La
festa in casa di Jep dell’incipit è tra le sequenze più suggestive del film.
Sette minuti circa di danza collettiva, una discoteca sulla terrazza,
l’erotismo sprigionato in ogni attimo, quasi volgare, pregno di labile
appagamento, luogo in cui si brucia inesauribile il desiderio di una mancanza.
L’assenza dell’amore vs la presenza della morte. La danza di corpi che si
dimenano, gli sguardi che si lanciano in richieste oscene nella canzone di
Raffaella Carrà (“A far l’amore comincia tu”) per afferrare l’attimo
nell’illusione di congelarlo. Un carpe
diem che ricorda molto da vicino il concetto oraziano nei cui epodi domina
il tema della morte inscindibile dal tema del tempo. « È la morte che dà
all’uomo l’angoscia del tempo, perché è la morte, ultima linea rerum (epist. 1, 16,79) che toglie al tempo la
rassicurante ciclicità della natura per distenderlo nella breve linea della
vita umana» [1]. Il carpe diem del
resto, come afferma Traina, è circondato da molti divieti: vedi a esempio l’ode
1, 11 ricca di performativi negativi: non indagare il futuro (ne quaesieris), è peccato sapere (scire nefas), non tentare l’oroscopo (nec temptaris), non prolungare la speranza oltre il breve spazio
della vita (spatio brevi/ spem longam
reseces), non farti illusioni sul domani (quam minimum credula postero)
[2]. L’attimo inteso come luogo dell’ansia, rifugio nel presente per fuggire
dal futuro. Ma nell’opera di Sorrentino l’attimo è solo rinviato. La rinuncia a
conoscere gli sguardi, a ripudiare il tema ricorrente per alimentare l’irrazionale
desiderio di nascondersi alla vita. Il preconcetto, il ruolo da ricoprire,
senza sorprese, senza possibilità di sfuggire all’etichetta che l’altro ci ha
stampigliato sulla fronte. Siamo quello che siamo, come una scrittura che
continua ansimante a mendicare evidenza anziché a creare nuove prospettive. Lo
sguardo di Sorrentino piuttosto, nel sottolineare la mancata fusione di corpi,
mostrando singole, disarticolate possibilità di movimento, si sofferma a manifestare
il tentativo di esorcizzare la noia; nella sequenza in oggetto la noia si
palesa come informazione collettiva, una massa di esseri che rimangono soli per
dimenticare la percezione della loro esistenza. In effetti il tema nel caso specifico non è il racconto
della vita, ma la parte vuota del racconto stesso, il suo incavo, ciò che non
si dice o non si vuole dire perché dicendolo, il senso perderebbe forza
riducendosi a mero dato inutilizzabile. E nel ballo reiterato, come nel
silenzio della danza di una donna tatuata e relegata dietro una vetrata, si sostiene, si racconta il vuoto che c’è tra
le cose, non le cose stesse, per citare Godard, ma quello che c’è tra le cose,
non la storia, o la vita mondana o la dolce vita, o il desiderio, ma l’assenza
che cresce, si allarga, debordando dallo schermo, sin dalla prima sequenza:
l’assenza dell’amore. Eppure l’amore andrebbe ricercato, non è una cosa da
raccontare ma un Graal da inseguire magari inutilmente, magari per l’intera
vita, da trovare nelle pieghe recondite di un discorso, nel fondo di occhi che
osservano, nell’oscurità di una scogliera con il mare in basso, calmo ma fragoroso,
e nello sguardo di una ragazza che mostra il seno e nient’altro. Se dovessi
esprimere una sinossi dichiarerei che il film è la ricerca dell’amore trovato
finalmente a ritroso nel passato, che è stato celato nei meandri reconditi
della mente di Jep. L’amore pertanto è un nucleo, piccolo, quasi introvabile, ma
allo stesso tempo denso significato puro; pertanto diventa soggetto epico,
capace di svanire lentamente, senza pathos, tra i ricordi e le parole, nel
blabla quotidiano, scambiato spesso per sesso, eppure così distante,
intramontabile, inspiegabile. Il contrasto tra il silenzio, luogo di
riflessione e meditazione, della breve sequenza del sogno (o ricordo)
ricorrente, con il mare in basso e la calma che domina e quella dell’incipit, fragorosa, lunghissima,
della danza collettiva sulla terrazza, luogo canonico in cui l’amore viene
negato dai movimenti dei corpi, questa differenza di potenziale, genera un
campo elettrico che oscura le immagini. Sia l’amore che il suo contrario (la
solitudine di corpi contumaci, vicini ma così distanti, uniti nelle danze ma
così separati) si perdono nel vuoto di tante vite sospese nella vita mondana,
priva di amore e nostalgica di amore. La danza è un elettrochoc linguistico nel
senso di luogo dove non è possibile decodificare i segni, dove l’ineffabile
diventa il dio da adorare, perché il linguaggio relega l’amore nel sapore amaro
di un ricordo: la grande bellezza
[1] Alfonso Traina in Quinto Orazio Flacco, Odi e Epodi, Biblioteca Universale Rizzoli,
19935 Milano, p. 10.
[2] Ivi,
p. 14.
Hor. Odi ed
Epodi 1,11
Tu ne quaesieris, scire nefas,
quem mihi, quem tibifinem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati.
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.
2 commenti:
Immenso Luciano, un pozzo di cultura
Cinematografica.
Mi mancano le nostre chiacchierate e l istituto... A presto
Federico
@Federico. Che piacere vederti qui sul mio blog. Come stai? E i Vision Divine? tutto bene? Mancano anche a me le nostre chiacchierate, specialmente quelle su... sai cosa intendo. Spero di poterti vedere presto all'Istituto, il solito covo di folli. Grazie ancora. A presto!
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