10 maggio 2011

Offside (Jafar Panahi, 2006)

Il recinto in cui sono confinate le ragazze in attesa di una decisione delle autorità, posto dietro le tribune dello stadio, diventa per un attimo un campo da gioco teorico. Infatti una delle ragazze cerca di illustrare lo schema della squadra disponendo in “campo” le altre recluse. Questo piccolo fazzoletto incastonato nel cemento rappresenta per una attimo il loro mondo ed è per un attimo metafora della loro vita. Le donne sono recluse in ogni momento della giornata; possiedono cellulari, possono mangiare pasticcini e persino andare al cinema vestite da donne, ma allo stadio, ove si gioca una partita di calcio tra uomini, non è loro permesso entrare. Non possono essere donne, né esprimere la loro peculiarità. Per andare a vedere la partita sono costrette a travestirsi da tifosa-maschio, con i colori della bandiera iraniana dipinti sul volto, con un berretto in testa per nascondersi dagli sguardi dei vigilanti. L’aspetto più interessante del film è la constatazione che dopo tutto le ragazze si camuffano per entrare allo stadio in un modo diverso da come si camuffano ogni giorno per uscire all’aperto. Non è mia intenzione giudicare le usanze e i costumi di un popolo (che meritano rispetto se e in quanto usanze e costumi), ma soltanto evidenziare la possibilità di una costrizione che non si sviluppa soltanto durante una partita di calcio, ma costantemente in ogni aspetto della loro vita. In fondo i soldati che devono controllarle non sono aguzzini, ma ragazzi di leva che desiderano tornare a casa, perché devono aiutare la famiglia a coltivare la terra e l’annata non è stata buona per il raccolto causa la siccità. Il rapporto non è dunque solo tra donna-repressa, torturata- uccisa e potere-carceriere-aguzzino. Il rapporto, l’incrocio tra le tante realtà degli esistenti, si snoda attraverso una complessità inimmaginabile. Il “tempo” in cui sono recluse è un angolo ritagliato da un mondo imperfetto e atroce, voluto e controllato da un potere ctonio capace di insinuarsi nell’animo della vittima convincendola che giudizio e tortura siano valida e giusta espiazione al fine di ottenere la sospirata redenzione. Annichilimento psicologico e plagio portano la vittima a convincersi dell’errore. Se non che l’errore non è antitesi del bene ma solo un’interferenza o una negazione della regola; e se la regola è illegittima l’errore diventa correttivo, acquisisce in pieno il suo significato latino di “vagare, aggirarsi” pertanto allontanarsi da una via definita “retta”. L’errore è un’esperienza di ricerca del proprio io, attraversato dal dubbio e dal timore, ma comunque un percorso necessario per affrancarsi dal dogma o per verificare una supposta verità. Queste ragazze travestite sembrano al contrario possedere la capacità di resistere ai condizionamenti, di opporsi alla regola riuscendo a intaccare il nesso improprio che unisce regola a giustizia. La loro esuberanza riesce a far breccia nell’animo dei soldati “costretti” a obbedire, anch’essi in fondo prigionieri nell’altra ampia parte dello spazio che si trova al di là del fazzoletto recintato ove sostano le recluse. Offside è un film di reclusi, un film sui giovani che dovrebbero imporre la loro visione del mondo anziché dannarsi per giustificare o criticare uno status inappropriato dei fatti. Eppure dietro quelle transenne che dividono le donne dal resto della location sembra albergare la libertà. La reclusione è piuttosto psicologica, è annidata nella mente degli uomini, mentre le ragazze sono in grado di liberarsi dalle proprie paure e legami. Non sono recluse ma donne libere poiché, riferendomi a Socrate, ritengo che la libertà sia una prerogativa dell’animo non uno status “fisico”. Panahi riesce a registrare gli umori e la vitalità di una generazione semplicemente usando lo spazio di uno stadio di calcio che sia anima e si accende nell’arco di tempo di una partita della nazionale iraniana. Il calcio anche qui unisce soldati e ragazze, giovani e anziani; la vittoria della squadra rende grande il paese e inorgoglisce perché chi trasgredisce non lo fa per sabotare lo spirito della nazione, al contrario, talvolta il semplice desiderio di partecipare a uno spettacolo, costi quel che costi, diventa, nel contesto analizzato da Panahi, l’orgoglio di un popolo che ama e onora il proprio grande paese. Girando un film apparentemente leggero con happy and (ove tutta la città festeggia con fuochi d’artificio e offerte di pasticcini la vittoria) Panahi è riuscito a mostrare la debolezza del pregiudizio e della miopia di un potere delegittimato dai fatti e al contempo è riuscito a sviscerare l’innocente e tenera “reazione” dei ragazzi che cercano solo di vivere una semplice giornata in armonia e festeggiamenti. L’espressione più alta della libertà non è sempre e soltanto annidata nei grandi gesti eroici, ma anche nel desiderio quotidiano di potere scegliere. Offside pertanto è l’esito di una scelta con conseguenze; se la tragedia rimane ai margini (ma dannatamente sempre presente) dipende soltanto dal fatto che nessuno vuole smettere di sognare. Pensare alle azioni che si svolgono in campo (poiché alle ragazze non è permesso assistere alla partita) assume un’importanza capitale. Immaginare e ricucire lo spettacolo “invisibile” di una partita in parte intravista tra le sbarre di acciaio delle cancellate, un po’ udita dal racconto verbale di un soldato, un po’ scoperta dall’esultanza del tifo, colonna sonora inesauribile del film, diventa il grido di libertà che non potrà mai essere soffocato . Nessuno può impedire di pensare se non lo si lascia entrare nella propria coscienza. Un film che mi ricorda parte del cinema neorealista italiano, girato durante una vera partita di calcio della nazionale iraniana con tifosi e festeggiamenti veri. L’abilità di Panahi ricorda la grande capacità di Rossellini di sfruttare il materiale “offerto” dal mondo ove il profilmico non è una ricostruzione o una sintesi di location e scenari da teatri di posa. Il mondo di Panahi è l’imprevedibilità del reale, la possibilità che la partita di calcio finisca con una sconfitta dell’Iran. Allora cosa sarebbe capitato alle ragazze? I soldati le avrebbero condotte in carcere? Questa imprevedibilità è la stessa che il regista iraniano ricostruisce nelle maschere utilizzate per nascondere la bellezza della donna. Queste ragazzine travestite da uomini, o meglio, travestite da personaggi stranianti (poiché il copricapo e i larghi vestiti non trovano riscontro nell’abbigliamento maschile), pertanto goffe (la ragazze che va al bagno) o mascoline (la ragazza che fuma) o addirittura soldatesse (la ragazza ammanettata), con i volti bassi per non farsi notare o costrette a nascondersi dietro una foto di un calciatore per andare in bagno senza essere viste, riescono comunque, grazie all’esuberanza, alla voglia di vivere, a mostrare tutta la loro grazia, una bellezza che supera il classico concetto di bellezza femminile=forme-misure per diventare più una bellezza profonda, interiore. Quando la ragazzina, subito dopo essere stata riconosciuta dal vecchio, indossa il chador, mostrando il suo volto dipinto col tricolore della bandiera e incorniciato dal velo nero, l’arte di Panahi sintetizza in un’unica immagine la luminosa bellezza della donna iraniana.

6 maggio 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 4/4 Campania Corto

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.




108 FM Radio (di Angelo e Giuseppe Capasso, Italia 2010)

Un automobilista, un autostoppista, un programma radiofonico. Un viaggio notturno in un crescendo di sospetti e paranoie.

Avvincente e ben congegnato con epilogo degno dei migliori film di genere. Presenta però alcuni momenti statici non funzionali soprattutto nella prima parte.

Voto: 3 (sufficiente)

I tempi della suspense sono rispettati e c’è anche un programma radiofonico che informa della presenza di un killer. Forse si tratta proprio dell’autostoppista. Probabilmente adesso darei più di un tre, perché il motivo che mi ha convinto a votare la sufficienza è stata la staticità dell’incipit o meglio certi momenti per me superflui che potevano essere evitati. Invece, ripensandoci, l’abbrivo lento probabilmente trova la sua valenza nella ricerca di un equilibrio con il fulmineo epilogo. Quando arriva la soluzione del rebus nell’epilogo però sono rimasto un po’ deluso, non per l’esito che poteva essere previsto al 50 per cento (insomma uno dei due) ma proprio perché la storia non evita il suo ovvio aut aut e si qualifica come un film binario che potrebbe anche essere interessante (nel caso di una scelta in una location diversa dall’abitacolo di un’auto), ma che non lascia spazio ad alcuna alternativa (un altro autostoppista o un compagno di viaggio dell’autista?). Ad ogni modo il corto in parte funziona perché i momenti salienti riescono ad emozionare lasciando sempre la possibilità di dubitare. Non fidarsi mai delle apparenze.


