25 agosto 2011

The Tree of Life (Terence Malick, 2011): emozione-pensiero 3/4

“Amaranta sentì un tremito misterioso nei pizzi delle sue sottane e cercò di aggrapparsi al lenzuolo per non cadere, nell’istante in cui Remedios la bella cominciava a sollevarsi. Ursula, già quasi cieca, fu l’unica che ebbe tanta serenità da riconoscere la natura di quel vento ineluttabile, e lasciò le lenzuola alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che la salutava con la mano, tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei, che uscivano con lei dall’aria degli scarabei e delle dalie, e con lei attraversavano l’aria in cui si spegnevano le quattro del pomeriggio, e con lei si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria” (1)

The Tree of Life è un film sulla carne e di conseguenza sugli effetti collaterali causati dal “peso” oggettivo di sopportare questo fardello. La spiritualità che alimenta il film in ogni sua inquadratura e lo infiamma con un simbolismo interessante ma forse a momenti persino ridondante e per alcuni addirittura retorico (2) perderebbe la sua efficacia senza l’alimento fondante di ogni discorso sul “male di vivere”: emozioni e pulsioni provocate da ormoni, endorfine, monosaccaridi (cortisone, adrenalina, glucosio, ossitocina, ecc.). Mi rendo conto che queste affermazioni possono risultare banali se non altro perché qualsiasi discorso sulla spiritualità e sulla religione parte dal dolore e dalla sofferenza della carne, sopportato e controllato dall’amore per l’umanità e la redenzione dei peccatori, ecc. ecc. Non è mia intenzione entrare nel merito della trascendenza e della fede, discorso certamente fondamentale ma che non rientra nell’idea che mi sono fatto del film. L’amore, la grazia, il panismo della Sig.ra O’Brien non scaturiscono da una dimensione ulteriore, ma provengono direttamente dal tempo, trasportando le ecchimosi dell’universo, quelle bolle di vita (dolore, sangue, gioia) che possono essere metabolizzate soltanto tramite le reazioni spontanee di un corpo. La signora O’Brien è forse la figura più “elevata” e più consapevole, colei che riesce ad assorbire la “radiazione cosmica di fondo” con tutti i pori della pelle, a farsi penetrare da ogni più piccola fibrillazione della natura (aria, acqua, terra, fuoco), a compenetrarsi fino a fondersi totalmente nelle effrazioni quotidiane che il tempo e la materia operano sul corpo usurandolo. Questa carnalità sprigionata dal corpo della donna, e sottolineata da un rossetto sulle labbra che la rende sensuale, si respira in ogni sequenza, la si vede crescere nel fotogramma fino a esplodere in un effluvio di luce in grado di mostrarci la purezza dei colori . La vita riempie ogni organo della donna e ogni sensazione provata si manifesta emergendo nelle espressioni del volto e nei movimenti che si sviluppano spesso in vere e proprie danze. Se il Signor O’Brien (che al contrario limita il suo corpo quasi con soggezione, uniformandosi e facendosi condizionare dalle regole di una società severa e bigotta) dimostra il suo amore per la musica cercando di riprodurla (è un pianista rimasto deluso dal proprio fallimento), la moglie sfugge continuamente alla norma, perché il suoi movimenti non sono prevedibili: essa si muove in continuazione, corre, gioca con i figli saltando sul letto o facendo il girotondo, si nasconde dietro gli alberi senza farsi limitare o condizionare dalla legge e dal discorso (3). A lei non interessa il successo, non vive con il corpo bloccato nel presente e la mente proiettata nel futuro: vive nell’eternità, vede la formazione dell’Universo, l’amore della vita per la vita, la pietà, l’evoluzione. Sente la presenza della morte come condizione e completamento della vita, altra faccia della medaglia che spesso determina le scelte casuali della materia (senza l’estinzione dei dinosauri i mammiferi avrebbero preso il sopravvento?). L’Amore per lei non è una parola o un rimpianto ma un districarsi continuo di infinite vibrazioni, sensazioni (piacere, dolore, emozioni) che riempiono e allargano gli orizzonti della mente. In The Tree of Life Malick cerca di seguire il percorso dell’Amore, sentimento fondamentale per sviluppo e crescita della specie, sentito tramite le reazioni ormonali di un corpo senza le quali la mente non potrebbe proiettare all’esterno i propri progetti (tecnologia, costruzioni, cultura, ovvero abiti, capanne, riti). Seguire questa corporalità spirituale, obbliga il regista a correre dietro ai vari volti, gambe, piedini, cercando di mostrare la particolare espressione, le linee delle mani e dei piedi, relegando l’esterno (ciò che condiziona e altera i corpi e di conseguenza le menti) sullo sfondo (un bambino che annega, un uomo sul prato che si sente male). Poiché l’oggetto del film è lo spazio-tempo, nel senso che il film “racconta” la storia dello spazio-tempo, racconto e discorso si fondono o, usando una terminologia cara a Roland Barthes, funzioni cardinali (nuclei) e secondarie (catalisi) si confondono. Intendo affermare che il plot deve possedere una tale struttura, altrimenti, se