29 marzo 2011

Easy Girl (Will Gluck, 2010)

Nel momento in cui Olive decide di cucirsi la famigerata lettera sugli abiti, non fa altro che trasferire nel suo mondo arcaiche usanze per fortuna abbandonate in quanto norme di legge obsolete e inaccettabili. La sua “A” scarlatta ribadisce l’esistenza dei frammenti di un’America puritana del XVII sec.(1) giunti sino ai nostri giorni, poiché i pettegolezzi viaggiano velocemente oltrepassando spazio e tempo. In effetti anche lo spazio è solo apparentemente quello di un High School americana, anche se popolato da personaggi non molto dissimili da quelli di tanti altri istituti descritti in molti film di genere made in USA. I corridoi della scuola, gli armadietti, i porticati e i piazzali sono luoghi animati da studenti informati del nuovo status acquisito da Olive. E non ha importanza quale sia la verità, perché ciò che conta non è, per quanto riguarda l’omologazione, il fatto in sé, ma il racconto. La menzogna obbliga il bugiardo a organizzare un mondo coerente e verosimile che sia in grado di non discostarsi troppo dai criteri e dalle regole dettate dall’omologazione culturale. Organizzare un mondo fittizio, introdurlo davanti alla “visione” di un pubblico che “deve” credere in quel mondo, al fine di ottenere un risultato positivo (successo), implica capacità notevoli di organizzazione e creatività. Olive e i suoi amici (coloro che le propongono di stabilire un patto) diventano “attori” che si muovono in una sorta di “realtà immersiva” (2). È un po’ come trovarsi sulla scena del crimine, uno spazio in cui si devono cercare gli indizi per ricostruire le modalità del reato. L’omologazione non è quindi un universo coeso come nel romanzo di Hawthorne (3) ma si dirama in una serie di rivoli di ogni tipo che non rappresentano una diversificazione culturale, perché in fondo confluiscono tutti nello stesso fiume. Non a caso Rhiannon e Marianne (due esempi di differenti modi di vedere la vita) si troveranno dalla stessa parte, pronte a giudicare il comportamento di Olive irrispettoso del comune senso del pudore. Se Marianne rappresenta (volutamente in maniera grottesca) l’eccesso del bigottismo puritano, Rhiannon (cinematograficamente parlando) è la tipica ragazza d’oggi, con i desideri, le pulsioni e la voglia di trasgredire. Eppure quando nell’epilogo i due mondi si fondono nel giudicare gli “eccessi” di Olive, ci rendiamo conto quanta poca distanza scorra tra il mondo descritto da Hawthorne e le dicerie di una “moderna” Higth School americana del ventunesimo secolo. Il film, oltre a essere una commedia interessante proprio perché evita i luoghi comuni del genere, acquista valore nel cucire con il filo degli avvenimenti quotidiani una storia “dimenticata” (e pertanto studiata a scuola e che Olive mostra al Professore di conoscere bene). La fiction organizzata da Olive e dai ragazzi che desiderano “salire” la scala della “considerazione scolastica” (non secchione ma playboy) diventa il nucleo narrativo fondamentale per lo sviluppo dell’intreccio, costruisce i presupposti per denunciare quanto sia fragile e pericoloso attenersi ai pregiudizi e alla credenza nelle notizie amplificate dalle apparenze. Eppure l’aspetto più interessante dell’opera non è la descrizione di un mondo dove contano le apparenze e dove i pettegolezzi sono all’ordine del giorno, un mondo in cui per farti notare devi mentire confessando anche azioni non consone al comune senso del pudore. La qualità di Easy A scorre tutta nell’idea di mostrare quanto i giudizi più o meno moraleggianti (alcuni amici più liberali avrebbero anche potuto prendere le parti di Olive) scaturiscano da una “ricostruzione” del reale che sia efficiente e “logica”, in cui sia possibile tessere delle storie funzionali e coerenti. Fin quando Olive decide di agire seguendo la medesima direzione che ha voluto presentare allo sguardo della comunità degli studenti (mostrando un corpo coeso con le aspettative dell’omologazione) non suscita alcun interesse negli altri (l’incubo americano dell’invisibilità) in quanto incapace di presentare un discorso intelligibile e interessante. Easy A è l’esaltazione della fiction che presuppone la capacità di sostenere la menzogna (propinandola per verità) con una buona sceneggiatura (Olive che va al letto con alcuni ragazzi) e una buona recitazione (il finto amplesso di Olive e Brandon alla festa in casa di una studentessa). Il bugiardo per essere tale deve costruire mondi verosimili ma falsi, deve essere un artista di intrecci (scrittore, sceneggiatore, regista, ecc.). La comunità crede pertanto al racconto, non alla realtà e giudica la rappresentazione con maggiore enfasi della noiosa vita di Olive (che trascorre tutta sola un intero weekend a casa). La menzogna non si manifesta tanto (o solamente) nel creare uno scenario verosimile (Olive è una puttana) quanto nel garantire un surplus di credibilità, di convincere badando a mostrare una compattezza di verità che solo il Falso riesce a garantire, come pure nello sviscerare un piano narrativo che (persino nelle autobiografie) restituisca il senso di un percorso prima organizzato e poi seguito. Il bugiardo è artista in quanto riesce a mantenere in piedi un mondo con coerenza, logica e forza espressiva capace di infondere emozione e passione nell’interlocutore. Il bugiardo è capace di mostrare qualcosa che potrebbe sfuggire al nostro sguardo, ossia la parentela tra bugia e seduzione. (4) Per essere tutto questo bisogna costruire eventi (mostrarsi col ragazzo), essere coerenti (una storia deve avere una sua struttura) e soprattutto dire vere bugie. Il film è molto interessante in quanto scardina i cliché del genere anche se purtroppo nell’epilogo si indebolisce cercando di ripristinare i dati di partenza tramite la rivelazione della verità di Olive nel momento in cui, stanca di mantenere la sua storia fittizia e di essere emarginata dai compagni di classe, rivela alla webcam di essere l’artefice di un inganno, fuggendo di conseguenza con Todd, unica persona rimasta per propria scelta ai margini dello spettacolo. Forse sarebbe stato preferibile sospendere l’arrivo della verità relegandola nel limbo del conformismo in quanto valore manipolabile (ad esempio se Olive avesse copulato con i ragazzi sarebbe stata un’altra verità?). Pertanto con la loro “unione” (peraltro indicata come epilogo sin dall’incipit) il film si squaglia davanti al romanzo limitandosi a collegare la denuncia del puritanesimo del XVII secolo, che condannava le adultere a portare per punizione il marchio infamante della loro colpa, alla denuncia del pettegolezzo che condanna ogni singolo a essere rappresentato da una maschera riconoscibile da tutti senza possibilità di cambiamento pena il pubblico ludibrio. La lettera scarlatta portata da Olive diventa quindi il logo di una denuncia, non il marchio di un’onta. Se ciò che per la donna è vergogna mentre per gli uomini è vanto, se ciò che gli altri si aspettano da te non è esattamente quello che desideri, se il puritanesimo bigotto è in fondo il prodotto del pettegolezzo che viaggia alla velocità della luce, la “ragazza-a” è solo in parte una novella Hester Prynne: entrambe rappresentano la libertà della mente rispetto ai luoghi comuni dell’omologazione culturale, ma a Olive manca la passione dell’adultera.


