14 giugno 2011

The Housemaid (Im Sang-soo, 2010)


Interessante ma usurata la trama di The Housemaid non brilla di luce propria. La storia di una cameriera che rimane incinta durante una “scappatella” di un ricco uomo d’affari , oltre a rappresentare un topos di tanta letteratura, conduce direttamene alla cronaca, come nel pettegolezzo di molti racconti orali che potremmo benissimo udire dal barbiere oppure ascoltare con curiosità in attesa di essere serviti dal fruttivendolo. L’epilogo è già rivelato sin da quando Euny entra nella lussuosa villa dei suoi anfitrioni: metti una cameriera carina e apparentemente sciocca sulla strada di un uomo potente e ricco, sposato a una moglie giunta agli ultimi giorni di gravidanza e impedita almeno in parte a fare sesso, e il risultato sarà per lo meno un’altra donna incinta. Nonostante ciò la trama è il punto di forza del film, seppure consumata, conosciuta, risaputa, e per questo materiale grezzo adatto a essere plasmato e lavorato al fine di produrre un’opera di grande qualità. Il discorso irrompe sulla scena, prende il sopravvento producendo forme atipiche ma appunto genuine, fresche. The Housemaid è un altro esempio, se ce ne fosse ancora bisogno, di come un grande regista (o uno scrittore o un artista) sia in grado di realizzare un testo di valore anche con storie esili e stereotipate. È risaputo che la trama debba rappresentare l’antidoto principale alla noia (ragionamento che tra l’altro non mi convince del tutto)(1) per cui servono una struttura e un piano narrativo che la indirizzino in tal senso. Pertanto ritengo che la scelta di un argomento talmente sfruttato (oltre, suppongo, all’omaggio del regista all’originale del 1960) ha permesso a Im Sang-soo di penetrare nei meandri degli eventi per approfondire la conoscenza dei personaggi e delle loro relazioni. Nel film vi sono molti aspetti che mi hanno incuriosito. Per non dilungarmi troppo mi soffermo a indicare quelli che mi sembrano più interessanti. Gli effetti di reale, che secondo Barthes servono a definire il realismo (2), sono talmente utilizzati e reiterati da diventare i mattoni fondamentali dell’opera, le fondamenta della struttura, senza cui non sarebbe stato possibile per Im Sang-soo penetrare in profondità al fine di lavorare sulle fobie dei personaggi e mettere a nudo la rarefatta e “inutile” vita oziosa dell’alta borghesia sudcoreana. Eppure questi stessi oggetti, questi dettagli che pullulano in ogni immagine, in ogni inquadratura, mostrati e reiterati, evidenziati fino alla noia, fino al disgusto, non servono, come direbbe Barthes, a definire un “nuovo verosimile”. Il realismo di The Housemaid (la storia è ovviamente reale come è reale il fatto che il prodotto di una notte di sesso possa essere una gravidanza) non viene rafforzato dai dettagli (che “dicono” appunto di essere il “reale”). In The Housemaid siamo piuttosto in presenza di una “adulterazione” del reale, nel senso che tutti gli oggetti, tutti i dettagli acquisiscono, durante l’alternarsi delle sequenze, una sorta di alone magico; sono simboli di un vuoto incolmabile, manufatti “creati” allo scopo di nascondere la mostruosità del benessere visto come causa della paura o del furto (il padrone di casa che approfitta di Euny distesa sul letto, rubandole una notte di sesso). L’effetto di reale si dissolve lentamente nel simulacro di una rappresentazione, non avendo relazione con qualsiasi realtà pur risultando vero (3). Il vino di qualità ruotato nel grande calice, i vassoi portati da Euny a Hoon intento a suonare il piano, i corpi che si immergono nell’acqua contenuta in vasche e piscine sono esempi di come l’effetto di reale possa essere utilizzato a livello simbolico: ad esempio il gesto apparentemente logico di gustare il vino, reiterato continuamente da Hoon e da sua moglie così come dalla governante Byung-shik e dalla stessa Euny, è per alcuni il gesto di uno status acquisito (ricchi e belli) mentre per altri l’illusione di essere per lo meno trattati con rispetto (l’illusione del suddito?) e di conseguenza non è un effetto, un “riempitivo” che sottolinea e garantisce la genuinità dell’icona, ma un modo di sottolineare l’artificiosità del filmico: i personaggi si muovono e si comportano come automi che devono seguire una programmazione, sono simulacri che hanno preso il posto dei loro corrispettivi umani. Le carrellate seguono i gesti in ogni minimo particolare sia nella nudità dei corpi (Euny che lava Hera nella vasca, i corpi dei due amanti che si sfregano), sia nei doveri del dipendente (Euny che porta il cibo sul vassoio a Hoon, la preparazione del cibo, la cura parossistica del corpo di Hera); oppure la mdp mostra il superfluo, l’abbondanza (tutti i giocattoli ordinati della bambina, gli avanzi da buttare eppure sempre edibili per governante e cameriera). I gesti colti sin nei minimi aspetti, il materiale mostrato come simbolo del lusso (cibo, vino, vasellame, tavoli, ecc.) non sono l’effetto di reale “non necessario” alla storia (4); ricordano piuttosto l’effetto di un morbo che contamina e brucia la vita: ossia la paura depurata da camuffamenti e giustificazioni (ad esempio: la glassatura di coraggio che dovrebbe nascondere la paura dell’eroe o un obiettivo da raggiungere come arricchirsi o laurearsi o vincere una gara). Questo film potrebbe essere definito un horror in quanto l’ansia si evolve, si accumula sequenza dopo sequenza: tutti i personaggi sono