29 ottobre 2012

Prometheus (Ridley Scott, 2012)

Dal liquido bevuto nell’incipit da un Ingegnere genetico simile al virus del vampiro che scorre nelle vene di Bella in Breaking Dawn 1, al cliché della donna intellettuale (l’archeologa Elizabeth Shaw) capace anche di trasformarsi in una guerrigliera super addestrata; dal “mostro” partorito da Elizabeth, che ricorda uno dei tanti calamari giganti visti in un secolo di cinema del terrore, fino alle solite consuete esplosioni, lacerazioni, ustioni, ecc., il film ci conduce in un labirinto di luoghi comuni che potrebbero sfociare in un generico appagamento. Infatti, poiché il titolo intende volutamente ricordare il mito di Prometeo (amico di un genere umano forgiato dal fango) forse Ridley Scott avrebbe dovuto estendere lo spazio dedicato agli ingegneri, i “titani” in un primo momento “amici” degli uomini (come Prometeo) poi (nel film) loro acerrimi nemici. Da questo raffazzonato e forse stanco modo di procedere si organizza una forma artefatta, troppo debole per sorreggere e giocare con le origini dell’Universo, quella Genesi che meriterebbe (credente o non credente) una maggiore eleganza. Dalla sempre eterna domanda sulla creazione (da dove veniamo), allo scopo ultimo della nostra esistenza (dove dobbiamo arrivare) mi sarei atteso una risposta più approfondita, magari anche una non-risposta. Senza scomodare il monolite di 2001 Odissea nello spazio, avrei preferito almeno un’assenza alla impressionante presenza di alieni (od ologrammi) che vagano in una astronave immersa nella roccia. Un’assenza che avrebbe dato maggior peso al film. Neppure è possibile giustificare l’operazione col pretesto di offrire un prequel allo splendido Alien, ossia mostrando quella sorta di ponte, quel tenero Xenomorfo che esce dal corpo dell’ingegnere appena fecondato e che dovrebbe spaventare in quanto capostipite dei mostri di acciaio che crescono nelle viscere di una futura umanità. Se metafora deve essere – i nostri ingegneri creatori ci odiano, ossia la Natura (oppure Dio) è una madre stanca di un’umanità che non riesce a trovare un equilibrio per un’impronta ecologica sempre più debordante – allora che la neo-vetero-formazione di “brodo primordiale” giunga sulla terra e riveli il vero volto di questa post-umanità. Invece il film galleggia tra cliché e deja vu, propinandoci immagini “grandiose” di una carta olografica dell’Universo commutata da Google Earth, guerrieri olografici che sembrano più sottoprodotti dell’immagine proiettata del viceré Nute Gunray della Federazione dei Mercanti in Star Wars – La minaccia fantasma, nonché esplosioni, urti e crolli ormai ripetutamente propinatici da certo logoro cinema. Peccato perché un prequel di Alien (senza pretendere di raggiungerne la qualità) avrebbe potuto stimolare suggestioni, suggerire propositi, indicare un modo diverso di approcciarsi alla sci-fi. La grandiosità dell’operazione (Genesi, origini dell’umanità) avrebbe meritato maggiore cura e minori certezze. Senza voler affrontare temi che riguardano la religione forse sarebbe stato più interessante mostrare una meteorite pregna di aminoacidi che cade sulla Terra oppure ricordare che Prometeo amava talmente l’umanità da inimicarsi Zeus, vero nemico degli uomini poiché ne temeva l’intelligenza e la loro capacità di apprendimento.