(1) Temporale (XVII sec.) ma anche spaziale perché l’indipendenza, le libertà e le pari opportunità per la donna sono negate ancora in molti paesi e in altri sono continuamente violate o ipocritamente non confermate nei fatti.
(2) L’UACV (Unità per l’analisi del crimine violento) è una struttura della Polizia Scientifica che utilizza ricostruzioni tridimensionali (realtà immersiva) acquisite con scanner laser 3D per creare più modelli 3D relativi alla scena del crimine in grado di essere rivisitati e modificati dall’investigatore.
(3) Hawthorne, La lettera scarlatta (1850)
(4) “Se Goldoni non lo avesse umiliato e non lo avesse a tratti piegato a una sorta di infamante minorità, Lelio potrebbe sembrare un eroe eponimo della bugia. Anche così è in grado di sovrastare i propri predecessori (Dorante e don Garcia) e di mostrarci qualcosa che finora ci era sfuggito: la parentela stretta tra la bugia e la seduzione, alle cui spalle si profila l’ombra notturna e ansiosa del narcisismo. Quale seduttore potrebbe essere sincero? E nel mentire non c’è forse un desiderio – come dice Lelio in assoluta sincerità – di procurare un piacere, di riscattare una realtà troppo piatta e ovvia e priva di invenzione e di spirito? [..]” Mario Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992, pp.96-97. In questo volume Lavagetto nel capitolo “Altri bugiardi” (pp.93-97) si sofferma sulla commedia di Carlo Goldoni Il bugiardo

(1750).

20 marzo 2011

Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010) 2/3: il doppio dimezzato

Il cigno nero è la storia di un doppio che si modifica e prende il sopravvento come un Mr. Hyde che consuma lentamente un Dottor Jekyll. Il plot, da questo punto di vista, è molto semplice: un’anima candida “beve la pozione” e s’intossica facendo uscire allo scoperto la sua anima nera che prende il sopravvento. Trascorrere “una stagione all’inferno”(1), per sperimentare comportamenti e azioni “immorali”, potrebbe annichilire il candore di un’anima che avrebbe voluto conquistare il mondo senza fare i conti con la forza del potere e la debolezza della legge non sempre in grado di garantire pari opportunità per tutti. Nina sperimenta sulla propria pelle l’aberrazione del potere di Thomas e la fatica di resistere alle sue invereconde avances spacciate per propedeutica artistica. Thomas giustifica il suo potere e tutto ciò che ne deriva per un bisogno, una sete d’arte; si presenta come maestro in grado di gestire e tutelare l’esatta corrispondenza tra arte e vita, come se l’arte fosse in grado (e lo è?) di condizionare e trasformare l’evento. Chiedere a un’artista (Nina) di unire talento a dissoluzione significa rifiutare uno dei presupposti dell’arte, equivale a ignorare quanto la conoscenza possa rimediare al bisogno empirico di assaporare l’abisso per emergere “rinnovati” a “nuova vita”. Chiedere a Odette di diventare anche Odile, in quanto scelta mondana, potrebbe essere pertinente, ma non in quanto scelta artistica, perché l’artista si annulla nella conoscenza di ogni aspetto più recondito anche della peggiore abiezione (la sua stagione all’inferno), mentre la sperimentazione empirica limita lo sguardo alla superficie senza affondare nella ricerca di altri percorsi alternativi e può limitare il punto di vista dell’artista che non deve essere quello dello sperimentatore, ma del creatore. Thomas, attante trasformazionale, è pertanto un catalizzatore che serve a mostrare falsi bersagli, è un labirinto senza uscita, che, se imboccato, trascinerebbe in una inutile omologazione in cui l’arte si annulla, la danza gira a vuoto come vacuo movimento, sprigionando sensazioni senza creare sogni, e il sesso è una forma di consenso per staccare il biglietto di un effimero successo, luogo dove l’artista muore facendo emergere l’involucro di un’immagine vuota (2). Thomas (se si eccettuano i ballerini e l’uomo della metropolitana) è l’unico maschio del Cigno nero e forse singolo fattore esterno, è agente destinante che indica a Nina la missione (abiezione) per ottenere l’oggetto del desiderio (perfezione). Il percorso però non è all’esterno, ma tutto concentrato all’interno della mente e del corpo di Nina, percorso che viene mostrato attraverso gli specchi, le visioni e il disegno, ossia attraverso media senza cui non potremmo entrare nello stato d’animo di una schizofrenia latente che il destinante è in grado di far emergere. D’altronde questo movimento dall’interno (la mente di Nina) all’esterno (la sala di danza, la discoteca, la metropolitana, l’ospedale, la casa di Nina) è allo stesso tempo mentale e corporale in quanto due in effetti sono gli aspetti fondanti del film: la carne e la percezione. Il corpo di Nina sente il bisogno di uscire dalla sua nicchia di pudicizia per esprimere le proprie pulsioni, cerca disperatamente di sviluppare un percorso coraggioso ma allo stesso tempo pericoloso che conduca a un controllo maggiore della propria carnalità. Il corpo (o meglio la capacità di muoversi con armonia sul palcoscenico) è il mezzo per raggiungere il successo, la perfezione, ma è anche fonte di dolore e piacere. Gestire il corpo significa creare un equilibrio fra dolore e piacere, tramite un controllo ponderato da parte della mente. Però il corpo può sfuggire al controllo in molti modi in quanto la carne segue regole proprie spesso in contraddizione con la volontà e tendenzialmente disposta a trasgredire leggi imposte dalla società o per lo meno da un certo modo di intendere un percorso educativo che un uomo dovrebbe o potrebbe percorrere.
La carne può opporre una resistenza efficace al controllo tramite dolore e desiderio sessuale. Il dolore è connesso alla lacerazione interiore che nel film viene esteriorizzata tramite l’escoriazione, la pelle strappata e tirata via, i graffi sulla schiena. Ma questa lesione spesso è mostrata dallo specchio, nascosta in qualche modo al di qua dello specchio (pomate, vestito). La lacerazione della carne, le unghie rotte e le cuticole tirate via, il sangue che fuoriesce o i graffi che lasciano già intravedere il pus, sono ostacoli al controllo del corpo, rappresentano una preoccupazione, metaforizzano la paura. Il desiderio, latente sin dalle prime sequenze, poiché la danza è anche espressione di sentimenti ed emozioni tra cui amore e desiderio sessuale (anche Odette ama il suo principe e vorrebbe danzare con lui in un amplesso), deve essere espresso con maggiore intensità. Nina si deve lasciare andare e diventare Odile. La carne potrebbe prendere il sopravvento rischiando di legarci a un corpo stereotipato, coagulo di erotismo e bellezza patinata, come richiesto da un mercato conforme a un gusto manipolato.