Armandino e il Madre (di Valeria Golino, Italia 2010)

Nel cuore di Napoli, tra vicoli stretti, antichi palazzi e qualche abuso edilizio c’è il MADRE, Museo d’Arte contemporanea, ospitato nello storico Palazzo Donnaregina. Armandino è un vero scugnizzo napoletano, anche se la sua famiglia ha origini Rom. Per lui il Museo è un po’ casa un po’ luna-park, è abituato a scorrazzare in quelle grandi sale fin da quando era piccolissimo. Anche suo fratello maggiore Roberto ha una certa fama tra le ragazze che lavorano al Madre. E’ furbo, sveglio e bello come il sole. Tutti lo chiamano lo “zingaro”. Sara, da poco laureata e appassionata di arte contemporanea, si è specializzata in restauro e manutenzione delle opere. Da qualche mese lavora al MADRE. Sara e Roberto si piacciono ma non mancano le incomprensioni. Il piccolo Amandino - con un ottimo fiuto per gli affari - si propone da intermediario in cambio di ricompense da parte del fratello. In una girandola di luoghi, resi ancora più suggestivi dalle installazioni di artisti contemporanei del museo, si svolge il gioco amoroso tra Sara e Roberto.

Bella fotografia e regia di buona fattura (complimenti a Valeria Golino), ma il film è un museo di stereotipi con epilogo degno di mille identiche storie appaganti. Peccato perché il rapporto tra il museo e la Napoli popolare di oggi presenterebbe tematiche interessanti da approfondire. Invece qui si rimane costantemente sulla superficie della "tela".

Voto 2 (scarso)

Il Corto non è pessimo nonostante il voto. Una buona fotografia e una regia sufficiente contribuiscono a rendere le immagini gradevoli , ma purtroppo il Museo d’Arte Donna REgina, pur essendo un luogo molto attraente e interessante, solo per il fatto di ospitare opere di grande levatura (ad esempio la celeberrima “Merda d’artista” di Piero Manzoni), non riesce a tenere da solo in piedi il film. Troppi luoghi comuni, immagini ovvie e consumate. Dal bambino che nonostante tutto non si integra col museo (nel senso che non c’è stato neppure il tentativo di illustrare il rapporto tra le opere esposte nel museo, ciò che vogliono evocare o rappresentare, con le problematiche di un bimbo rom “gettato” nell’arena della sopravvivenza), né interagisce con i personaggi che incontra lungo il suo percorso, a Sara, una restauratrice che lavora al museo, fino a suo fratello Roberto, innamorato di Sara. Non c’è una relazione tra i personaggi e Armandino è soltanto un intermediario che deve rappresentare l’amore di Roberto per Sara. L’epilogo poi, con lo pseudo-suicidio di Roberto e il trionfo dell’amore sul terrazzo del museo con vista sui tetti di una bellissima Napoli, è il tripudio di stereotipi troppo consumati per dare un valore al film. Peccato perché certe immagini sono molto belle anche se troppo patinate e capaci di ricordare spot pubblicitari. Non a caso il corto è stato finanziato dalla pasta Garofalo. Il bacio finale con abbraccio inquadrato dal basso dell’entrata al Museo e l’inquadratura seguente, che reitera l’abbraccio nella notte fra i due innamorati ripresi stavolta a poca distanza insieme al piccolo sorridente intento a guardare in macchina, superano ogni limite e invogliano a chiudere il video. Fortunatamente è solo l’ultimissimo fotogramma.


Il sogno di Gennaro (di Antonio Manco, Italia 2010)

Gennaro è un meccanico-saldatore del centro storico di Napoli. Una giornata apparentemente come le altre gli dà l’occasione di realizzare il suo sogno…

Incipit buono e sequenza del sogno interessante ma poi il film si perde andando a cercare consenso con un epilogo scontato. Struttura debole e dialoghi poco approfonditi.

Voto 2 (scarso)

Corto forse ancora più retorico di Armandino e il Madre che reitera il solito epilogo con esaltazione dell’amore “vero” in stile “poveri ma belli”. Incipit buono con i due meccanici che sperano di cambiare la loro vita col gioco del lotto, se non che riescono davvero a vincere, come spesso capita in certi film made in Usa di bassa fattura che hanno ormai esaurito il senso del sogno di ogni giocatore: vincere per cambiare la propria vita. Purtroppo non si racconta quanto il gioco sia dannoso e quante persone abbiano rovinato la propria vita per questa dipendenza. Ma qui il gioco è solo un espediente per giungere infine a raccontarci che il vero amore non ha bisogno del danaro. Peggio di così. Il sogno di Gennaro non è la ricchezza ma l’amore. Trionfo della banalità. Fortunatamente il film si salva in parte per l’interessante sequenza del sogno girata anche molto bene. Questo significa che l’autore possiede qualità e idee.


La colpa (di Francesco Prisco, Italia 2010)

Mauro è un tignoso avvocato che crede di sapere tutto di sé e degli altri. Sarà un misterioso mediorientale, durante una mattina come tante, a far vacillare le sue certezze e a fargli capire che non sempre tutto è come sembra…

Strutturato molto bene ma non aggiunge niente di nuovo al genere.

Voto 3 (sufficiente)

Sulla qualità del film niente da eccepire. Ottima regia, ottime sequenze, fotografia da antologia. Suspense con colpo di scena, tante emozioni. Forse avrei potuto anche dare un quattro perché in effetti il film merita e non a caso ha vinto la sezione del festival dedicata a Campania Corto. Però secondo me questo lavoro non è all’altezza di almeno altri due corti (La currybonaria e Reset) perché in fondo reitera i cliché del genere e non riesce a uscire da certi luoghi comuni, quegli stessi che vuole mettere alla berlina. Per luoghi comuni intendo l’idea dell’arabo presunto terrorista che invece risulta essere una brava persona qualsiasi (ma anche un abile insegnante che si permette di dare una lezione di vita all’orgoglioso avvocato). Al contrario ritengo che sarei rimasto sorpreso di più se il colpo di scena finale fosse stato davvero rivolto “contro” l’avvocato (o una vera esplosione o magari scoprire l’avvocato quale mandante dell’atto criminale). Insomma, qui non si esce da una certa idea preconcetta mentre il mondo naviga nella complessità e nell’impossibilità di definire qualsiasi cosa. Non vi sono certezze, ecco… invece l’epilogo lascia credere nella quadratura del cerchio.


La currybonara (di Ezio Maisto, Italia, 2010)

La currybonara è una commedia in stile “spaghetti western” che ha per tema lo scambio culturale e l'integrazione razziale attraverso il cibo. Come nei classici western americani, che raccontavano la sanguinosa conquista delle fertili terre del selvaggio West da parte dei pionieri provenienti dall’Est, anche l’indiano ROBIN e la slava OLGA sono emigrati a Ovest per cercare fortuna. Ma la desolata landa di terra promessa che sono faticosamente riusciti a conquistare è ogni giorno minacciata da MARINA, una “pericolosa” nativa del luogo.

Contaminazione come superamento del duello e ricerca di un nuovo modo di convivenza e integrazione. Il mondo dei paria esaltato dalla fantasia e la genialità per costruirsi una vita. Curry-bonara: un piatto da servire al mondo. Ottimo montaggio soprattutto nell'alternarsi dei primi piani. Attori molto bravi. Ottima regia.

Voto 5 (ottimo)

Cortometraggio stupendo, di una bellezza che trasporta l’anima in un luogo “differente” ove la vita unisce anziché dividere, dove il rispetto si mescola all’amore e le differenze sono un valore anziché motivo di divisione. Il rapporto tra l’indigena Marina (una romana amante della carbonara) e l’indiano nonché benzinaio Robin si sviluppa tramite la ricetta italiana della carbonara e i gusti dell’indiano Robin tutt’altro che condivisi dalla nativa. E il loro comportamento viene attentamente valutato e registrato da Olga, una bellissima slava, che purtroppo deve guadagnarsi la vita vendendo la propria bellezza. Ma la peculiarità di questo corto, sua caratteristica fondante e “ironica”, viene esaltata dal modo in cui è stato girato, ossia nel rimarcare il rapporto tra i tre protagonisti come se il loro incontro avvenisse nelle desolate lande del Far West. Un mezzogiorno di fuoco che si trasforma in un “mezzogiorno di cuoco” come evidenziava una vecchia pubblicità, per cui le armi che i due contendenti (Marina e Robin) estraggono non sono revolver pronte a scaricare piombo nel corpo del nemico, ma un cuscus al curry e un panino con la porchetta. La contaminazione e l’incontro tra culture differenti attraverso il cibo conferisce al film un sapore diverso. Anche la grama e dura vita del far west, dove i cavalli sono auto che bevono benzina, dove le dame sono donne in attesa del cliente (i vestiti che Olga porta nell’incipit somigliano molto alle vesti delle ballerine da saloon), presenta dei momenti di grande umanità in cui l’amicizia si esalta nella “fusione” di culture diverse dando vita a una nuova immagine di bellezza. La Currybonara non è solo esempio di cucina fusion (come evidenziato nell’epilogo), ma una nuova formazione artistica, un collage di “pezzi” poveri e insignificanti che, se accostati dal lavoro dell’artista, danno forma a un manufatto artistico di umanità e fantasia composto di tolleranza e comprensione, un’opera d’arte che innesta e presenta una nuova arte popolare.


La sagra della primavera (di Giovanni Prisco, Italia 2010)

Con l’arrivo della primavera, in una tranquilla campagna del sud, un uomo si appresta a sacrificare una vita. Gli unici presenti sono gli animali, indifferenti alla morte, ed una ragazza, che spera di cambiare il corso degli eventi.