Malick avesse deciso di optare per un tipo di cinema con struttura più classica o post-classica, probabilmente le immagini e le sequenze sarebbero risultate stereotipate. D’altronde raccontare questa dimensione così profondamente “spirituale” pone un problema di difficile soluzione: come raccontare l’eternità della materia (o se vogliamo diciamo pure l’onnipotenza di Dio) senza rischiare di trovarsi davanti a un prodotto promozionale? Al contrario il problema delle riprese potrebbe sussistere per gli altri personaggi. La donna riesce a influenzare la materia circostante (compresa la propria famiglia), mentre alternare (anche se sarebbe stato interessante vederne gli esiti) stili differenti di ripresa avrebbe creato problemi di non poco conto (il cinema classico avrebbe potuto prendere il sopravvento trascinando l’intero film nei rischi e nei pericoli delle rapide del luogo comune). Infatti il rischio sarebbe potuto emergere, per esempio, nella sequenza di Jack adulto, elencando i motivi di un matrimonio fallito (è sua moglie o la sua amante quella donna che si alza dal letto?), un rapporto su cui non ci sono indizi definitivi (ma hanno o non hanno fatto sesso?). Domande, problemi, curiosità che avrebbero immesso il film nell’alveo che porta allo sconfinato mare dell’omologazione (rendere trasparente il fatto che il rapporto di Jack con la moglie sia in crisi sarebbe come dire a qualcuno, tanto per rompere il ghiaccio, che non ci sono più le mezze stagioni). Jack adulto, sintesi e proiezione corporale del tempo (Jack bambino regola e determina l’uomo che diventerà), che sente tutto il fallimento dell’uomo post moderno in quanto incapace di metabolizzare il tempo e la materia (se non costruendo nella mente un ipotetico portale da oltrepassare) vorrebbe legarsi alla madre (unica donna amata?), dichiarando il suo sentimento panico, pur rimanendo condizionato dall’orrore e dalla presunzione della Regola (il Padre) tra l’altro alla fine ripudiata dal padre stesso in quanto prodotto limitato al comune sentire di un breve periodo storico di una piccola zona del pianeta (concezione newtoniana dello spazio e del tempo). La gravità limita e condiziona convincendoci che l’orizzonte sia una linea e il Sole effettui il suo moto di rivoluzione intorno alla Terra mimetizzando il mondo in un’idea fallace. Ma non è così. La ricerca del successo, così come gli insegnamenti (una propedeutica del cinema da ricostruire?) che potrebbero entro certi termini avere un valore, non possono trasformarsi in regole buone per tutti i tempi e tutte le occasioni. L’aspetto più interessante ed emozionante del film risiede nell’efficacia dell’inconscio bi-logico in grado di trattare la relazione asimmetrica, tra una relatività quotidiana e un’eternità assoluta, come relazione simmetrica (ad esempio se Jack è il figlio del Sig O’Brien anche il sig. O’Brien è figlio di Jack e nel film Jack adulto può anche essere visto come il padre di se stesso – del Jack piccolo – o il figlio di se stesso) (4). In altri termini, la consapevolezza della precarietà della carne si fonde con il bisogno della mente di pensare l’eternità. Le rughe che affondano giorno dopo giorno sulla fronte contrastano con il pensiero capace di immedesimarsi in ogni corpo, correre e giocare come un bambino, scavalcare montagne, gettarsi nelle rapide, cavalcare le alte onde e calpestare un suolo primitivo. Le membra stanche e l’abitudine, le geometrie che occupano lo spazio (il cemento, il vetro dei palazzi), che si allargano come un nulla capace di inghiottire il passato, in altre parole l’ordine e le regole, condizionano il nostro corpo o quello che facciamo del nostro corpo. La signora O’Brien invece è sempre un gradino più in alto, è sempre una sequenza avanti a quella che stiamo vedendo. Forse per questo Malick ha adottato un tipo di ripresa simile: come avrebbe potuto altrimenti seguire questo suo fantastico personaggio? Una ripresa classica avrebbe fissato e catalogato la madre probabilmente in un personaggio tipo, mostrando pochi piatti elementi (donna visionaria o addirittura folle o fanatica). Per esempio: se fosse stata ripresa in un campo contro campo, sarebbe fuggita dietro il quadro nel controcampo successivo, così come, in una classica carrellata, la sequenza non avrebbe potuto afferrare la sua corsa zigzagante e imprevedibile. Il suo corpo a un certo punto si è talmente caricato di emozioni (amore, dolore, desiderio, volontà) che ha cercato di librarsi in aria come per unirsi al proprio pensiero, volare con esso. Forse nemmeno Malick, nonostante il suo cinema geniale, avrebbe potuto cogliere l’attimo in cui la sig.ra O’Brien spicca il volo. Allo stesso modo la descrizione di Garcìa Márquez si limita a informarci che nemmeno “i più alti uccelli della memoria” possono raggiungere Remedios la bella, donna bellissima e desiderata capace di ascendere al cielo con la propria carne. Prima di vedere la sequenza della Signora O’Brien che si libra, vibrando, nell’aria, non ero mai stato così profondamente consapevole del fatto che il cinema può anche essere il cinema.