terrorizzati dalla rarefazione della vita. Ha paura Hera ossessionata dall’idea di vedere un figlio non suo irrompere un giorno nella villa per reclamare i propri diritti; ha paura la madre di Hera temendo di non poter più controllare la figlia; ha paura Byung-shik, prima della sua metamorfosi, di liberare i propri veri sentimenti per non perdere il lavoro e, dopo il cambiamento, di rimanere prigioniera del lavoro; ha paura Hoon di perdere la sua autorità sugli altri (il dialogo con la suocera, l’incontro con Hera che prende tra le braccia i piccoli appena nati, l’espressione stupita davanti al rifiuto di Byung-shik di prendere ordini, ecc.). I materiali non sono il reale, crescono e si formano come un laboratorio che contiene le azioni degli uomini e le determina. Sono contenitori dove le cavie devono compiere obbligatoriamente gli stessi gesti studiati e analizzati dal ricercatore. Non “effetti di reale” ma formazioni mostruose, nuove forme della disperazione e della prepotenza che acquistano, soprattutto nell’ultima sequenza, connotazioni surreali. Altro aspetto: verrebbe da dire il solito “doppio”. Nel film però non c’è un “doppio” vero e proprio, bensì un’altra formazione mostruosa, una sorta di ectoplasma, un materiale fluido e colloso che esonda in ogni angolo della casa; verrebbe da dire che il doppio non è più un antagonismo, una contrapposizione tra bene e male, ma una sorta di moltiplicazione esponenziale di interfacce. Se dovessi spiegarlo con la pittura direi che il doppio potrebbe essere un ritratto a due facce (una pulita e bella e l’altra oscura e sfregiata), la moltiplicazione potrebbe essere un ritratto cubista: ad esempio La femme qui pleure di Picasso in cui il grande pittore rappresenta la sua Dora Maar resa succuba e obbediente, ormai votata al sacrificio dopo aver rinunciato a diventare una grande fotografa(5). Il doppio si eclissa, anzi soccombe davanti alla serialità. Non c’è tempo di scoprire il male dentro di noi perché in The Housemaid lo spettatore viene introdotto in una realtà in cui il male ha già preso il sopravvento, e l’unità classica dell’immagine e dell’etica sono andate in pezzi. Le immagini mostrano i frantumi di un mondo che fu e i materiali (oggetti e gesti) sono i riflessi, i residui di un mondo perduto. Oserei direi che siamo oltre il digitale. La scelta è frantumata e qualunque essa sia conduce ogni volta al disastro. Pertanto nel film domina la reiterazione: quante volte vediamo il vino roteare nel bicchiere, i vassoi con il cibo portati al padrone, Hoon che suona il piano. Persino quegli aspetti che denunciano la possibilità di un doppio affondano nel fango della serialità: la madre e la figlia come doppio della governante (madre) e della cameriera (figlia)? Le relazioni tra i personaggi sono già denunciate o meglio corrose, sbiadite: Byung-shik sembra una matrigna che addirittura dà il la alla tragedia (rivelando alla suo alter ego-madre che Euny è incinta), la madre di Hera sembra una sorella della figlia nell’aspetto fisico come nell’espressione della medesima inalterabile malvagità, soprattutto con il tentato omicidio (fa cadere la scala sui cui è salita Euny per spolverare la lumiera), mentre Hera “si limita” ad avvelenare lentamente Euny. Non sembrano l’una il doppio dell’altra, sono pezzi separati e identici di uno stesso organismo. Nell’incipit c’è anche la caduta dall’alto che presagisce gli eventi futuri: la ragazza sul tetto del bar si suicida gettandosi nel vuoto; al contrario Euny cade nel vuoto e non muore solo “perché” è stata spinta da altri. Nella sequenza del suicidio tenterà di impiccarsi al lampadario del salone, senza cadere, davanti agli sguardi di un pubblico indifferente (un impiccato non scuote più il suo pubblico) che si agita solo alla vista dell’improvviso falò (Da dove sono giunte quelle fiamme? Direttamente da una vecchia pellicola di celluloide che prende fuoco per essersi inceppata nel proiettore?) Il doppio è il vero disperso del film. La frantumazione è già avvenuta e l’universo degli esistenti adesso è una tragedia in fieri. Persino gli schiaffi che Hera, moglie tradita, dà a Euny, non stanno a quelli che Euny stessa dà a Byung-shik. I primi sono l’espressione di una sopraffazione, la realizzazione di un obbligo (la serva ha osato mettere le corna andando a letto col marito e pertanto, nel ragionamento sillogistico di Hera, vuole rubarglielo e di conseguenza non può che essere colpevole)(6), al contrario quelli della cameriera sono lo sfogo di una ragazza che voleva tenere nascosta la sua relazione con il capo. In fondo Euny e Byung-shik, le sole schiaffeggiate, sono, in quanto unici personaggi che hanno subito un cambiamento, due donne intimamente trasformate, esistenti che dominano il plot fino all’epilogo. Entrambe dicono “mi spiace” senza reagire alla violenza: solo il potere può impunemente esercitarla con sotterfugi, mentre al paria è lasciata la possibilità di mostrarla o rappresentarla. L’horror fa effetto quando e se riesce a scuotere il suo pubblico con uno spettacolo pirotecnico: non basta una caduta sul marciapiede per smuovere le persone dal rapporto coi loro oggetti (cibo, cellulari, auto), serve una fiammata che avvampi la notte e riempia lo sguardo (arte). Anche se solo per un attimo, solo fin quando lo spettacolo rientra nell’ordinario di un mondo surreale in cui l’arredamento lussuoso ospita la famiglia riunita e “felice” in una casa senza pareti.