Probabilmente dipende da me che non sono riuscito a entrare in sintonia con questo lavoro. Obiettivamente è girato bene, le inquadrature sono precise, ma la sceneggiatura mi sembra slegata e il messaggio (ammesso che possa avere importanza) ambiguo.

Voto 2 (scarso)

Questo forse l’unico corto che vede il mio giudizio minoritario rispetto alla maggioranza dei giudici web. Probabilmente merita i buoni voti ricevuti, ma secondo me presenta alcuni punti deboli in cui il corto si inceppa e non riesce a uscire dall’impasse. Quando il maiale viene ucciso e macellato la natura accetta impassibile (la mucca che si immobilizza per un attimo, i polli che fuggono al suono dello sparo) l’esito di un gesto che si ripete da sempre e proseguirà finché l’umanità forse un giorno sarà cambiata. Questa realtà bruta ma sempre identica, che non accettiamo di vedere, ma che accettiamo quando gustiamo un panino col salame, potrebbe avere un’alternativa identica. Questo ossimoro si esplicita nello scambio evidenziato nell’incipit, poiché se il maiale è salvo la stessa sorte potrebbe toccare alla donna. Insomma il cambiamento, il superamento dell’atroce “tradizione” richiede un’altra vittima sacrificale. Tutto molto interessante ma purtroppo non sono rimasto convinto dalle immagini che mostrano la macellazione del maiale (immagine reale di un maiale macellato per la gioia degli appassionati e il disgusto degli animalisti) mentre, per ovvie ragioni di budget, non abbiamo assistito alla macellazione della donna. Pertanto l’immagine del sacrificio umano (ma verrà trasformata in insaccati innestando forse un meccanismo senza uscita che potrebbe arenarsi nel tabù del cannibalismo?) sembra solo bondage fine a se stesso.


Reset (di Nicolangelo Gelormini, Italia, 2010)

Tra sogno e realtà, vita e morte di un uomo alla ricerca di se stesso.

Come hanno scritto anche altri cinefili, si notano atmosfere lynchiane rese molto bene. Sceneggiatura originale con sequenze formalmente ineccepibili. Un piccolo gioiello. Per me il migliore della sezione Campaniacorto.

Voto 5 (ottimo)


Il migliore cortometraggio della sezione e uno dei migliori tra i trentotto presentati al festival Ottimo thriller, grande suspense, e soprattutto ottime atmosfere lynchiane. Montaggio perfetto che alterna il “qui e adesso” con i flashback indispensabili per ricostruire il rapporto tra il padre e la figlia, ma anche per seguire la ricerca del probabile assassino, tra realtà, ricordo e incubi del protagonista. Ma gli incubi (vere e proprie sequenze lynchiane) non sono soltanto la ricostruzione mentale di un ricordo frantumato che deve riaffiorare alla superficie. Il modo in cui sono stati inseriti (la casa sulla scogliera, la balaustra che si affaccia a strapiombo sulla scogliera, la ragazza che appare urlando nella notte), montati con altri pezzi del visibile (interrogatorio, incontro al bar del padre con la figlia, l’incontro con la madre, il tentato suicidio in carcere, ecc.), contribuiscono a formare una sorta di chimera, un animale formato da pezzi reali di animali diversi, e pertanto decisamente infiltrato nel reale perché capace di amalgamare ogni aspetto della vita e dell’animo umano. Un film pregevole, di grande qualità che per me avrebbe meritato di vincere la sezione Campania Corto.


Vomero travel (di guido Lombardi, Italia, 2010)


Vittorio ha 14 anni, studia al liceo, abita al Vomero (il quartiere "bene" di Napoli) ed è un fan dei "Roca Luce": un gruppo hip hop di 4 ragazzi appena maggiorenni. Questi invece abitano nella periferia nord di Napoli, di cui raccontano, nelle loro canzoni, il degrado e la violenza. Attraverso il loro incontro scopriranno entrambi che sebbene separati da pochi chilometri di metropolitana, i mondi a cui appartengono sono molto, molto distanti…

Interpretazioni buone ma sceneggiatura debole e resa registica inconsistente.

Voto 2 (scarso)


Gradevole da vedere ma inconsistente. La differenza tra i due quartieri di Napoli, il Vomero (quartiere bene dove abita Vittorio) e Scampia non esce allo scoperto. Va bene puntualizzare la giornata al Vomero in quanto metro di misura della differenza di mentalità, comportamento e modo di parlare tra i Roca Luce e Vittorio, ma questa giornata a passeggio nel quartiere bene risulta evanescente, debole, non colpisce, non mette in evidenza le differenze, la lotta quotidiana per la sopravvivenza di un ragazzo della periferia nord della città, mentre un suo coetaneo del Vomero pensa e si preoccupa magari di superare un esame scolastico. Non c’è quella forza, quella tenacia che mi sarei aspettato, ma solo una piacevole serata tra amici, un modo di comunicare e di frequentarsi. Niente di più.

4 maggio 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 3/4 Corto Europa

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.




Pravidelný odlet (di Tomas Pavlicek, Repubblica ceca 2010)

Un film profondamente motivato su un immotivata amicizia tra due emigranti: Ondrej, ventenne che è ancora confuso dal suo futuro, e Karel, cinquant’anni, anche lui confuso.

Film dinamico, effervescente, con inquadrature e sequenze equilibrate. Montaggio ottimo che ci conduce velocemente all'epilogo. Sceneggiatura di qualità.

Voto: 4 (buono)

Sul momento mi è piaciuto molto e il mio quattro è sembrato forse un po’ penalizzante. Indeciso se dargli cinque, più ripenso al cortometraggio, più mi rendo conto che invece il mio voto è stato un po’ largo. Il film mi è piaciuto naturalmente ma forse avrei voluto vedere altre sequenze con l’auto della polizia che insegue i nostri eroi (metterei in auto anche il ragazzo) intenti a fuggire verso una libertà solo immaginata. Comunque sempre un buon corto soprattutto per la dinamicità delle sequenze e per l’originale amicizia far i due che regala emozioni.


Promíll (di Marteinn Thorsson, Islanda 2010)

Ad Erik piace bere un bicchiere di tanto in tanto. Il giorno dopo una bella festa, seduto con la sua ragazza a chiacchierare, incontra delle persone di cui non si ricorda. Erik è in profonda difficoltà …

Un corto interessante e stimolante per la cura delle originalissime riprese, ma un po' confuso e impreciso. In effetti sembra che il regista non voglia cucire fino in fondo il film: forse anche questa una sua precisa scelta.

Voto 3 (sufficiente)

Dispiace molto aver dato un tre a questo corto (anche se sempre sufficiente), perché in effetti il regista probabilmente voleva, nel girare sequenze di tal genere, provocare nello spettatore un effetto straniante. E infatti la fotografia è ottima e le sequenze inquietanti. Probabilmente siamo in una sorta di sogno e l’intruso dell’epilogo potrebbe confermare o il risveglio del protagonista da un sogno o il perdurare del suo delirio dovuto all’alcolismo. Purtroppo il corto risulta nell’insieme caotico. Per mostrare il “caos” serve una solida struttura che questo corto non possiede anche probabilmente per “mancanza” di tempo; forse un certo tipo di “analisi” dell’alcolismo (con eventuale sconfinamento nella descrizione del delirio) necessiterebbe di uno sviluppo narrativo consistente, altrimenti non si esce dal materiale informe, come informe infatti mi sembra il lavoro in questione. Nonostante ciò sono convinto che Promíll sia soltanto un esperimento, un tentativo di ricerca e analisi che potrebbe aprire il cinema a nuove frontiere. Nel caso specifico sarebbe stato molto emozionante vedere il delirio e l’alcolismo come soggetti puri della ricerca al di là di ogni narrazione attanziale, luogo in cui la disperazione assume nuove forme e regole. Troppa carne al fuoco che ha reso il corto un esperimento fine a se stesso che non regala emozioni.

Sposerò Nichi Vendola (di Andrea Costantino, Italia 2010)

L'Italia di oggi è in constante crisi economica e sociale. Il paese si confronta con la Rete. Beppe Grillo propone un rivoluzionario disegno di legge di iniziativa popolare firmato da 350.000 cittadini italiani. Nel sud Nichi Vendola, un politico dichiaratamente omosessuale, cattolico e comunista, conquista una popolarità inaspettata, mentre la crisi obbliga la famiglia Amoruso a vendere la propria casa.

Ottimo soggetto ma relaizzato con un montaggio scadente e confusionario che non riesce a "legare" il film. Peccato perché ci sono alcuni spunti di valore(ad esempio: la voce fuori campo di Vendola nel sogno della nonna) che da soli non salvano l'opera.

Voto 2 (scarso)

Rivedendolo purtroppo devo confermare il giudizio espresso “a caldo”. Il materiale è notevole e proprio per questo doveva essere trattato con maggiore maestria. Purtroppo sembra tutto così raffazzonato, caotico, slegato. Per volere trattare tanti argomenti finisce col non realizzare niente di interessante. I vari segmenti (famiglia Amoroso costretta a vendere la casa, Bepep Grillo, conquista della regione Puglia da parte di Vendola) non sembrano bene amalgamati. La storia della famiglia (o meglio delle sue donne) sembra indebolirsi lentamente lungo il dipanamento del film fino a svanire soffocata dalle notizie della politica e dal discorso dell’epilogo di Nichi Vendola. Anche in questo caso mi sembra che le tematiche avrebbero avuto bisogno di maggiore “spazio e tempo”.