29 settembre 2012

La donna del tenente francese (Karel Reisz, 1981): 3/3 Pinter, il film

La sceneggiatura di Pinter, tratta dall’omonimo romanzo di John Fowles, è stato un ottimo punto di partenza per girare un film di grande qualità seguendone quasi fedelmente il percorso pur presentando alcune differenze. L’idea originale di prevedere due piani di narrazione (Sarah e Charles, i personaggi principali del film e i due attori che interpretano i protagonisti: Anna e Mike) ha contribuito a dare prospettiva e profondità all’opera. La condizione femminile dell’età vittoriana (per cui una donna ricca doveva solo sposarsi mentre una povera trovava spesso davanti a sé la strada della prostituzione) si allinea alla società inglese degli anni sessanta con la donna protagonista pronta a rivendicare il diritto di scegliere come vivere senza limiti e impedimenti. Sarah, la donna abbandonata da un tenente, non ha speranze nell’Inghilterra vittoriana, né d’altronde pretende di affermare la propria diversità. Si limita soltanto a rifugiarsi in passeggiate solitarie sul Cobb (il molo in pietra del porto di Lyme) in attesa di un fantomatico tenente francese che l’avrebbe sedotta e abbandonata. Mentre Charles, un ricco gentleman esperto di fossili in procinto di sposarsi con una donna ricca, rimane folgorato da Sarah, rinunciando al matrimonio con la benestante Ernestina. Non sto a soffermarmi sul film che presenta sequenze di grande impatto emotivo rese mirabilmente da Reisz grazie anche a due grandi attori come Jeremy Irons e Maryl Streep. Le sequenze dell’epoca vittoriana inoltre sono “interrotte” con efficacia dalle sequenze degli anni “ottanta”. Nella prima parte del film  il plot si sofferma spesso sul rapporto tra Sarah e la signora Poulteney (la sua “padrona”), tra Charles e il padre di Ernestina e sulle scene in cui di due protagonisti si incontrano. Mentre le sequenze degli anni “ottanta” tendono a prendere il sopravvento nella parte finale del film per cui sembra che il tempo “moderno”, in cui ogni cosa è stata messa in discussione e i valori di un’epoca sono già stati assorbiti e superati, stia fagocitando un’epoca stessa. Il film inoltre trasferisce nelle sequenze “moderne” il sapore e il profumo dell’epoca vittoriana o per lo meno lo trasferisce nella mente di Mike che si innamora del personaggio (Sarah) interpretato dalla sua amante (Anna). Come nella “storia” (la trama del film) il limite di Mike-Charles tende verso Sarah, rinunciando al benessere e alla sicurezza (sposando Ernestina), così nel presente il suo limite non tende ad Anna, ma alla efficace interpretazione di Sarah da parte della donna. In altri termini Mike è come un cinefilo che sogna l’amore di un personaggio interpretando la sua realtà,  trasferendo pertanto la “purezza” di un amore rappresentato nei confronti della sua attrice-amante Anna. Mentre la storia si propaga nell’oggi (gli echi dell’era vittoriana che si trascinano nei “giorni  nostri” - vedi gli attori ancora vestiti in costume che partecipano alla festa dell’epilogo), così il discorso (la fiction, la struttura, i ciack, i deittici del cinema mostrati nelle sequenze del presente) non è capace di assorbire in pieno la storia, pur avendola plasmata, lasciando trasparire l’efficacia e la capacità del racconto di sussumere in sé la “realtà”. Charles infatti non è più in grado di distinguere la sua storia d’amore con Anna o con Sarah, trasformando il suo mondo in un plot. Il doppio finale che nel “film” è rappresentato dal ritrovamento romantico (dopo tre anni di assenza) della cara Sarah (i due amanti salpano con una barca), nella “realtà” si esaurisce con la “fuga” di Anna, si unifica nella frase gridata da Mike alla finestra (nel vedere l’auto di Anna che se ne va): “Sarah”. La definizione di realtà riferita al mondo di Mike è ovviamente una convenzione che utilizzo per distinguere i due piani, ma i due aspetti del plot sono le due facce di un’unica storia. Pinter ha inteso trasporre nella sceneggiatura gli aspetti postmoderni del romanzo di Fowles per lasciare respirare due piani di realtà, due mondi distanti ma allo stesso tempo coinvolti, intersecati. L’età vittoriana con la sua rigidezza e l’epoca in cui le certezze dell’uomo sono tramontate, per cui il mondo non appare più una montagna da scalare, coincidono in un mix eccezionale. Da qui traspare nell’efficace “costruzione” del racconto la forza imponente decostruttiva ottenuta sovrapponendo altri piani narrativi in contrasto o per lo meno in fase di probabile urto. È come trovarsi davanti a un crash test. La ricerca di Reisz consiste nel mettere a dura prova un corpo umano in rotta di collisione con un altro piano narrativo. La forza destabilizzante del film affonda le radici nella sceneggiatura del premio nobel 2005, il grande drammaturgo Harold Pinter. La sceneggiatura propone l’intersezione-scontro dei due mondi seppure strutturandoli diversamente: mentre l’epoca vittoriana acquisisce (secondo me però accentuata dal découpage di Reisz) una trasparenza illusoria di grande impatto, l’epoca “contemporanea” mostra il cinema stesso in azione (attori ancora vestiti in costume, attrezzatura, ciack., ecc.). questa differenza sembrerebbe dare maggiore risalto alle condizione femminile della donna in una società inglese ormai tramontata e al crescere di una storia d’amore non compresa all’epoca. Eppure Pinter ci racconta soprattutto una storia moderna, attuale, in cui l’uomo non riesce a trovare, nel bene o nel male, quei punti di riferimento (regole di comportamento, sociali, convenienze, rapporti tra ricchi e servitori, ecc.) che sono  stati inevitabilmente rimescolati e/o annullati. Nonostante ciò nell’oggi non ci può essere lieto fine, non tanto perché le condizioni dell’uomo moderno siano peggiorate, quanto perché  la perdita di ogni riferimento toglie senso persino al concetto di lieto fine. Forse per Anna anche la storia moderna finisce bene (in fondo vuole solo liberarsi di Mike?) mentre nell’epoca vittoriana Ernestina non gradisce l’epilogo (ma qui il suo compito si riduce a essere personaggio secondario e pertanto non interessante secondo le regole dell’happy end). La sceneggiatura di Pinter mi ricorda molto la sua commedia Vecchi tempi anche se ritengo che nella Donna del tenente francese sia stato fatto un ulteriore salto in avanti. Mentre in Vecchi tempi il passato non era che ricostruzione del ricordo e pertanto soggetto a imprecisioni e imperfezioni, nella Donna del tenente francese il passato occupa e invade il presente, quasi assorbendolo. La storia presente cresce e si sviluppa emergendo alla superficie con maggiore veemenza verso l’epilogo non come “luogo” distaccato dalla rappresentazione (l’autore onnisciente che racconta una storia) quanto come creazione e risultato di un tempo che non c’è più (il presente non può influenzare ma solo essere influenzato dal suo passato). Stupendo il modo in cui Pinter riesce a far emergere questi aspetti (1):