1) Mi scuso per l’inciso che aprirebbe un discorso complesso e… “noioso” sul concetto di “noia”.

2) “[…] la carenza del significato a vantaggio del solo referente diventa il significante stesso del realismo: si produce un effetto di reale, fondamento di quel verosimile inconfessato che costituisce l’estetica di tutte le opere correnti della modernità” . R.Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi 1988, p. 158.

3) Sarebbe interessante anche leggere questo film attraverso la visione postmodernista di Braudillard sulla scomparsa del referente a causa dell’adorazione dell’immagine (sviluppo delle tecnologie, media, realtà virtuale) per cui viviamo in un mondo iperreale. In altri termini: intrattenimento, tecnologia, comunicazione e persino l’arte sono esperienze emotivamente più gratificanti e coinvolgenti dell’anonima vita reale.

4) R. Barthes, op. cit. pag. 152

5) A questo punto sarebbe interessante capire il sacrificio di una donna che rinuncia alla sua vita, al proprio lavoro per seguire la volontà e l’orgoglio del grande uomo che sarà pure grande ma anche capace di annullare la volontà altrui.

6) Sarebbe interessante approfondire l’argomento analizzando l’evoluzione dell’idea di “colpa” nella società post-moderna e come essa sia legata non solo alla religione (che in quanto tale potrebbe anche essere ritenuta una “colpa” democratica, ossia legata all’uomo in quanto tale) ma soprattutto all’idea che le classi dirigenti si sono fatte del “proprio” popolo e dei motivi per cui ciò che è permesso a taluni non lo è ad altri. Mi rendo conto che nel film la colpa viene scaricata sulla donna (sull’uomo, come sempre, solo di riflesso) ma qui mi pare che la colpa sia un concetto legato al comportamento di chi è costretto a ubbidire, pertanto mi sembra che la colpa stia assumendo o abbia assunto una connotazione oligarchica nel senso che essa è inversamente proporzionale al benessere e soprattutto al grado di potere di chi “sbaglia”.

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