Thermes, (di Banu Akseki, Francia 2010)

Joachim ha quindici anni. Vince due inviti per un centro benessere e decide di andare con la madre. Entrambi sono proiettati in un rifugio insolito di buona salute, che li spinge in direzioni divergenti. Il dramma eterno della solitudine viene giocato in questo microcosmo acquatico ...

Mi è piaciuto per le sequenze che scivolano lente fino all'epilogo. Bellissima l'inquadratura fissa della madre che si spoglia in un'area nudisti della durata di circa due minuti. Ottima fotografia come l'uso attento e studiato dei colori dominanti (giallo, blu, bianco, nero). Sceneggiatura buona. Bravi interpreti.

Voto 5 (ottimo)

Un modo di fare cinema molto attraente. Emozioni che scaturiscano dagli oggetti, dai colori, dal silenzio delle lunghe sequenze e ovviamente dall’umanità dei personaggi che aleggia nell’iconico, permeando gli oggetti, i luoghi e soprattutto l’acqua. Akseki ha utilizzato magistralmente il colore, soprattutto azzurro e blu scuro che dominano poiché ci troviamo nelle terme e quindi l’acqua è il liquido che inonda e protegge l’angoscia dei protagonisti, un luogo dove tuffarsi e accoccolarsi per proteggersi dall’alito freddo del mondo. Eppure l’acqua (e le tonalità del blu che sconfinano nel nero di alcune sequenze) diventa l’alito gelato che isola ancor più i protagonisti (Joachim e sua madre). L’azzurro delle prime sequenze (la grande piscina che si riflette nelle alte vetrate che separano il luogo dall’esterno, l’idromassaggio che carezza e allieta Joachim e l’occasionale compagna appena conosciuta) lentamente si fa più scuro ricordando quasi un’acqua abissale che nasconde i timori e le angosce dell’anima. Niente può cambiare il loro status, neanche quando attraversano luoghi più “caldi” (la madre che uscendo dallo spogliatoio cammina al fianco delle cabine di un frizzante giallo limone, luogo di pausa prima del tuffo nell’azzurro delle piastrelle). Stupenda la lunghissima sequenza (e trattandosi di un corto acquista maggiore consistenza) in cui la madre entra in un luogo relax frequentato da nudisti ove lei si sente obbligata a spogliarsi; e notevole anche l’epilogo quando Joachim, emergendo dalla notte della piscina, vede stagliarsi sul bordo, immersa nel blu sfocato dello sfondo, sua madre nuda che tenta vanamente di ripararsi dietro la sua borsa a tracolla. Qui le immagini e il colore assecondano magnificamente la disperazione e la noia, l’incubo che si fa reale (nudi in pubblico) poiché le nostre paure più grandi racchiudono il timore di aprire le profondità dei nostri segreti al mondo.


Tre ore (di Annarita Zambrano, Italia, 2010)

Roma, un padre è stato condannato per omicidio e deve spiegare a sua figlia che starà via per un po’…per farlo ha solo 3 ore.

Un film freddo, che sembra montato senza convinzione. Peccato perché il tema è molto interessante e il dialogo padre figlia un'idea brillante. Purtroppo il dialogo tra i due sembra inconsistente, non appassionante, didascalico.

Voto 2 (scarso)

Perché Tre ore non mi e piaciuto? Eppure un padre che sta per andare in carcere e deve spiegare alla figlia che se ne andrà per un po’, potrebbe essere argomento interessante. Non saprei. Forse perché il dialogo è senza pathos, sembra un banale dibattito pubblico con domande e risposte, non c’è l’umanità che soffre, non c’è la famiglia della vittima, né vi sono motivazioni profonde, anzi, il padre riesce pure a fare velate minacce nei confronti del compagno di classe della piccola. Non si capisce chi sia questo padre, personaggio che respinge, butta fuori dal fotogramma ogni tentativo di approfondire il suo status emozionale. Riporto un brano ripreso da un commento di un giurato web che rende bene l’inconsistenza di questo corto: “La bambina si sforza d'esser naturale e appare robotica”. Un film robotico.


Ultima donna (di Tristan Aymon, Svizzera, 2010)

Dr. Bertoz, 80 anni, è rimasto vedovo due anni fa e vive sola nella sua villa borghese. Sua figlia Florence, 50 anni, è una donna attiva, che non ha più tempo per occuparsi di suo padre. Assume una cameriera, Daniela, una giovane di 22 anni, portoghese. Il suo compito è quello di preparare i pasti e occuparsi delle faccende domestiche. In un primo momento, il dottor Bertoz è molto recalcitrante nei confronti di Daniela, ma a poco a poco questa suscita il suo interesse, in particolare grazie alla sua sensibilità per la musica classica. La complicità si sviluppa tra i due personaggi. Florence, visitando regolarmente il padre, osserva l'evoluzione del rapporto e si ingelosisce.

Il film mi ha emozionato. Stupenda anche per me la sequenza del bagno. Sceneggiatura splendida. Interpretazione di ottimo livello.

Voto 4 (buono)

Emozioni, emozioni. Un corto costruito molto bene che analizza il rapporto tra il vecchio e la giovane badante finché tra i due stabilisce un’intesa spirituale, una affinità che va al di là delle differenze di razza, sesso, religione, ceto sociale. Ci sono solo l’uomo e la donna, al di là di ogni convenzione, due anime che riescono a connettersi, a vivere semplici emozioni. Il Dott. Bertoz così non si sente più un vecchio inutile, gestito da sua figlia Florence come un pacco, un oggetto messo lì, seduto, che è quasi più “oggetto” fastidioso che essere umano da proteggere e aiutare soprattutto perché così impone decoro e decenza di una società tollerante. Il Dott. Bertoz pertanto lentamente si riappropria della sua centralità di essere umano ricominciando a sentirsi utile grazie a Daniela, la badante amica, che dona un nuovo tipo di amore al vecchio, un amore che sarebbe riduttivo definire contaminazione tra l’amore della figlia e dell’amante e infatti Daniela non è né la figlia, né l’amante ma è la donna.


Vannliljer I blomst (di Emil Stang Lund, Norvegia, 2010)

Il guru del nuoto sincronizzato, Labanosov, convince le donne in sovrappeso ad unirsi a lui nella sua missione: dimostrare nei campionati, che Isaac Newton si è sbagliato a proposito della gravità.

Corto affascinante e magico. Divertente, originale. Un perla che probabilmente non potrò più vedere

Voto 4 (buono)

Visionario, divertente, affascinante. Il cinema può anche annullare la forza di gravità e trasformare una squadra di obese nuotatrici di nuoto sincronizzato in acrobate volanti. L’acqua stessa della piscina è un fluido celestiale in cui le atlete volano come sospese in un liquido che non porta nell’abisso, ma (come si evince anche dall’inquadratura della nuotatrice dell’incipit che si lascia trascinare a fondo senza opporre resistenza) sembra trascinare in alto,come se il mondo emerso sia situato in basso e tutto l’alto sia un magma liquido in sospensione. L’acqua è un mondo magico in cui la gravità annulla la differenza di peso azzerando la “moda” (nel senso che non conta più l’abito e una certa idea di bellezza femminile imposta), liberando appunto l’essenza intima dell’essere umano, la sua interiore bellezza che va al di là dell’aspetto fisico di un involucro definito “bello” in quanto pertinente a un certo modello fittizio di beltà. Così come la newtoniana legge di gravità perde consistenza davanti alla magia della bellezza dell’anima.


Xie Zi (di Giuseppe Marco Albano, Italia, 2010)

La storia di un uomo e di un bambino (cinese) lontani e divisi dalle proprie differenze sociali e culturali, ma al contempo molto vicini e legati da un destino in comune.

Il film non è male anche se si indebolisce un po' nell'epilogo. Il rapporto tra i due non è stato approfondito e rimane come offuscato da una nebbia che non lascia passare le emozioni.

Voto 3 (sufficiente)

La storia di un uomo e di un ragazzino cinese e del loro non-rapporto non riesce a scaldare l’anima. Il contrasto tra la dura vita del ragazzino che lavora di giorno nel ristorante di famiglia mentre la notte rifinisce scarpe e quella dell’uomo che guarda Bruce Lee alla tv insieme al figlio, non è reso con forza ma si assottiglia in un non-dialogo abbandonato a se stesso, mentre ad esempio avrei visto bene almeno un incontro (magari anche “negativo”) fra i due in una zona “neutrale”, al di là della strada che li divide. L’uomo che gestisce una boutique non sa che le scarpe vendute potrebbero essere le stesse fabbricate dal bambino e pertanto il suo probabile disprezzo potrebbe affievolirsi. Al contrario una “rivelazione” o la casuale scoperta del piccolo intento a lavorare di notte in un capannone per fabbricare scarpe e vestiti (forse gli stessi della boutique gestita dall’uomo?) avrebbe dato maggiore pathos al film. Invece i dieci minuti della durata mi sembrano sprecati, come lasciati scorrere per puntualizzare e rimarcare le stesse note. Ritengo che sarebbero stati sufficienti i primi tre minuti per lo stesso messaggio e in modo da lasciare il resto del tempo nel flusso emozionante di un incontro-scontro nella notte sotto un capannone abbandonato dalla civiltà occidentale ma luogo di lavoro e sofferenza per un’altra civiltà parallela rappresentata dal piccolo cinese Xie Zi.