23. Interno. Serra
[…]
Charles In questo caso… avrai pietà di un vecchio scienziato intrattabile che ti ha molto cara… e mi sposerai?
Ernestina (scoppia in lacrime)  Oh Charles! Ho atteso così a lungo questo momento.
Charles le prende le mani.

24. Interno. Cucina.
Sam Il signore è a letto.

25. Interno. Stanza da letto dei Ernestina.
La signora Tranter che osserva, deliziata, la mano alla bocca.

26. Interno. Serra.
Charles (di sotto un ramo sovrastante)  Non è vischio ma andrà bene ugualmente.
Ernestina Oh Charles…
Si baciano castamente…

27. Stanza d’albergo. Mattino presto. La nostra epoca. 1979.
Penombra. Un uomo e una donna a letto addormentati. È subito chiaro che sono l’uomo e la donna ch impersonano Charles e Sarah, ma non si percepisce immediatamente che non si tratta del presente. Suona il telefono.
Mike (si gira solleva il microtelefono) Si? (pausa) Chi parla? Sì, è così (pausa). Glielo dirò. (Riaggancia il microtelefono, accende la luce, sveglia Anna). Anna.
Anna  Mmmn?
Mike  Sei in ritardo. Ti stanno aspettando
Anna  Oh cielo! (Si mette a sedere) Che è successo con la sveglia telefonica?
Mike  Non lo so.
Anna (sbadigliando) Chi ha chiamato?
Mike Jack.
Anna (lo guarda) E tu hai risposto?
Mike Sì.
Anna Ma allora… sapranno che sei in camera mia, lo sapranno tutti.
Mike. Nel tuo letto. (La bacia). Voglio che lo sappiano.
Anna Cristo, guarda l’ora. (Lui la trattiene). Mi licenzieranno per immoralità. (Lui l’abbraccia). Penseranno che sono una puttana.
Mike Lo sei.