1. Il Korper. Rischi del corpo-oggetto o doppio per metà
Thomas chiede a Nina di farsi corpo oggetto, di trovare un connubio, una fusione del suo corpo con la cosa, di dare forma a un nuovo approccio di mondo, rinunciare cioè ad un controllo etico-artistico della sua danza (e dell’espressività del corpo soggetto) per approdare in una dimensione in cui la scelta di mondo equivale a produrre una nuova figura che sia più “cosa” che”corpo”, un corpo oggetto, valido in quanto sensuale, in quanto estrapolato dalle regole della danza (pertanto eviterei di paragonare la danza del Cigno nero alla splendida danza del Lago dei cigni) in cui le stesse regole conosciute (peraltro ben conosciute da Nina perché la parte di Odette non viene mai messa in discussione e Lily stessa fa di tutto per rubarle solo la parte del cigno nero) perdono valenza (pur mantenendo la loro efficacia) per far esaltare l’informe, o meglio una certa tendenza per cui il corpo danzante perde fisicità per diventare mero oggetto di mercato dato in pasto alla libidine e al desiderio sessuale. Pertanto il doppio in questo film si realizza soprattutto nell’erosione di una certezza (la migliore danza) e nell’aumento di un’entropia (per cui non ci può essere un ritorno allo stadio iniziale) tendente ad avvalorare la tesi di una danza-sensualità, in grado di trasformare un corpo in oggetto. Nina, pur tentando una timida opposizione, non solo finisce col cedere, ma lotta per imporre l’esito della sua metamorfosi, procurandosi una forma artistica, che se da una parte conduce a uno scollamento con la vita (situazione) dall’altra introduce nella fecondità della creazione artistica (fiction). Il corpo si fa oggetto non in quanto materiale assemblato per il mercato (design del doppio cigno), ma soprattutto come sintesi ineffabile di un’emozione, “infinito intrattenimento” (3) che reitera nella sequenza la dilatazione infinita di un momento (bellissima a tal proposito la sequenza finale che meriterebbe da sola un’analisi più approfondita e pertinente).