Zu Hause (di Nenad Mikalacki, Serbia-Germania, 2010)

Una signora anziana va dalla Germania in Serbia per visitare la casa della sua infanzia.

Parallelamente, due ragazzi deportati, tornati in Serbia, cercano di sopravvivere in condizioni di vita totalmente diverse. Le dicono che possono aiutarla a trovare questa casa…

Altro corto girato bene. Sceneggiatura equilibrata, interpreti molto bravi

Voto 4 (buono)

Il ritorno alla propria casa dell’infanzia in un paese abbandonato probabilmente al seguito di genitori che emigrano per lavoro non sempre riesce a suscitare forti emozioni come questo corto in cui l’anziana signora, giunta quasi al traguardo (la propria cara vecchia casa) decide di tornar sui suoi passi. Il passato è una meraviglia del ricordo e soprattutto del ricordo di un’immagine. Volerlo mettere alla prova per assaporare ancora quei magici momenti può comportare grandi rischi tra i quali la presa di coscienza,l’assoluta consapevolezza di avere scoperto finalmente il tempo,di avere capito che questo tempo trasforma e deforma la realtà (rimasta però intatta nella nostra mente) fino a trasfigurarla e a renderla diversa da quella che rammentavamo. O è la nostra mente che decora e rende migliori i ricordi?

Zwischen Rimmel und Erde (di York Fabian Raabe, Germania, Costa d’Avorio, 2010)

Koroballa e Tiemogo sono due fratelli, nati e cresciuti in una borgata della costa D’Avorio. La morte del padre e la mancanza di prospettive future convincono Korballa ad abbandonare il suo paese.

Anche questo si lascia vedere con piacere. Sequenze alternate di grande impatto visivo. Plot che emoziona e lascia riflettere. La sofferenza non è mai completamente mostrata al mondo. Ottimo.

Voto 5 (ottimo)

Molto bello ed emozionante. Il contrasto tra la vita nel clima caldo e accogliente della Costa d’Avorio e il percorso di fuga dalla propria miseria per la ricca Europa lascia l’amaro in bocca. Abbandonare il proprio mondo è come perdere un pezzo di se stessi e il gelo che avvolge i due protagonisti non è solo metafora del mondo che li aspetta (o dovrebbe aspettarli) ma anche della scelta di una speranza troppo grande da sopportare. La speranza di una vita migliore che richiede il più grande sforzo: la perdita del proprio mondo, della famiglia, della donna amata e infine del fratello, compagno di fuga, abbracciato nel gelo di una carlinga di un aereo appeso in un cielo freddo e lontano.

27 aprile 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 2/4 Corto Europa

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.




Io sono qui (di Mario Piredda, Italia 2010)

Giovanni Asara decide di lasciare la Sardegna e gli amici per arruolarsi con l’esercito in Kossovo. Non sempre, però, il futuro è roseo come nelle previsioni…

Montaggio notevole, recitazione di buona qualità, messaggio del film preciso e inequivocabile, ma anche e soprattutto molti altri sottotesti (noia, povertà, parallelismo Sardegna Kossovo ecc.). Bellissimo l'epilogo con il pupazzo del biliardino che affonda nel mare. Un corto all'altezza dei migliori di questo festival da me visti fino a questo momento.

Voto: 5 (ottimo)

I guai che ha combinato l’uranio ufficialmente impoverito e pertanto innocuo viene espresso bene in un corto che riesce a legare la noia di giorni tutti uguali trascorsi da un gruppo di amici sotto il sole della Sardegna giocando a biliardino oppure correndo sulla spiaggia o cercando di far scorrere il tempo in attesa di un evento improbabile che li distolga dalla noia della povertà. L’evento arriva con la partenza di Giovanni che si arruola volontario per il Kossovo allo scopo di guadagnare qualcosa per vivere. Le immagini del Kossovo e della Sardegna si susseguono in un montaggio alternato come per legare insieme due regioni del mondo che non hanno niente da chiedere se non la loro stessa speranza di vita, ma la vita che si spegne contribuisce a mostrare la disperazione di due mondi lontani eppure allo stesso tempo vicini come deformati in un unico paesaggio. Così il grigio preponderante del Kossovo non è tanto più grigio dei colori che inondano il paesaggio assolato della bellissima terra che fu di Arborea. E Giovanni vivrà sempre nei cuori degli amici e nuoterà nel mare fresco e trasparente visto dai compagni di noia come pupazzetto-giocatore del biliardino, staccato dal suo contesto, ma sempre presente nei loro ricordi, idealizzato come presenza inequivocabile a dispetto dell’odio e della follia di un potere che regala false certezze. Un corto bellissimo che cresce sempre di più dentro di me. Se avessi potuto avrei votato con un 5 e lode.


Kung Bao Chicken (di Bin Chuen Choi, Germania 2010)

Zhang Wei, un giovane cuoco cinese, arriva in Germania per lavorare in un piccolo ristorante cinese di Hannover. Ben presto, tuttavia, si rende conto chela "cucina cinese" in Germania è molto diversa da quella che ha imparato a casa. E il suo capo non sembra apprezzare il suo stile. Così decide di servire segretamente l'autentica cucina cinese ad un ospite abituale.

Film gradevole e a momenti divertente ma un po' piatto e inconcludente. Riprese troppo scontate e recitazione nella media

Voto 2 (scarso)

La storia di un cuoco che vuole cucinare la “vera cucina cinese” dovrebbe essere curata con una regia robusta attraverso invenzioni e riprese che caratterizzino i momenti salienti. La donna che viene tutti i giorni ad assaggiare le leccornie cinesi non dovrebbe essere solo un avventore-cavia, un “gastronomo” su cui sperimentare il proprio punto di vista (il proprio modo di cucinare), ma una funzione per connettersi (in quanto di cultura tedesca) agli aspetti salienti della cultura cinese. Invece la storia si sviluppa piattamente fino all’epilogo come fosse una qualsiasi ripresa girata in un ristorante, senza neppure possedere il pathos di una qualsiasi cucina (cinese o meno) di un reale ristorante con le corse e l’affanno dei cuochi, i loro errori o magari le loro “vendette”. Qui non c’è neppure la soddisfazione di scoprire il segreto delle ricette, con i cibi mostrati come fossero nature morte mal dipinte. Unica sequenza interessante: il dialogo attraverso il vocabolario tra il cuoco cinese e la donna al tavolo.


L’eclissi di fine stagione (di Vito Palmieri, Italia 2010)

Una coppia di albanesi, che lavora da anni in Italia, si trova in una giornata particolare a vivere una piccola ma significativa rivincita.

In complesso un buon lavoro, anche divertente. Buona regia e sceneggiatura. Molto bella l'immagine finale con i modellini delle macchinine, ma che purtroppo avalla un epilogo stereotipato.

Voto 3 (sufficiente)

Il corto è girato molto bene e con una regia molto curata. Interessante la sequenza sulla barca che scivola lenta sul mare per la piena soddisfazione di una coppia di albanesi, marito e moglie, che possono vivere e rinverdire il loro amore nella magia di un tramonto diverso. Purtroppo il resto del film è meno curato e si risolve in un epilogo evanescente (l’uomo regala tante macchinine al bambino) che mi ha lasciato un po’ perplesso in quanto mi sarei aspettato (visto anche il titolo) un mondo inondato dalla magia. Invece rimane solo un epilogo prevedibile di un rapporto uomo-bambino abbandonato a se stesso, senza passione, senza nemmeno un abbozzo di analisi caratteriale del piccolo, assimilabile più ai suoi modellini di auto che a un bimbo lasciato vegetare su una panchina.


Le piano (di Lévon Minasian, Francia, Armenia 2010)

Il terribile terremoto che ha colpito l'Armenia nel 1988 distrusse la città di Leninakan. Dodici anni dopo, Loussiné, una ragazza orfana, è una pianista di talento. Per consentirle di prepararsi in vista di un concorso internazionale, il Ministero della Cultura le mette a disposizione un pianoforte. Ma il ricovero temporaneo dove vive con suo nonno è troppo piccolo.

Anche per me un corto molto piacevole e divertente, ma che rimane sospeso in un limbo. Mi sarei aspettato meno lungaggini (le scene dei ragazzi e dei facchini magari da togliere e almeno una sequenza con incontro più approfondito tra Loussiné e il ragazzino).

Voto 3 (sufficiente)

La storia è molto interessante e girata bene, film gradevole da vedere. Ma sembra una via di mezzo tra uno sketch e una storia alla De Amicis, con Gakik scambiato per un teppista (mentre al contrario voleva solo difendere il pianoforte rimasto all’aperto da un gruppo di ragazzini pronti a danneggiarlo) che nell’epilogo si reca all’auditorium di Yerevan per portare dei fiori a Loussiné. Il loro rapporto non viene approfondito rimanendo sospeso in un limbo vago e non esaustivo. La storia sembra una cronaca di un successo, soprattutto quello di Loussiné che riesce a suonare ad Yerevan nonostante le peripezie e i rischi corsi dal pianoforte nel stare all’aperto, mentre Gakik ottiene il suo momento quando viene inquadrato dalla tv nell’atto gentile di consegnare i fiori alla sua adorata. Profumo di soap opera, purtroppo.