(1) Garcìa Márquez, Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1979 (11), pp. 246-247
(2) La retorica del film potrebbe scaturire da certe immagini reiterate in particolare le inquadrature del cielo con la luce che abbaglia lo sguardo che rammenta la luce divina di tanta pittura Rinascimentale.
(3) La legge produce conseguenze sanzionatorie (giurisprudenza), oppure può prevedere effetti conformi ad altri già verificatisi (sperimentazione) oppure può solo costituire il punto di partenza per altri teoremi (matematica): queste sanzioni o previsioni o teoremi “assoluti” possono condizionare lo sguardo e limitare il libero arbitrio di chi guarda. Tradotto in termini cinematografici: l’affermarsi della grammatica nel cinema ha indotto a credere che la “grammatica” sia diventata Legge indiscutibile (assoluta) e pertanto capace di produrre sanzioni a carico di chi la trasgredisce (chi non rispetta le regole del cinema è fuori dal cinema). Solo l’approccio sperimentale potrebbe in parte accettare un modello trasgressivo da recuperare e ricomprendere nella formulazione dopo una parziale revisione della legge stessa. Il discorso è fondamentale ma non è mai stato un modello compatto, univoco, da prendere come Legge e regolamento a cui adeguarsi. Il discorso è in continua evoluzione e nonostante ormai possa sembrare tramontato definitivamente come processo in costruzione (le varie teorie della narratologia ad esempio) può essere sempre ampliato e approfondito. D’altronde l’arte mostra sempre il lato debole delle varie teorie che cercano di definirla.
(4) cfr. Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla Bi-logica (1975). Per approfondire l’argomento risulta interessante e molto ben fatta la tesi di laurea di Ugo Concilio liberamente scaricabile dal sito Il mondo di Sofia e precisamente qui). Questo lavoro, nonché le scarse conoscenze che possiedo sulle teorie psicanalitiche di Ignacio Matte Blanco, mi è servito a chiarire il “ruolo” di certe mie emozioni suscitate dal film. Voglio qui riportare un periodo della tesi che mi ha molto colpito: “Rimane, comunque, la constatazione che l’opera d’arte possiede la straordinaria capacità di proiettarci nel mondo dell’emozione (il mondo dell’indivisibile) anche solo attraverso l’intelletto (attraverso, cioè, la logica bivalente, dividente). Nel fruitore dell’opera come nell’autore, avviene uno strano fenomeno: emozione e pensiero appaiono come un’unica cosa […]” Ugo Concilio, La teoria della bi-logica di Matte Blanco e la dodecafonia di Schönberg (Tesi di laurea)

4 commenti:

Ismaele ha detto...

manca il testo di una nota a piè di pagina?
ciao

Luciano ha detto...

@Ismaele. Ti ringrazio per la segnalazione. Si tratta di un refuso, una nota a piè pagina che avevo inserito in precedenza relativamente all'ultimo periodo del mio post. Purtroppo non ho avuto il tempo di trovare le fonti riportate in nota (appunto la n° 5) e non me la sentivo di citare a memoria, pertanto ho deciso di cambiare l'ultimo periodo ed eliminare la nota, ma mi sono dimenticato di togliere il numero in apice. Provvedo subito a correggere il post. Grazie^^

Anonimo ha detto...

Questo approfondimento sul corpo, soprattutto in relazione al bellissimo personaggio della signora O'Brien (reso bellissimo anche dall'anticonvenzionalità con la quale i suoi movimenti sono ripresi, così come digi egregiamente nel post), mi ha fatto ritornare in mente uno dei tanti motivi per i quali ho amato moltissimo questo film.

Ale55andra

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Il personaggio della signora O'Brien è stupendo, il suo corpo che si connette con il mondo ed entra letteralmente in vibrazione con le pluridimensioni del creato, è un "pezzo" di cinema con la C maiuscola, perla rara da ammirare e custodire quasi con gelosia. Una grande emozione.
A presto^^