2. Il Leib. Recupero della realtà fisica
Ciò che il corpo di Nina perde via via nel corso della storia, ciò che le sfugge senza speranza, il cigno acquista allo stesso tempo. Quando giunge l’ora di far uscire la propria identità segreta e indossare il costume che simboleggi la propria sconfitta, l’arte inonda l’immagine. L’avvento del corpo-oggetto “oscura” il teatro; il sangue mentale (4) dirotta lo sguardo obbligando a decostruire il mondo percepito, a rivedere il connubio oggetto-soggetto (doppio) per constatare che Nina non è un corpo-oggetto. È un corpo che “si muove nello spazio”, che percepisce e interagisce con il mondo non solo attraverso lo sguardo (video), il tatto (tango) o l’olfatto (oleo), ma con l’integrità della propria carne. L’esperienza di Nina è pertanto un’esperienza di un corpo nel mondo (5), un percorso di conoscenza totale che non è relegata soltanto nel pensiero e nella ricerca dogmatica. Il Savoir (6) si realizza nell’azione, nel movimento e nell’ archetipo junghiano dell’Ombra (7), nell’atto di espellere-integrare l’ombra che vive in lei, ossia il cigno nero, da accettare come un’esperienza della carne intesa appunto come coagulo di proiezione mentale, profumi, visioni, odori, sapori, sangue, sesso. Semmai, se si vuole intravedere una sorta di malattia negli atteggiamenti di Nina, riferendomi sempre allo studio della fenomenologia merleaupontyana, si potrebbe affermare che la malattia di Nina (visioni, paure, timori) la obbliga a rimanere nell’attuale, senza capacità di “mettersi in situazione” ossia di interagire con il mondo tramite il movimento della propria carne (8). Il film definisce bene questi aspetti “fenomenologici” dell’agire della dolce Odette, quando Aronofsky decide di “occupare” lo spazio della ragazza cucendole addosso uno sguardo (primo piano), istanza oggettiva di un pubblico che vorrebbe possedere le sue ansie, in quanto sguardo interessato a scavare nel suo spazio vitale, togliendole l’ossigeno necessario per respirare profondamente la sua stessa storia. Uno spazio claustrofobico che restituisce l’apnea prolungata di Nina. Assistiamo pertanto a una perdita graduale dell’ossigeno che si definisce nell’epilogo attraverso il respiro sensuale, erotico, ma anche affannato di una Odile lanciata nella sua danza di cigno nero, ormai incapace di “mettersi in situazione”. In effetti, a ben vedere, il doppio di Nina-Odette (i tantissimi doppi messi sapientemente nel film) deve ancora crescere, svilupparsi, evolversi. Pertanto Lily non è il doppio di Nina, come Odile non lo è di Odette o Erica non lo è di Nina ma è Nina a essere il doppio della sua esperienza. In questo senso il film è un’esposizione di carne che avvolge il mondo “rappresentabile” della danza (9), un connubio di carne e sangue che pulsa all’unisono intrecciando rapporti (madre-figlia, giovane ballerina-ballerina al tramonto, Nina-Lily) in quanto esperienza sensibile di una proiezione corporale. Con questo non intendo affermare che nel film di Aronofski non esista il tema del doppio. Al contrario, poiché lo “sdoppiamento” è già avvenuto sin dall’incipit, assistiamo a una messa in opera di una “gemmazione”, ad una sorta di escrescenza che si proietta nel corpo dei propri doppi (il volto di Nina che Nina stessa vede delinearsi nel volto di Lily e addirittura il suo anti-corpo che incrocia all’uscita del teatro sin dai primi fotogrammi). Il doppio è già un dato di fatto, una certezza; anzi si è moltiplicato per cui non è più possibile recuperare un certo ordine “mentale” (sempre che sia fruttuoso recuperare questo stadio primigenio che non è mai presente nel film). In fondo Nina è già una Odile-Odette, perfettamente in grado di danzare i due cigni, capace di affermare la propria poliedricità, di sviscerare i propri sentimenti ed emozioni, in quanto carne che imprime al corpo un’esperienza “integrale”. Ritengo che la Nina “doppio cigno”, o almeno la sua doppia personalità, sia esattamente agli antipodi del Visconte dimezzato (10). Nel romanzo di Calvino l’operazione di cucitura per ricomporre un corpo sdoppiato serve a restituire al corpo le due anime (il Gramo e il Buono) del visconte Medardo di Terralba che in quanto separate non riescono ad entrare in sintonia con gli altri (anche l’anima buona alla lunga stanca), mentre nell’epilogo del Cigno Nero assistiamo alla “scucitura” di un corpo, alla patogenesi della carne, quando il montaggio decreta la “morte” del film, unico modo per suturare i mille rivoli di cui è composta un’esperienza mentale e corporale, un’esperienza della carne; pertanto la “bellezza medusea”(11) di Nina acquisisce romanticamente il suo meritato primo piano come termine ultimo di una chiusura che è anche, in fondo, l’abbaglio dello schermo bianco del cinema che ferisce l’occhio, che impone all’occhio un’altra dimensione dello sguardo.

(1) Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno (1873)
(2) Non è mio interesse esprimere giudizi “politici” citando fatti concreti, ma è possibile immaginare, per fare un esempio fra tanti, quanti siano gli pseudo artisti, grandi comunicatori illusionisti, precari millantatori ingannatori succhia cervelli, che animano le serate della malridotta televisione italiana.
(3) Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969)
(4) Il sangue che esce dalla doccia e che Nina provvede a coprire con un asciugamano non è soltanto il colore che (non) può sgorgare dal nero e dal bianco, colori in grado di occupare sistematicamente e progressivamente il proscenio. Il sangue diventa mentale, perché mostratoci dalla mente di Nina. Osservando quel sangue, lo sguardo, una volta ingannato, crede di vedere il risultato di un delitto (Nina ha ucciso Lily) ma in realtà vede la proiezione del sangue fuoriuscito dal corpo di Nina (perché Nina ha colpito se stessa), che non esiste in quanto sangue-oggetto (doccia) ma come sangue-soggetto (il corpo di Nina, mestruazioni? Deflorazioni?) e pertanto lo sguardo non è stato ingannato ma dirottato, perché Nina ha semplicemente ucciso il suo corpo-oggetto.
(5) Cfr. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il saggiatore, Milano 1965
(6) Savoir, in francese, sapere, comprende il vedere (Voir), e pertanto uso questo termine nel senso di saper vedere o conoscere attraverso la visione, la veggenza intesa nel suo significato rimbaldiano
(7) cfr. C.G. Jung, Gli archetipi del’inconscio collettivo, 1934.
(8) Cfr. Merleau-Ponty, cit.
(9) Ritengo che Il cigno nero non sia la danza. Pertanto non sono interessato alle polemiche atte a rimarcare l’estraneità o la distanza o la non verosimiglianza con la vita di una ballerina classica come riferito da molti. Ovviamente rispetto il punto di vista degli altri, ma ritengo che non abbia valenza pretendere l’attinenza del Cigno nero alla vita professionale di un corpo di ballo. Ad Aronofsky non interessa la verosimiglianza ma la conoscenza, perché Nina non è solo una ballerina classica, ma anche e soprattutto un corpo che cresce e che si scontra con la propria ombra ed è un quadro visto dal suo pubblico, amato e desiderato dal suo pubblico.
(10) Cfr Italo Calvino, Il visconte dimezzato (1952)
(11) “Bellezza meduséa, la bellezza dei romantici, intrisa di pena, di corruzione e di morte[…]” Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni Editore, Firenze 1976(5), p.39.