L’isola di Savino (di Giacomo del Buono, Italia, 2010)

In un paesino dell’Italia meridionale si svolgono i preparativi della processione del santo patrono, quando una barca di clandestini approda sulla costa. Questo evento farà conoscere due bambini appartenenti a realtà totalmente diverse.

Il film si sofferma troppo su immagini che sembrano spot per turisti, la sceneggiatura risulta inconsistente e il rapporto tra i due ragazzi non è approfondito (il regista poteva ridurre al minimo indispensabile i preparativi della manifestazione) .

Voto 2 (scarso)

Sembra uno di quei filmati commissionati da un’azienda di turismo regionale per pubblicizzare le bellezze del luogo: paesaggio, cibo, cultura, fiere, manifestazioni. Mentre al rapporto tra Mic, profugo clandestino arrivato dal mare, e Savino sono state dedicate poche sequenze non esaustive, lasciando andare il film alla deriva, abbandonato a se stesso. Non c’è traccia della storia di Mic, che si spaccia per un pirata dalle mille avventure in cerca di un tesoro, mentre è soltanto un povero ragazzo che porta le cicatrici della violenza della guerra e che verrà fermato dalla guardia costiera, deludendo in tal modo il piccolo Savino fino a quel momento affabulato dai suoi racconti. Al di là della delusione di Savino resta l’amaro in bocca per una sceneggiatura che ha dedicato così poco spazio a un personaggio secondo me fondamentale e meritevole di essere approfondito. Invece il regista ha preferito intrattenerci con tante estenuanti riprese della festa paesana.


Manolo (di Robert Boherer, Germania, 2010)

Sua madre lo vuole fuori di casa, suo cugino lo vuole fuori dai piedi e Linda, la principessa di questa estate vuole qualcosa di più…In un pomeriggio di sole in piscina Manolo, 12 anni, deve affrontare le sue paure.

Cortometraggio gradevole e ben confezionato, molto professionale. Inquadrature perfette. Denota grandi capacità di regia. Complimenti a Robert Boherer.

Voto 4 (buono)

Molta professionalità in questo corto. Mi è piaciuto il dolly (Jimmy Jib?) dell’incipit che mostra Manolo su una piattaforma posta dieci metri sopra la piscina in attesa di tuffarsi, incipit che rivedremo nell’epilogo della storia. Manolo non è gradito dal cugino dal fisco perfetto che contrasta con il suo. Eppure il ragazzino trascorrerà una giornata particolare che definirei simbolica in quanto i suoi rapporti con gli altri personaggi sintetizzano le esperienze comuni che un ragazzo non bello e non in forma deve affrontare per diventare adulto. In primis il rapporto con la bella ragazza, più grande di lui, desiderata da suo cugino, ma soprattutto con il tuffo finale da un’altezza mozzafiato che il ragazzino riuscirà a superare esorcizzando la sue paure. Sarà pronto per nuotare (o affogare) nel piccolo specchio perfido della vita. Sono stato a lungo indeciso se dare il massimo dei voti ma poi ho optato per un “buono” perché avrei preferito una maggiore attenzione nel rapporto a tre tra Manolo, la bella ragazza e suo cugino, che non è stato curato a sufficienza anche se ciò non esclude che il film sia un ottimo lavoro. Una grande prova di regia e movimenti di macchina superbi.


Mi amigo invisible (di Pablo Larcuen, Spagna, 2010)

Tomas soffre di timidezza patologica e la sua voce sgradevole ci porta direttamente nella sua vita quotidiana, fatta di solitudine e pasti in famiglia, con gli occhi bassi, e un malessere condiviso. Quando un (improbabile) amico immaginario bussa alla sua porta, la prima reazione è di fastidio. Tra Star Wars, videogiochi, fumetti porno, Hulk Hogan e X Generation, Mi Amigo Invisibile è il tributo migliore possibile per le commedie teenager degli anni 80.

Ottima regia e fotografia. Film dinamico che ricostruisce l'immaginario anni 80 con convinzione. Invisibilità di un mondo assemblato dalla mente con cui è impossibile interagire ma che è potenzialmente ricostruibile. Montaggio ineccepibile. In altre parole: perfetto.

Voto 5 (ottimo)

Probabilmente il miglior corto della rassegna. Non a caso ha vinto ex aequo con Intercambio il premio Corto Europa e ha ottenuto una menzione speciale quale corto più votato dalla giuria web per Corto Europa. L’ho rivisto ancora e devo ammettere che è un film ottimo e anzi secondo me il massimo dei voti gli sta pure stretto. Durante la visione, un giorno prima che il festival si concludesse (era possibile votare i cortometraggi fino alle ore 22,00 del 16 aprile) ritenevo Mi amigo invisible forse un tantino inferiore a Io sono qui, ma dopo averlo rivisto mi sono reso conto che è il migliore della rassegna. Oltre al plot (poco più di dieci minuti del timidissimo Tomas che confessa il suo disagio prima e racconta la sua esperienza con l’amico invisibile poi) le riprese sono precise e dinamiche e ricostruiscono un vintage anni ottanta superlativo (fumetti, videogioco, cassette vhs, musica). Un ritmo e un equilibrio tra storia e discorso di incredibile raffinatezza, un piccolo gioiello che deve essere assolutamente visto.


Na wéwé (di Ivan Goldschmidt, Belgio, Burundi, 2010)

1994: c'è la guerra civile in Burundi, un piccolo paese dell'Africa centrale direttamente confinanti con il Ruanda. La lotta oppone i ribelli hutu composta prevalentemente da etnie e di un esercito nazionale con la maggioranza dei tutsi. Questo cortometraggio racconta un episodio tristemente frequente di questo conflitto fratricida: l'attacco da parte dei ribelli di un minivan. Un Kalashnikov spara. L'autobus si ferma, i passeggeri scendono. Una voce grida: "Hutu a sinistra, tutsi a destra!" La selezione inizia. Ma chi è un Hutu, e che è Tutsi?

Non deve essere stato semplice girare un film divertente e che lascia allo stesso tempo col fiato sospeso. Girato magistralmente cattura lo sguardo senza cadere mai in banalità o luoghi comuni, facendo riflettere sull’assurdità e l’inutilità della guerra. Bello.

Voto 4 (buono)

Il dramma di una guerra fratricida narrata innestando la tragedia in un episodio mostrato come una commedia anche divertente, eppure quella linea segnata per la strada alla cui destra e sinistra si devono mettere in fila i Tutsi e gli Hutu, per cui questo “muro” diventa un confine che può definire una condanna a morte oppure una salvezza, quella maledetta linea diventa un limite oltre il quale si spegne la speranza mentre la normalità della vita quotidiana vi urta contro. Improvvisamente la “linea” assume un’importanza capitale e decidere in un attimo cosa fare, da quale parte porsi, diventa un incubo, come tirare a sorte un numero o giocare alla roulette russa, sperando di avere fortuna. Il film mi è piaciuto soprattutto per la soluzione trovata dal gruppo di persone che devono effettuare la scelta. Allo scopo di evitare una probabile esecuzione da parte dei soldati i personaggi cercano in tutti modi di rimanere nel mezzo, ossia di rinunciare al gioco. L’umanità che scaturisce dai dialoghi e dai comportamenti del gruppo “occupa” lo schermo attraversando con ironia il pericolo e la forza del potere sempre e comunque legato alla propria stupidità. Bravissimi interpreti e breve spaccato di un’atroce domanda: sono Hutu o Tutsi? O semplicemente esseri umani?


Nach der Jahren (di Josephin Links, Germania, 2010)

Un tempo una famiglia trascorreva le vacanze insieme. Ormai le figlie sono cresciute, i genitori hanno divorziato e la casetta di legno sul lago, deve essere svuotata per i nuovi proprietari. I componenti di quella che una volta era una famiglia, si riuniscono di nuovo per un intero fine settimana. I ricordi, sono molto più vicini di quanto pensassero. Ora, non solo devono dire addio alla loro casa delle vacanze, ma anche all'infanzia e ad un vecchio amore.

Un modo di fare cinema che mi piace molto: soprattutto le lunghe inquadrature che non "rallentano" il film ma lo completano, lo rendono (se bene assemblate) più "sensibile". Indimenticabile la lunga inquadratura fissa delle sorelle a letto con i rumori fuori campo.

Voto 4 (buono)

Uno stile gradevole con lunghe inquadrature fisse e location con casa sul lago molto romantica, adatta a sottolineare il sentimento di nostalgia evocato dal film. Ricordi di una famiglia che si ritrova dopo molti anni; le cose potrebbero essere cambiate, per un attimo sembra che tutto torni a posto, ma non è possibile tornare indietro. Il tempo ha lasciato i segni e alla fine ognuno se ne va per la sua strada. I ricordi vanno pesati nel silenzio della propria intimità altrimenti potrebbero alimentare una reminescenza che illude di potere ricominciare: ma un nuovo inizio non servirebbe a ricomporre l’esito di un ricordo.