Il legame che nasce e si sviluppa tra Charles e Sarah riesce sempre più a fare breccia nel rapporto del 1979 tra i due attori Anna e Mike:


72. Esterno. La sottoscogliera.
Sarah che cammina.
Charles che la segue. La raggiunge.
Charles Signora! (Sarah si ferma, si volta verso di lui. Lui sorride) Mi spiace molto avervi disturbata poco fa. (Lei china il  capo, prosegue. Lui procede con lei) Mi par di capire che siete da poco diventata… segretaria della signora Poulteney. Posso accompagnarvi. Giacché andiamo nella stessa direzione?
Sarah (si ferma) Preferisco camminare da sola.
Sostano
Charles Permettete che mi presenti.
Sarah So chi siete.
Charles Ah… allora.
Sarah Vi prego permettetemi di proseguire per la mia strada da sola. (Pausa). E vi prego non dite a nessuno di avermi vista qui.
Lei si incammina.
Lui immobile, guardandola allontanarsi.

73. Interno. Roulotte. Al giorno d’oggi. Giorno.
Anna nella sua roulotte. Bussano alla porta.
Anna Ciao!
Mike (entra) Posso presentarmi?
Anna So chi sei.
Sorridono. Lui chiude la porta.
Mike Dunque preferisci camminare da sola?
Anna Io? Io no. Lei.
Mike Mi è piaciuta la cosa.
Anna Che cosa?
Mike Il nostro scambio. Laggiù.
Anna Davvero? Non so mai…
Mike Cosa non sai mai?
Anna Se va bene o no.
Mike Senti. Mi trovi?...
Anna Che cosa?
Mike Simpatico.
Anna Mmn. Indubbiamente.
Mike Non intendo me. Intendo lui.
Anna Indubbiamente.
Mike Ma preferisci tuttora camminare da sola?
Anna Chi? Io… o lei?
Mike Lei. La compagnia ti piace. (Le accarezza il collo). Non è così?
Anna (sorridendo). Non sempre. Talvolta preferisco camminare da sola.
Mike Dimmi, quando hai detto così – là fuori  - hai fatto vibrare la gonna – molto provocante. L’hai inteso veramente?
Anna Beh, ha funzionato. Non è cosi?
Il volto del terzo assistente alla regia sulla porta.
Terzo assistente. Si ricomincia.


Fin quando i due personaggi sovrastano “occupando” la stessa prova degli attori:


102. Esterno. Giorno. Spiaggia. Ai giorni nostri.
Mike ed Anna sdraiati l’uno accanto all’altra. Lei ha gli occhi chiusi. Lui la guarda.
Al di sopra di loro, le voci di Sarah e Charles.
Sarah (voce fuori campo)  Varguennes guarì. Mi chiese di tornare con lui in Francia. Mi offrì…
Charles (voce fuori campo) Di sposarvi?
Anna apre gli occhi e guarda Mike.


Ormai per anche per Anna la “sua” realtà è diventata irreale.


165. Interno. Bar a Londra. Ai giorni nostri
Anna Come stai. Come va?
Mike Bene. È terribilmente dura. Sono sfinito. Morivo dalla voglia di te.
Anna Mmmn.
Mike Come è andata? Hai trascorso delle ore piacevoli?
Anna Non lo so… è tutto così irreale…
Mike Che vuoi dire?
Anna Il mondo non è reale… qui.
Mike E il tuo amico? Non è reale lui?
Anna Sento la mancanza di Sarah. Non vedo l’ora d’essere di nuovo là. Non vedo l’ora di essere a Exeter.
Mike Tu sai cosa accadrà a Exeter? A Exeter ti avrò.
Anna Davvero?
Mike Sì. (Sorride). Davvero.

1) Harold Pinter La donna del tenente francese, Einaudi, Torino, 2005 (tutti i brani riportati sono stati ripresi dal sopra citato volume)