10 marzo 2011

Copia Conforme (Abbas Kiarostami, 2010)

Poiché non è possibile conoscere l’originale, né tantomeno la sua natura più profonda, qualsiasi atto, intenzione, proposito, di ridurre la conoscenza a mera descrizione dell’aspetto o di un supposto “significato” espresso dal manufatto (che sia oggetto, opera d’arte, cronaca, storia, umanità, vita) è destinato a produrre un luogo comune, un limite che racchiude la parte più rarefatta del nulla. Ingabbiare l’avventura conoscitiva di un rapporto interpersonale nel racconto (ma anche nell’analisi psicologica) potrebbe portare a una banale catalogazione che nulla aggiungerebbe al dato di fatto in sé. La “bellezza” della storia di una coppia (sposi, amici, fratelli, ecc.) non deve essere annullata dal rischio di etichettare il loro rapporto (crisi coniugale, divorzio, tradimento). La scrittura è la traccia di un'origine perduta (1), di un originale impossibile da trovare (anche noi siamo delle copie, prodotti di un DNA preso di nostri genitori). Come la realtà sfugge al linguaggio impossibilitato a uscire dai propri limiti (2), così l’originale sfugge alle definizioni, illude con la credenza in un atto, in un gesto, obbligando a emettere un giudizio, a etichettare un meraviglioso mondo non definibile. Copia conforme è la storia dell’impossibile ricerca dell’Origine (del mondo, dell’umanità, ma anche di una storia d’amore), è un percorso che non avrà mai termine, perché, una volta trovato, esso stesso sarà poi la copia di un ulteriore originale situato in un altro luogo o tempo (nel caso della Musa Polimnia(3) di Lucignano il luogo di provenienza sarà Ercolano). Ma se dovessimo proseguire il nostro itinerario, e percorrere tutti i musei del mondo per cercare le opere “vere”, scopriremmo che l’atto linguistico non potrebbe in ogni caso comprendere la loro essenza, la loro produzione, il loro rimandare ad altri originali (modelli, autori, contesti, mondi, culture). Pertanto in cosa differisce Musa Polimnia, la “vera copia” di Lucignano, dal suo originale? La differenza è nell’emozione, nelle sensazioni del fruitore, nelle sue capacità di porsi davanti a una spazialità e temporalità perdute. In fondo la “vera copia” di Lucignano emoziona, “stupisce” forse anche più dell’antico affresco romano e quindi la copia conforme è anch’essa un (nuovo) originale. La tendenza a catalogare l’originale deriva anche dalla supposta conoscenza di una delle sue copie (giudico la “Gioconda” dalla foto della Gioconda riprodotta su un catalogo del Louvre di Parigi) e dalla presunzione di averne afferrato il senso. Con questo non intendo dire che la copia sia irriducibile all’originale, ritengo che il bagliore del Principio, il modello (o il profilmico), possa essere acceso solo dalle sue copie (più o meno) artistiche. Mentre nel mondo “l’oggetto” viene automatizzato come calco usurato dall’abitudine, nell’arte la “copia” riaccende il fioco bagliore del manufatto nello sguardo del suo pubblico (4). Ma a Kiarostami non sembra interessare, se non di riflesso, lo studio dell’originale in quanto natura (cipresso, paesaggio ma pure marito, moglie, figlio), anche se il regista apre un’interessante parentesi. In una sequenza, James, seduto accanto a Elle nell’auto che li porta a Lucignano, dice: “Quindi si prende un oggetto qualunque, si mette in un museo e… cambia il modo in cui viene visto dalla gente. L’importante non è l’oggetto ma la percezione che si ha di questo”. E ancora: “Guardi questi cipressi, li vede? Sono bellissimi. Sono unici. Voglio dire, non si vedono mai due cipressi uguali […] Originalità, bellezza, età, funzionalità. La definizione di un’opera d’arte è questa in fondo. Solo che non stanno in una galleria, ma… nei campi e così non ricevono l’attenzione che meritano”. La vita non è l’arte perché si svolge nel mondo (campo) e l’arte nel museo (testo). Il regista quindi preferisce lavorare sul testo, portare pertanto il cipresso nel museo (gli sposi preferiscono farsi fotografare sotto l’Albero d’oro di Lucignano, non tra i cipressi e gli olivi della Val di Chiana); Kiarostami si interessa della copia in quanto copia di una copia (la foto della Gioconda copia della Monna Lisa del Louvre copia del volto e del sorriso di Lisa Gherardini), la copia come “atto” che ne riproduce un altro, la cui “fedele” corrispondenza all’originale è attestata (nel caso del film) da funzioni e idiomi facilmente riconoscibili da un certo tipo di pubblico (l’originale ma anche la copia acquistano valore solo nei musei o in particolari luoghi deputati all’arte). Per mettere in evidenza l’importanza della copia (l’importanza di un atto che simula un oggetto) e per rendere impenetrabile il plot al rischio di una identificazione, bisogna disturbare la trasparenza naturale del racconto che illude lo spettatore di vivere una storia vera, e lo conduce a proiettare le proprie aspettative e i propri problemi nella storia raccontata. Pur riprendendo metodi cari ai registi della Nouvelle Vague (riprese in esterno, dialoghi nei bar, specchi, carrellate, riflessi su parabrezza, sguardo in macchina, voce acusmatica, oggetti mostrati in parte o decontestualizzati, ecc.) Kiarostami rompe il giocattolo dell’identificazione aumentando l’opacità del film, lavorando il plot stesso tramite “disturbi” trans-narrativi, vagamente Lynchiani. In altri termini il regista iraniano decide di trasformare la relazione tra James ed Elle durante lo stesso sviluppo della storia raccontata. Il rapporto della coppia si definisce attraverso repentine trasformazioni che definirei