Omero bello di nonna (di Marco Chiarini, Italia, 2010)

Omero vive con la nonna in una bella casa che la sua mente infantile riempie di creature fantastiche e mirabolanti avventure. La Nonna di Omero una mattina dimentica di prendere le pillole e durante il pranzo si sente male; a lanciare l'allarme e salvarla è il suo Omero che deve lasciare la casa che lo protegge e affrontare la sua più grande paura: un mondo in cui la tromba delle scale si trasforma in rapide terribili, il vicino è un terribile squalo-riccio e la donna delle pulizie un misterioso, poliglotta, uccello del paradiso.

Film riuscito, emozionante, appassionante. Gradevole l'animazione degli oggetti e dei disegni. Una bella sorpresa. Ottima interpretazione di Nocella.

Voto 4 (buono)

Film in stile Gondry (L’arte del sogno), come giustamente fatto notare da molti commentatori, con oggetti animati e disegni che mostrano l’immaginario di Omero per il quale l’appartamento di casa è un mondo intero per cui la spillatrice è una balena, un gomitolo di carta un granchio e il suo sguardo-immaginazione una sorta di periscopio a raggi x che riesce a vedere la nonna oltre la porta del bagno. La protezione della casa viene meno quando la nonna si sente male e Omero è costretto a uscire di casa, ma il semplice percorso dal pianerottolo all’uscita posta in basso diventa un’avventura in quanto Omero dovrà nuotare in un mare con enormi onde di stoffa con pescecane compreso, tapis roulant movimentato che lo trascinerà affannato sino al cospetto della donna delle pulizie, salvando così la nonna.

20 aprile 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 1/4 Corto Europa

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative di ciascun corto, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.


13 ½ (di Haris Vafeiadis, Grecia 2010)

Afrodite ha tredici anni e mezzo, i suoi amici la chiamano Tin-Tin. Afrodite è innamorata di Lou. Afrodite vuole crescere…

Atmosfere e passioni ben delineate ma che rimangono come sospese nello loro ovvietà. Comunque un prodotto ben confezionato: buona la colonna sonora e sufficiente la recitazione.

Voto: 3 (sufficiente)

Il commento a caldo rimane immutato anche dopo alcuni giorni. Il film è di buona fattura ma non è in grado di fare presa, di penetrare a fondo. Le immagini distorte dell’epilogo, quando Tin-tin esce malconcia dall’avventura di sesso con Lou, perdendo la sua verginità nella violenza dell’atto in sé anziché nel desiderio che fa vibrare il corpo e nell’emozione che accelera il battito cardiaco come consapevolezza e scelta precisa, non sono sufficienti a restituire l’angoscia e il dolore che sale dalla pancia bloccando e facendo scomparire la realtà degli amici, dei genitori che stanno ballando durante una cena all’aperto. Lo svenimento vale molto meno di un disperato “giorno dopo”, infatti avrei magari preferito un più scontato “dopo il fatto” che arriva con i brusii e le risatine dei ragazzi e le grida e gli sguardi di occhi diversi se osservati da una ragazzina di tredici anni e mezzo che adesso ha solamente paura di vivere.


Amistad (di Alejandro Marzoa, Spagna 2010)

Amistad è la storia di quattro amici e colleghi di lavoro che si incontrano nello stesso bar, come al solito, per bere un paio di drink e parlare dei loro problemi. La serata sembra divertente, fin quando Alberto non confessa i suoi problemi coniugali. I suoi amici cercano di rincuorarlo, ma dopo un po’ spuntano i problemi. Quello che doveva essere una seduta di terapia tra amici, si trasforma in una confessione, dove il loro cinismo, l'egoismo e l'avidità porta alla scoperta della verità: non sono come amici come pensavano.

Scritto e strutturato molto bene perché in pochi minuti assistiamo allo smascheramento dell'Amicizia che comprende anche i momenti peggiori. Purtroppo somiglia a uno Sketch del sabato sera. Anche per me ottima recitazione.

Voto 3 (sufficiente)

Anche in questo caso confermo il voto perché il film non mi ha convinto in pieno. Gli attori sono molto bravi e riescono da soli ad attrarre l’attenzione, a “raccontare” la loro stessa metamorfosi o meglio a sviscerare il peggio che è in loro. L’amicizia non è soltanto una serata passata a bere e a ridere ma è qualcosa di indefinibile, di impalpabile, un mattone che dovrebbe resistere a ingenti scosse di terremoto, ma qui non regge neppure all’urto di una battuta sufficiente a incrinare l’armonia, anzi da qui inizia un precipizio che conduce alla fondazione di un nuovo status: gli amici sono comuni esseri umani rimasti soli. Però il plot è prevedibile e l’epilogo non poi così esaltante, potrebbe essere inserito in uno di quegli episodi televisivi tipo situation comedy. Non male, anzi buono, ma che non offre niente di nuovo.


Boxer (di Andrei Cumming, Scozia 2010)

In una grigia comunità scozzese, un uomo solo è testimone di una violenza sessuale. Riesce a proteggere la ragazza, e questo gli da una nuova speranza di vita. Boxer è un ritratto inflessibile di isolamento, di rammarico, sulla possibilità di un individuo di mettersi alla prova di nuovo.

Bellissima fotografia e la sequenza del "salvataggio" è essenziale (cercando di evitare luoghi comuni e speculazioni). Per questo ho provato un'intensa emozione. Epilogo che non inganna lo spettatore e non illude. Spesso capita proprio questo. Un grande cortometraggio.

Voto 4 (buono)

Dopo alcuni giorni dalla visione mi sono pentito di avere assegnato un 4. Adesso il mio voto sarebbe un “ottimo” (5). Il film infatti è cresciuto lentamente dentro di me e dopo alcuni giorni dalla visione mi rendo conto che Boxer è un grande cortometraggio. Ogni immagine è una storia a sé, ogni scena è un percorso che ci conduce nei meandri oscuri della conoscenza, là dove lo sguardo dell’uomo va oltre il suo orizzonte. La ragazza salvata, aprendo la porta e trovandosi davanti il boxer fallito, esita un attimo, rimane immobile, incapace di reagire alla sorpresa nel vedere il suo “inutile” salvatore. Perché, mi sono chiesto, quando il boxer se ne va dopo che la ragazza gli ha chiuso la porta in faccia, desidero essere appagato nella speranza di vedere la porta che si apre in lontananza (come in tanti film con happy and) e allo stesso tempo desidero che la porta del cottage rimanga chiusa? La bellezza del film è anche in quel finale che lascia mutare il tempo nel primo piano del boxer che si volta (l’ultima inquadratura del cottage mostra sempre la porta dell’ingresso chiusa). Quel viso stanco e deformato da una vita di stenti e sacrifici (ha avuto una famiglia: si deduce da una foto e forse l’ha persa, chissà) osserva la porta del cottage. Si aprirà? No? Non lo sapremo mai.


Bukowski (di Daan Bakker, Olanda 2010)

Un elegante hotel di Amsterdam ha un ospite molto speciale per una notte: il famoso scrittore Charles Bukowski. Ha dodici anni e il suo vero nome è Tom.

Divertente e spumeggiante ma forse troppo sintetico. Comunque un corto di ottima qualità.

Voto 4 (buono)

Se per Boxer il mio 4 è diventato un 5 (ma troppo tardi) per Bukowski il 4 è un po’ troppo largo. La visione mi ha fulminato e sul momento ammetto che ero più che convinto di dare un 4. Trattasi di un cortometraggio brevissimo (nove minuti scarsi) e per questo forse fulmineo, spumeggiante, divertente, ma in fondo (comunque sempre un buon lavoro) un prodotto che può far sorridere per un attimo ma che non lascia traccia nell’osservatore. Bello ma algido, senza passione. Il ragazzino che dorme in una stanza con la sorellina più piccola, si spaccia con il personale dell’hotel per lo scrittore Charles Bukowski iniziando un gioco divertente e gradevole; inoltre alcune sequenze sono molto intense (vedi l’alternarsi dei primi piani del giovane faccino di Tom e del vecchio volto del Direttore dell’hotel), ma Bukowski rimane un prodotto che non sortisce effetti a lungo termine.


Casus belli (di Yorgos Zois, Grecia, 2010)

Persone di ogni genere, nazionalità, classe, età, in fila per sette. La prima persona in ogni riga diventa l’ultimo dei prossimi, formando una catena umana gigante. Ma alla fine della coda, il conto alla rovescia ha inizio.

Sorprendente e piacevole l'effetto domino di ritorno come l'attenzione alla cura delle "direzioni" delle persone in fila e della loro "caduta". Purtroppo questo corto si smarrisce nell'epilogo. Mi sarei aspettato (viste le premesse) qualcosa di diverso.

Voto 3 (sufficiente)

L’effetto domino di ritorno delle fila di persone che cadono è affascinante. La vita è una continua fila, al supermercato, all’entrata in discoteca, in chiesa, al museo, al gioco del lotto, al bancomat, davanti alla mensa dei poveri, ma la rabbia del paria che butta tutto all’aria (anzi basta colpire la prima pedina e l’effetto si ripercuote all’indietro) è lungimirante. Però,come ho letto anche in un commento il film a momenti sembra un “virtuosistico esercizio di stile”. Un lavoro ben fatto, molto curato (bella la sequenza iniziale al supermercato) ma che non approda da alcuna parte. Col tempo la mente si offusca, comincia a dimenticare. E infatti sto dimenticando l’epilogo. Possibile che stia già dimenticando un cortometraggio che al momento ho valutato bene?


