’affermare il principio e la fine come intimamente legati. Quando Cooper , dall’interno (esterno) dell’ipercubo, vede se stesso nella biblioteca insieme a sua figlia Murphy (ma non avrebbe dovuto vedere dall’universo 5D anche gli organi interni della figlia e di se stesso?), guardando l’interno dall’esterno (o viceversa), non fa altro che porre in atto una serie di tentativi per comunicare con i viventi dell’Universo 4D  allo scopo di completare l’equazione . Non è possibile infatti per noi comprendere lo sviluppo di un cubo nelle cinque dimensioni (spazio-tempo), ma è possibile filtrare questa esperienza tramite un medium. Il film permette, e in particolare Interstellar per l’estrema incisività della propria funzione poetica, di farci intuire l’incomprensibile, mostrarci la proiezione nello spazio tempo di un tesseratto, rendere intelligibile un concetto astratto, dispiegando l’ipersolido nel Corpus hypercubus, nella rete degli otto cubi mesi a croce. In questo caso la narrazione si alimenta con una selezione operata  sulla base dell’equivalenza, una scelta fra varie infinite inquadrature che possano succedersi per equivalenza: quindi  inquadrature connesse da un certa similarità o difformità, sinonimia o antinomia. Si opera una scelta per cui il principio dell’equivalenza agisce sull’asse della selezione. Inoltre la funzione poetica proietta il principio dell’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione (2). Come nella poesia in Interstellar (almeno in alcune sequenze) ogni  immagine, inquadratura o sequenza è rapportata a tutte le altre immagini o sequenze o inquadrature non solo del film ma anche del nostro immaginario (l’intero nostro mondo di conoscenze, aspettative, proiezioni  che ci contraddistinguono). Come nella poesia si parte dall’equazione per costruire la successione e non viceversa (3). In altri termini, non sono le sequenze a formare un logos logico e coerente (o supposto tale secondo la logica dominante in una certa cultura di un certo periodo storico), ossia: orbito intorno a un buco nero e passano vent’anni (verifico che è possibile perché i fisici dimostrano, dicono che…), entro in un buco nero e non mi sbriciolo perché è immenso e Stephen Hawking sostiene che l’orizzonte degli eventi di un buco nero potrebbe essere apparente e allora... Al contrario, è il discorso (quando si fa poetico) a formulare la successione (ossia il discorso quando si fa poetico costruisce inquadrature e sequenze e le assembla per  reiterare ritmi, significati polisemici, emozioni anche contraddittorie). La funzione poetica regola e struttura il risultato come metro e impalcatura di eventi; e non viceversa. Pertanto nel  proporre un’osservazione su piani che non rientrano esplicitamente nella specificità dell’arte si rischia di ridurre la ricchezza culturale e poetica di un’opera alla stregua di un qualsiasi evento cronachistico, o trattato o asciutto articolo scientifico da rivista di alto impact factor sì, ma incapace di trasmettere emozioni.

1. Edwin Abbott Abbott, Flatlandia, Racconto fantastico a più dimensioni (1884)
2. cfr. Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale
3. Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002 p. 192

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