ellissi metamorfiche. James ed Elle avrebbero potuto conoscersi durante la presentazione del libro di James e quindi recarsi a Lucignano dopo molti anni, magari dopo essersi sposati. Kiarostami ha deciso di eliminare stacchi e dissolvenze che possono separare due momenti differenti (il prima e/o il dopo) abbandonando il plot in una sorta di eternità magmatica in cui il rapporto della coppia si erode perché allo stesso tempo è già eroso e potrà erodersi. Copia conforme sembra una vita condensata in un giorno, o meglio in un breve viaggio tra le colline toscane, tramite una sorta di ellisse invisibile che “lavora” il film dall’interno, fondendosi direttamente con la storia. La metamorfosi, la trasformazione del rapporto dei due personaggi, da semplici conoscenti a sposi consumati e litigiosi, non è solo nel discorso, non si evidenzia soltanto come struttura che organizza la fabula in intreccio, ma è essa stessa discorso e racconto, una fusione totale, indivisibile del materiale. Il materiale diventa così la stessa traccia dell’origine perduta, la materia irraggiungibile, non catalogabile né “raccontabile”. Pertanto l’aspetto più interessante di quest’opera non è da trovare tanto nello stupore dello spettatore causato dalla trasformazione “istantanea” di un rapporto che conduce la coppia in pochi attimi a bruciare la propria “involuzione”. L’acquisita consapevolezza (la vita non è rappresentabile se non nella corrispondenza con la sua copia che in quanto riproduzione “conforme” attesta peculiarità altrimenti irrintracciabili) induce a soffermarsi nel valore della copia che in quanto “prodotto seriale” può essere tranquillamente presentata a un vasto pubblico senza correre rischi. Il rapporto di James ed Elle, la loro istantanea evoluzione da single a sposi consumati dall’abitudine, diventa emblema e sintesi di un “reale” ménage e pertanto ancor più vero (nella sua palese falsità) dei veri rapporti coniugali. Ma l’aspetto forse più interessante è il lento divenire di questo rapporto da copia conforme a copia difforme, nel senso che la copia (Juliette Binoche e William Shimell, l’imitazione dell’opera d’arte, l’imitazione del matrimonio) non è più o soltanto una “rappresentazione” ma una “presentazione”. Il loro matrimonio, oltre a essere conforme a tanti matrimoni immaginati dalla mente e codificati da anni di visioni e conoscenze anche personali, dal momento in cui l’incontro si trasforma in “giochiamo a fare marito e moglie”, non è più una copia conforme, una rappresentazione (artistica o meno) che oscilla tra verosimiglianza (la nostra idea del rapporto di coppia o le aspettative diegetiche che ci portano a verificare ogni inquadratura come pertinente) ed effetti di reale (oggetti anche inutili sulla scena), pertanto atta ad agevolare la trasparenza del mondo riprodotto; il loro matrimonio appunto è divenuto una mera presentazione di un nuovo prodotto metamorfico, che trascina la credenza in un mondo nell’abisso insostenibile di una raggiunta consapevolezza: la copia non è simulacro di un evento ma essa stesa nuovo evento da studiare. In altri termini il linguaggio, nel definire un’opera, non insegna a conoscere l’opera stessa, perché, qualificandola e spiegandola, dà forma a un altro manufatto. Copia conforme pertanto è l’esaltazione della copia ritenuta migliore e più vera dell’opera originale come opera difforme che, nel tentare di definire e catalogare, riduce l’opera a un’altra opera, magari migliore, più interessante, ma pur sempre un’altra opera. La storia di James ed Elle subisce una metamorfosi definitiva, la coppia è allo stesso tempo una coppia in fieri di sposi che sviluppano la loro crisi coniugale e una coppia di attori che prestano la loro fisicità ai personaggi amplificando il senso di una storia comune così come la Coca cola, il ready-made di Jasper Johns, viene inserita, in quanto oggetto di consumo, direttamente nel dipinto poi mostrato alle capacità riflessive ed emozionali di un pubblico (bellezza e funzionalità). Una copia (il ready-made di Johns), ma anche una co(p)pia difforme, nuova struttura da analizzare (il film che si appropria della storia ed esce allo scoperto rompendo l’illusione di realtà e l’identificazione dello spettatore). Comunque i metodi per evidenziare questa “difformità”, tipici del cinema moderno, differiscono da quelli caratteristici della Nouvelle Vague (mi riferisco in particolare al cinema di Godard) sia per la rinuncia a interrompere il plot con i deittici (esempio: i ciak o le telecamere o il cast che sta riprendendo gli attori), sia per la precisa puntualizzazione di una differenza fondamentale: la citazione non è soltanto un’esponenziale moltiplicazione dei significati (arte romana, Jasper Johns, Andy Warhol, ecc.) utilizzata in senso moderno, ma anche un modo quasi postmoderno di giocare con gli stilemi della Nouvelle Vague. Ad esempio i riflessi sul parabrezza dell’auto guidata da Elle, che mostrano i palazzi medievali capovolti, oltre a citare i riflessi sul parabrezza dell’auto guidata da Ferdinand e Marianne in Pierrot le fou, vogliono anche prendere le distanze, quasi giocando con certo cinema moderno (e in questo c’è una venatura postmodernista). Infatti mentre i riflessi colorati sul parabrezza dell’auto in Pierrot le fou sono i colori del ricordo (5), quelli di Copia conforme, nella loro disarmante razionalità (il parabrezza diventa uno specchio che mostra contemporaneamente i due sposi in nuce e il percorso che stanno seguendo) sono la copia (conforme) di un mondo riflesso in uno specchio.