Crossing Salween (di Brian O’Malley, Irlanda-Birmania, 2010)

Sopravvissuta al massacro della sua famiglia, una giovane ragazza deve affrontare un lungo viaggio attraverso gli orrori della giungla birmana, lungo il fiume Salween. Al di là del fiume si trova la libertà della Thailandia.

Semplicemente drammatico. In pochi minuti viene mostrata la tragedia del popolo birmano e con essa la voglia di vivere di una bambina. Sequenze perfette e bene assemblate, fotografia fantastica, l'interpretazione della piccola mi ha positivamente stupito. La sequenza delle esecuzioni e della cattura di Ko Rih mostra allo sguardo tutta l'assurdità e l'imprevedibilità della violenza, una sequenza che ricorda le tante immagini di guerra mostrate su internet, immagini di innocenti uccisi come in un videogame.

Voto 5 (ottimo)


Ho già detto tutto nel commento sopra, scritto di getto dopo avere visto il cortometraggio. E ancora oggi confermo il voto anche se mi rendo conto che dietro il film c’è una grande produzione, ma quando ripenso alla scena del bosco con i profughi in attesa di attraversare il confine (un fiume che separa la Birmania dalla Thailandia) e vedo arrivare i soldati che obbligano alcuni a inginocchiarsi prima di ucciderli, mi commuovo. È un film strappalacrime? No, penso proprio di no. La morte arriva improvvisa, in silenzio, arriva sotto forma di divisa e miete a caso nel fuggi fuggi generale, mentre chi viene ucciso attende inginocchiato e in silenzio che la sofferenza abbia termine, proprio come in un video game in cui basta inquadrare il nemico con un mirino, come nelle sequenze di guerra vera in Irak, quando da un elicottero si punta un uomo e lo si uccide con una raffica, con semplicità, come stare comodamente seduti sulla propria sedia. Questa non è la guerra fredda degli anni settanta ma la algida “pace” degli anni duemila. Non potevo esprimere un voto più basso, nonostante (ora che ci penso) alcuni difetti. Mi sono visto in quella boscaglia, ho sentito un brivido scorrermi lungo la schiena e non ero seduto alla consolle per giudicare un popolo, ma stavo nuotando insieme a Ko Rih, una bambina birmana, sola, in fuga verso il suo futuro.


Elder Jackson (di Robin Erard, Svizzera, 2010)

Missionario mormone, Jacob Jackson vive una vita semplice, tra l'evangelizzazione e la vita della comunità. Il suo incontro con Kathy, un altro membro della Chiesa, sarà per lui fonte di turbamento. Bloccato tra il suo desiderio e la struttura rigida della chiesa, incapace di gestire il suo amore in crescita per la ragazza, Jacob è confuso. Portato al limite, potrà finalmente mostrare il suo vero volto.

Film di grande qualità. Sceneggiatura buona, recitazione che non fa una piega, regia raffinata. Reso magistralmente l'erotismo che sprigiona dalla visione della gamba della Ruchat che seduce Elder: scena emblematica ed emozionante.

Voto 4 (buono)

Come farsi sedurre da una ragazza attraverso i particolari del suo volto, della ciocca di capelli che passa davanti agli occhi, la gambe che si intravedono dietro lo spacco della gonna , i suoi movimenti , i suoi occhi. E in effetti a un certo punto (come è stato evidenziato anche in un commento) ho cominciato a sentire il suo profumo e a questo punto ho condiviso il desiderio di Elder ma non la sua reazione. Un bel film che mi ha turbato anche se ho percepito l’insieme del lavoro con un po’ di distacco. Probabilmente perché una sceneggiatura simile è più adatta a un lungometraggio. Chissà.


Fabbrica de muñecas (di Ainhoa Menéndez, Spagna, 2010)

Anna lavora in una fabbrica di bambole. Tutta la sua vita ruota intorno al gesto meccanico di mettere gli occhi sui volti delle bambole . Ma un piccolo cambiamento nella catena di montaggio cambia la sua vita per sempre.

Un bel cortometraggio. L'automatizzazione della catena di montaggio ha contribuito ad automatizzare anche i movimenti e i comportamenti degli operai, ma l'aspetto più interessante del corto viene espresso anche "fuori" dalla fabbrica, dentro la stessa vita, la casa, le abitudini e i movimenti di tutti i giorni che rimangono sempre alienati. Solo un inceppamento (fabbrica), un incidente (perdita dell'occhio) può permettere ad Anna di assumere un nuovo sguardo o almeno di provarci. Al di là di alcune incertezze (es.: il rapporto con l'uomo, ma la breve durata del corto non poteva comprendere anche questo) il lavoro mi sembra di grande qualità.

Voto 4 (buono)

Subito dopo aver visto il film volevo assegnare un “ottimo”, ma sono bastati alcuni secondi per decidere di abbassare di un punto il mio voto. Non saprei dire perché. Forse in effetti (come ho letto dopo in un commento) l’idea della catena di montaggio è un po’ datata (adesso siamo alla catena della perdita del lavoro, della precarietà) anche se non è solo una catena di montaggio ma anche una perdita di lavoro, pertanto non datato perché o “fai” movimenti determinati, voluti e decisi dal potere, o puoi pure iniziare a cercare il nulla su un giornale. Il film mi ha emozionato quando è caduto l’occhio nel lavandino, un occhio di bambola che impedisce allo sguardo di innalzarsi sopra il velo conforme che offusca il mondo e nasconde gli oggetti. Il caso però fa sì che l’occhio cada e che debba essere sostituito, allora la visione stereoscopica prende il sopravvento, il colore si fa materia, acquista consistenza e comincia a decostruire il mondo velato per cercare l’esatta collocazione degli oggetti.


Hai in mano il tuo futuro (di Enrico Maria Artale, Italia, 2010)

In una società in cui il controllo del comportamento individuale si è radicalizzato attraverso un sistematico monitoraggio delle urine, un giovane ragazzo, chiuso nel gabinetto, aspetta lo stimolo giusto con l’apposito barattolino in mano. Si sforza, ma non c’è verso. Una giovane infermiera lo osserva attentamente: la sua bellezza complica le cose. E la tensione aumenta…

Split-screen che alla fine stanca, epilogo prevedibile e ottuso. Peccato perché il film possiede una potenzialità intrinseca notevole. Con maggiore attenzione al montaggio e una sceneggiatura più chiara sarebbe stato un corto di ottima qualità (ad esempio il rapporto con la ragazza che controlla le minzioni è stato trascurato). Comunque se non altro molto divertente.

Voto 3 (sufficiente)

Sinceramente la prima parte mi era piaciuta. Soprattutto l’idea del valore aggiunto delle urine utilizzate da un potere ctonio per controllare i propri cittadini, perché dalle analisi delle urine si vede ciò che bevi o mangi (cibo, bevande, droghe, caffè, salvia) e pertanto la vita che conduci. Controllare le tue orine equivale a controllare la tua vita. Però l’epilogo con quella rivolta quasi da cabaret, con le urine che schizzano in faccia al rappresentante del potere, agli analisti, agli impiegati e i poveri cittadini-sudditi che si ribellano con goliardia, e il giovane ragazzo che non trova di meglio da fare che baciare l’infermiera addetta a osservare che le minzioni siano effettuate con correttezza (niente spaccio insomma di urina pura) mi sembra sinceramente troppo.


Intercambio (di Antonello Novellino, Antonio Quintanilla, Spagna, 2010)

In un tranquillo paese la vita scorre secondo i ritmi dettati dall’agricoltura. Ma il governo sequestra tutto il raccolto e la fame si abbatte sulla cittadina. Come sopravvivranno gli abitanti?

Film bello e angosciante. Sintesi della crudeltà del potere e della lotta per sopravvivere. L'opera trasporta nel "nostro" mondo la tragedia di una realtà che fingiamo di vedere, ma che non ci tocca minimamente. Per questo mi sarei aspettato una maggiore incisività anche se le sequenze sono buone. In altri termini, certe scene mi sembrano distanti, come viste da lontano e magari era proprio questa l'intenzione di Novellino. Peccato non potere essere in sala a porgli la domanda.

Voto 4 (buono)

Questa la domanda che ho posto a Novellino “Il film è angosciante e l'epilogo è un vero e proprio pugno nello stomaco, però sembra mancare di passione. A momenti sembra di assistere a un documentario storico che racconta per immagini eventi lontani nel tempo e nello spazio (la dura vita dei contadini di un passato neppure poi tanto lontano e la sofferenza del terzo mondo). Mi sembra che non sia stato approfondito il rapporto tra figlia e genitori, almeno nell'epilogo mi sarei aspettato maggiore pathos. E' stata questa una scelta autoriale? Forse il regista voleva sottolineare la distanza tra la nostra "facile" vita quotidiana e la sofferenza a cui siamo sempre più indifferenti? Ma in tal caso non sarebbe stato preferibile trovare altre soluzioni più coinvolgenti? Grazie”. Penso di non aggiungere altro. Certo devo constatare che il film ha vinto ex aequo il premio Corto Europa e quindi qualcosa possederà se è piaciuto alla maggioranza dei giurati. Inoltre anche il sottoscritto ha espresso un voto abbastanza alto, pertanto in effetti il film merita, ma… non so.. per me non era da annoverare tra i migliori. Tutti i gusti son gusti.