
parte seconda - IL DOPPIO
Prima della sequenza del breakfast allo specchio abbiamo già assistito ad uno “scambio” molto più complesso. Abbiamo infatti visto Danny che dialoga allo specchio nel bagno della sua abitazione con il suo “doppio Tony, il sosia che vive nella bocca di Danny, tipico enunciato perturbante freudiano, istanza formatasi nell'io come critica e osservazione di se stessi. Secondo Freud infatti il perturbante acquista ancora più forza nel sosia proprio perché il familiare si è trasformato in "censura, rimozione, coercizione". Entriamo nel bagno dove scorgiamo il bambino di spalle che dialoga osservando il suo volto riflesso nello specchio (inquadrato dalla macchina da presa), ossia l’immagine virtuale di Tony che si è attualizzata(1) relegando Danny nel “mondo”. Quando l’immagine di Tony-Danny occupa l’intero schermo, avviene qualcosa di imprevisto: Danny si materializza nello specchio, scambiandosi con Tony, nel momento in cui il terrore comincia a trasformare il volto del fanciullo. Non è più Tony attualizzato nello specchio che parla con Danny, ma è Danny stesso nella sua realtà all’interno dello specchio, che osserva. Il suo occhio si apre sul visibile, sull’inconcepibile che non può che trovarsi dalla parte di chi sta osservando. Danny è terrorizzato dallo sguardo dello spettatore che non è altri, nel controcampo, che un flusso trascendente e incontenibile, ma anche terrorizzante (il corridoio allagato da una valanga di rosso-sangue e l’apparizione quasi istantanea delle due gemelle). Con le gemelle si ha inoltre l'incarnazione stessa del doppio che prende vita affiorando direttamente dall'orrore, ossia da una istantanea, una foto congelata nel tempo, provenuta dal passato (o dal futuro?) di due bimbe, immagine che sappiamo inviata dagli incubi dell'infanzia del mondo (e dell'uomo). Le immagini si susseguono in sequenza e dopo il volto di Danny nello specchio, il corridoio col rosso che scroscia e le due gemelle, abbiamo ancora il volto di Danny avvolto in una quasi oscurità (non più lo specchio) e ancora il sangue che inonda lo schermo oscurandolo. La visione di Danny, lo shining, va oltre il visibile, oltre gli stereotipi che utilizziamo ogni giorno per riconoscere le cose, oltre quelli che Deleuze definisce “cliché”, ossia le immagini senso-motorie delle cose che ci rendono solo lo schema abbozzato della cosa stessa. «Le situazioni quotidiane, come pure le situazioni-limite, non si segnalano per qualcosa di raro o di straordinario. È solo un’isola vulcanica di poveri pescatori. È solo una fabbrica, una scuola… Passiamo a fianco di tutto questo, anche della morte, anche degli incidenti, nella nostra vita abituale o in vacanza».(2) Non è più possibile tollerare, sopportare le immagini come oggetti banali del quotidiano, appendici del nostro essere, il mondo che fugge, che corre, la sua apparente superficialità. Bisogna farsi veggente per cogliere l’intollerabile, ciò che sta oltre lo specchio, ciò che sta oltre noi stessi, dietro le apparenze, bucare i “cliché”. Lo sguardo di Danny terrorizzato che sperimenta l’orrore del mondo (ciò che nasconde l’Overlook Hotel) ricostituitosi al di qua dello specchio in un vuoto, in una rarefazione dell’immagine, viene come assorbito dall’impenetrabile, un luogo dove il senso si apre all’infinito, sfuggendo a qualsiasi determinazione. In questo mondo rarefatto il suo sguardo trascina anche il P.d.V. di chi osserva. Ovvero è il P.d.V. dello spettatore che si fonde con lo sguardo di Danny, senza immedesimarsi. Si instaura un rapporto, una relazione tra ciò che vediamo e ciò che è visto. Lo sguardo vaga in una continua indeterminazione, sospeso nel vuoto, cercando di andare oltre, senza mai soffermarsi su un dato certo. La visione della stanza “237” ci trasporta in un labirinto di sguardi, anzi è il labirinto della nostra mente con i suoi bisogni, terrori, desideri che trascina continuamente le immagini che si susseguono. O meglio è la memoria che «[…] ricostruisce il ‘falso’ movimento che la mente ricompone nell’immaginario […]».(3) Nella “237” l’avventura dello sguardo si dipana in un percorso circolare, vi è un continuo transfert di punti di vista: la camera inquadrata mentre si apre la porta sembra una soggettiva del regista (ma non dimentichiamo che questa presunta soggettiva potrebbe essere la “visione” di Halloran che “sente” ciò che Danny, con la bava alla bocca, ha appena “visto”), ma invece scopriamo una mano che apre la porta del bagno e nel seguente controcampo vediamo che si trattava di una soggettiva di Jack Torrance. Nel prosieguo della sequenza i P.d.V. si accumulano uno sopra l’altro formando vere e proprie pile di sguardi: Jack entra nel bagno e vede una donna nuda che va verso di lui, i due si abbracciano, si baciano fin quando lo sguardo di Jack spaventato osserva dinanzi a sé le loro immagini riflesse nello specchio dove, ancora nel virtuale che si attualizza, la donna giovane è diventata una vecchia in via di decomposizione. Ma lo sguardo di Danny si sovrappone a quello di Jack, vede la donna vecchia immersa nella vasca da bagno, mentre dal punto di vista della vecchia che cammina ridendo si vede lo sguardo terrorizzato di Jack che indietreggia e nel controcampo che segue Jack vede la vecchia che gli va incontro, mentre Danny è terrorizzato dalla “vista” della vecchia che esce dalla vasca da bagno. Siamo di fronte ad una moltiplicazione dei P.d.V. e uno sguardo assoluto e dominante (onnisciente) non è determinabile. Si forma come un circuito che collega gli sguardi dei personaggi e dello spettatore, senza inizio né fine, dove ciò che conta non è la logica dell’evento (Danny ha visto quel che ha visto o la sua veggenza si sta formando adesso attraverso lo sguardo di Torrance? E con la sua visione anche quella di Halloran?)
(1) Usata nel suo significato filosofico di rendere reale, riportare in termini moderni, attuali, reali.
(2) Deleuze G., L’immagine-tempo, P. 31.
(3) Bruno E., Dentro la stanza, p. 49.