(1) cfr. Jacque Derrida, La scrittura e la differenza
(2) op.cit.
(3) Musa Polimnia è in realtà esposta al Museo dell'Accademia Etrusca e della Città di Cortona
(4) cfr. Viktor Šklovskij, L’arte come procedimento
(5) D. “I colori in Pierrot le fou? Per esempio i riflessi colorati sul parabrezza dell’automobile”
R. “Che vediamo quando percorriamo Parigi di notte? Dei semafori rossi, verdi, gialli. Ho voluto mostrare questi elementi, ma senza doverli necessariamente mettere come sono nella realtà. Piuttosto come rimangono nel ricordo: macchie rosse, verdi, spazi gialli che scorrrono. Ho voluto ricostruire una sensazione a partire dagli elementi che la compongono”.
J.L.Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, 1981, p. 262.


Pubblicato su Rapporto Confidenziale

2 marzo 2011

Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010) 1/3: lo specchio e il bello

L’apparente complessità del film si avvale della sua esondante semplicità. La bellezza delle immagini avvolge l’inquadratura tracimando oltre, fino a connettersi con il partecipato coinvolgimento dello spettatore. Guardare questo film è un po’ come assistere ai momenti epici (nuclei narrativi) della propria vita, a quei momenti fondanti nel nostro passato, quelli che hanno lasciato il segno e che determinano ciò che siamo o siamo diventati (primo bacio, il giorno della laurea, una comunione o il matrimonio, oppure un’esperienza diversa, un lutto, una separazione, ecc.); per questo Il cigno nero è molto più di un semplice racconto, molto più di un film. Eppure quest’opera si avvale di tematiche consumate da oltre un secolo di vita in quanto parte integrante del cinema stesso. La musica è talmente famosa e immortale da non avere bisogno di ulteriori elogi e ammirazione. Il lago dei cigni di Čajkovskij è entrato nel nostro DNA: ascoltare i suoi tempi è sufficiente a ricostruire la storia romantica e drammatica di un amore impossibile. La tragedia è calata dentro ogni nota, assorbita e impregnata da alcune delle melodie più belle della storia della musica classica. Prendere materiale di tale levatura (musica, racconto) e lasciarlo trapassare dall’essenza stessa del cinema (specchio, doppio, visione) può comportare il rischio di produrre un’opera sterile e stereotipata, come tante prodotte negli anni. Pertanto va premiato il coraggio di Aronofsky che è riuscito ad attualizzare una storia bellissima ma pericolosa in quanto l’intreccio del libretto di Begicev è conosciuto da tutti e il tipico dramma romantico oggi non è apprezzato fino in fondo come meriterebbe, proprio perché le strutture dell’antico racconto tedesco (Il velo rubato di Musäus) sono sentite come usurate, superate, non allineate alla tragedia di una società post-moderna. Ma l’idea vincente di unificare in un corpo i caratteri dei due cigni (bianco e nero) porta il film fuori dal tempo, in un limbo in cui si incontrano i miti della stessa umanità che rappresentano la nostra verità di esseri umani, di ciò che siamo stati, e come cosa vogliamo diventare. Lo specchio lascia supporre tanti discorsi sui riflessi, sul cinema come specchio del mondo o dell’animo umano, riflette nel film spezzoni di Odile che albergano nel cuore di Nina sin dal primo fotogramma, quando Aronofsky ci mostra per oltre un’ora la gentilezza e la misurata timidezza di splendido cigno bianco che non può soddisfare, con tanta purezza, la libidine, camuffata da creatività, di Thomas. Ma a guardare bene lo specchio (anzi i numerosi, infiniti specchi) non è posto all’esterno dei corpi, non è l’altrove che riflette la follia e la disperazione di Nina. Lo specchio è l’interno e il fuori allo stesso tempo, come il doppio presenta due facce: una è rappresentata dalla superficie riflettente che mostra l’insorgere e lo svilupparsi delle visioni di Nina, l’altra è nell’inquadratura e nella sequenza, dentro una mente capace di materializzare incubi e visioni: una sorta di ologramma che non ha più bisogno di una obsoleta superficie anche se magica. Pertanto lo specchio di Aronofsky, più che riflesso dei corpi e costruttore di mondi fantastici (il corpo di Nina riflesso che non risponde più al corpo di Nina riflettente), rappresenta il bisogno di guardarsi, di conoscersi, di capire i propri movimenti per vedere da fuori gli errori di un corpo danzante. Osservare un proprio passo di danza sbagliato riflesso nello specchio della sala è come uscire dal corpo e vedersi da fuori. Conoscere il nostro corpo, i suoi punti deboli significa scoprire che non siamo “fatti” così, in primis perché lo specchio rovescia l'asse fronte-retro e non permette una visione esterna, almeno non quella che vorremmo, e in secondo luogo perché il riflesso non mostra i gesti inconsci del nostro corpo, quelle azioni che nascondiamo solo a noi stessi, o almeno, se “ci prova” (vedi la sequenza di Nina davanti allo specchio del camerino che mostra il suo corpo visto da dietro per via di un effetto droste causato da un’altro posto dietro), sappiamo che le ferite mostrate sono state causate da un gesto inconsapevole (come mangiarsi le unghie o sanguinare nel tirare via le cuticole). La potenza riflettente si attesta fuori dal riflesso, dentro l’immagine stessa, ossia nella scena e nella sequenza, sotto forma di allucinazione. Da questo punto di vista Nina è sempre stata Odile poiché la sua sofferenza trae origine più dal terrore di scoprire il suo vero volto all’interno della propria vita, che dal timore di non essere adatta a ballare come cigno nero. In effetti i momenti che realizzano questo percorso tragico avvengono per lo più al di qua dello specchio (il sangue sulle dita, le ferite sulla schiena, le piume nere che emergono sotto la pelle aprendosi alla danza, il suo volto che emerge da quello di Lilly e di sua madre). Aronofsky ci avverte sin dalle prime sequenze dell’incipiente emersione di un mondo interiore nascosto per troppo tempo dalla paura di Nina, quando la Nina vestita di bianco incrocia se stessa vestita di nero: Odette attraversa lo spazio di un’altra dimensione guardando negli occhi la sua personale Odile. Lo specchio è pertanto il cinema, è il modo in cui è montato, i trucchi usati per coinvolgerci. In effetti i tantissimi primi piani di Nina, ripresa mentre balla e mentre si guarda allo specchio o ripresa da dietro con una carrellata a seguire lungo i suoi percorsi attraverso il teatro o nella casa o nell’ospedale, oltre a tenere sempre il nostro sguardo focalizzato dentro il cuore dell’evento, conducono il fuori campo dentro il suo mondo, mostrando la sua avvenuta metamorfosi. La macchina da presa, che segue da dietro (o precede) mostrando Nina in primo piano, ricorda un po’ le carrellate di Elephant (1) (e in particolare il cinema di Béla Tarr), ma soprattutto ci trascina dentro l’azione o meglio nel fulcro stesso dell’immagine affezione (2) perché “[…] non vi è primo piano di volto, il volto è in se stesso primo piano, il primo piano è da sé solo volto, e ambedue sono l’affetto, l’immagine affezione” (3). Scandagliare in continuazione, senza un attimo di respiro, le infinite espressioni della Portman, “stargli addosso”, sia quando balla, sia quando si muove tra le stanze della propria casa o attraversa i saloni del teatro o entra nella corsia dell’ospedale, coinvolge emotivamente poiché ci sentiamo attratti dalla forza di gravità del personaggio, ci sentiamo partecipi delle emozioni e delle sofferenze sopportate da Nina, condividendo le sue ansie e allucinazioni. Ma questa partecipazione emotiva, questa “ansia” che ci incolla alla lenta ma progressiva uscita del pulcino oscuro dall’uovo, non deve essere confusa con il classico coinvolgimento acritico. Ogni volta che l’inquadratura ci mostra il primo piano di Nina, ossia il Volto, sorge spontanea la domanda: “ a cosa pensi?” oppure “cos’hai? (4). Aronofsky ci invita a “leggere” e interagire con i due tratti fondanti del volto come definiti da Deleuze: volto riflessivo e intensivo. Il “wonder” e il desiderio (5) che si compenetrano in un’unica intensa espressività: il volto di Nina non è solo un volto, un primo piano, ma è “[…] volto unico e sconvolto [che…a]ssorbe due esseri, e li assorbe nel vuoto […](6). Quando Nina si guarda al vetro della metropolitana, e vede l’immagine di se stessa offuscata dalla galleria oscura, vede già la sua anima, o almeno la parte nera della sua anima. Questo è un riflesso che potrebbe attivare una serie di azioni da cinema horror; eppure Aronofsky non vuole mostrare l’orrore del mondo e i mostri pronti a ghermirci, ma il delirio che alberga nella luce persino di un cigno bianco. Il cigno nero in fondo è l’altra faccia della bellezza, materiale assemblato (paesaggio, corpo, opera d’arte) che diventa una storia e mostra la sua stessa conturbante escalation, l’altra faccia di un bello “[…] consentito, aproblematico e senza traumi, […] – in effetti – brutto, falso e immorale. Se si vuol mantenere viva l’aspirazione verso una vita migliore, bisogna sfuggire le offerte di un bello a buon mercato, le soddisfazioni passeggere che adescano la coscienza, invitandola a compromettersi con la «cattiva realtà», quella denunciata, appunto, dal brutto con la sua sola esistenza”. (7) La bellezza e la bruttezza, o meglio, la vaghezza di un bello che ha bisogno del suo lato oscuro per affermarsi e aspirare a una effimera perfezione. Infatti ritengo che Il cigno nero sia un film sulla bellezza e del suo inevitabile epilogo: l’attimo mortale di una perfezione. Nina rimane come sigillata in un inno alla notte di Novalis con “l’eternità adagiata nei suoi occhi” (8), chiusa nel suo mondo perfetto, inarrivabile, meraviglioso come il balletto del Lago dei Cigni; il mondo invece rimane fuori, sgretolato e dannatamente frantumato (lo specchio che si spezza nell’epilogo) sempre in piedi con le sue invidie (Lilly), pulsioni (Thomas), delusioni (Beth) e rivincite del proprio fallimento proiettato nel futuro della figlia (Erica). La bellezza non è solo il candore del cigno bianco, la sua storia di sofferenza e morte. Come la prospettiva non può essere la spiegazione e la catalogazione del mondo (può anch’essa ingannare l’occhio ed è uno dei tanti modi di “dipingere”), così il Bello deve fare i conti con l’altra faccia del suo riflesso: la tragica, inevitabile oscurità del Brutto. Il ballo del cigno nero, con le piume che crescono sul corpo di Nina e la trasformano nella sua Nemesi, riflette l’Oscuro e il Brutto nella bellezza stessa di una danza che lascia senza fiato, che penetra nel cuore e sprigiona tutta la sofferenza in un attimo coagulatosi nel bacio magico e incredibilmente umano (perché pieno di sofferenza, di desiderio, di paura, di rimorso, di coraggio) dato a Thomas.


1 Film di Gus Van Sant del 2003
2 Gille Deleuze, L’immagine-movimento, ubulibri, Milano 1993(2), pp. 109-124 (tutto il cap. VI)
3 Ivi, p. 110
4. Ivi, p. 112
5. Riprendo i due termini distintivi dei due tipi differenti di volto così come definiti da Deleuze, ivi, P. 111
6. Ivi, p. 123
7. Remo Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995, p. 112.
8.
[…] Il tumulo divenne una nube di polvere – attraverso la nube vidi i tratti trasfigurati dell’amata. Nei suoi occhi era adagiata l’eternità – io afferrai le sue mani e le lacrime divennero un legame scintillante non lacerabile. Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d’estasi per la nuova vita. Fu il primo, unico sogno – e solo d’allora sentii eterna, inalterabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l’amata.Virginia Cisotti (a cura di), Novalis. Inni alla Notte. Canti Spirituali, Arnoldo Mondatori, Milano, 1991 p. 73 (Inno alla notte III)