29 agosto 2012

Proust. Una sceneggiatura (Harold Pinter, 1977): 2/3 Pinter, la sceneggiatura

Vecchi tempi è già la sceneggiatura di un film e non c’è da meravigliarsi perché Pinter è stato anche un grande sceneggiatore e molti screenplay portano la sua firma (il servo, L’incidente, Messaggio d’amore, La donna del tenente francese, Sleuth –  Gli insospettabili). Ho trovato molto interessante rileggere nello stesso giorno  Vecchi tempi e la sceneggiatura sulla Recherche scritta da Pinter per un film di Joseph Losey mai realizzato. Quel passato “riformato” dal ricordo (o addirittura inventato o accomodato per giungere a un’epifania che illumini tutta la massa informe di dati) lega a modo con la capacità del cinema di comunicare un senso compiuto da una giustapposizione parcellizzata di sequenze e quadri di per sé informi, incoerenti. Così come il ricordo serve a dare un senso al passato (senza la ricostruzione della memoria sarebbe un mondo vuoto), il cinema si adopra per conferire l’illusione di un organismo unitario dalla giustapposizione di dati incompleti e pieni di buchi (ellissi, campi e piani).  La falsità dell’evento è palese, eppure l’arte (il cinema) agisce profondamente come la memoria involontaria, deve cogliere quel movimento “intermittente” diretto “verso la rivelazione” da veder crescere “verso un punto in cui il tempo perduto è ritrovato per sempre nell’arte” (1). Questo movimento intermittente deve contrastare con un altro principio primario, un “movimento, essenzialmente narrativo, verso la disillusione” (2). Questi i propositi di Pinter per ridurre quella mole infinita di descrizioni, storie, riflessioni, illuminazioni qual è “La Recherche” (3). Confesso di aver compreso meglio il senso di Vecchi tempi dopo aver letto la riduzione scritta per il lungometraggio di Losey. Se si legge Vecchi tempi come una sceneggiatura risulta chiaro il motivo per cui Pinter abbia contestato con tutte le sue forze l’operazione portata avanti da Visconti nel 1976. Il lavoro del drammaturgo inglese si compone e ricompone andando a formare un plot uniforme solo se si accetta l’ incertezza dei dati, l’impalpabile leggerezza degli eventi che non devono essere recepiti come dati dominanti (non sono interessato alle gambe di Anna che si baciano sul divano oppure a “rivedere” la biancheria intima di Kate indossata anche da Anna), ma presi come componenti del mondo, tali e quali a dati sibillini che l’arte recupera per fissare come testo simbolo al fine di definire nuove reminiscenze (il lettore che si immedesima e/o ricostruisce tutto un suo mondo più o meno reale, più o meno immaginario). Questa passione cara a Pinter non poteva che animarlo e indurlo a leggere tutta la Recherche per ridurre l’opera di Proust in una sceneggiatura di poche pagine, un lavoro immane durato un anno, tanto appassionante da indurlo a scrivere: “L’anno in cui ho lavorato Alla ricerca del tempo perduto è stato il miglior anno di lavoro della mia vita” (4). Leggendo  Proust. Una sceneggiatura si rimane affascinati dai continui salti temporali che vanno dall’infanzia di Marcel al 1921, quando il narratore della Recherche è ormai più che quarantenne. Questo modo di procedere che ci mostra Marcel bambino, poi adulto, poi adolescente, e così via, era forse il modo migliore per affrontare un’opera immensa e sicuramente molto complessa da trasformare in un film. La sceneggiatura è molto frammentata e di non facile comprensione per chi non conosca la Recherche, ma al tempo stesso originale base di lancio per un film che avrebbe dovuto portare il peso scomodo di rappresentare un’opera di tali proporzioni. Ritengo che Pinter abbia deciso di “affidare” un ruolo preponderante alle continue e numerose analessi e prolessi, trasportando il lettore in un viaggio che definirei ipertestuale. La fabula (inquadrature viste in ordine logico e cronologico) non è ordinata cronologicamente (mi si scusi la tautologia)  ma è senz’altro organizzata con coerenza dal punto di vista della “disillusione”; la tensione drammatica raggiunge la punta massima via via che il cammino di conoscenza di Marcel diventa pressante e non importa se questo avviene nell’adolescenza o in piena maturità. Ciò che importa è che il “ricordo” (il soggetto dell’opera insieme al Tempo) segua il suo percorso di accrescimento evidenziando la sensazione di un vuoto totale per cui il tempo perduto per sempre e irrecuperabile non viene comunque smarrito ma rivelato. Ebbene, come afferma Pinter, è l’intermittenza di questo movimento ad approdare alla rivelazione, alla conoscenza del tempo perduto “ritrovato e fissato per sempre nell’arte”. Sarebbe stato interessante notare gli sviluppi di questa idea nelle immagini in movimento, se fosse stato possibile realizzare il film. Certamente poi Losey avrebbe imposto il suo ruolo di regista individuando nella sceneggiatura pinteriana le riprese da effettuare, le inquadrature, i campi ecc, ossia costruendo il suo découpage. Ma comunque, anche se l’opera non è stata realizzata, rimane questo lavoro che lascia ammirati per la chiarezza e la semplicità con cui è stata ridotta la saga dei vari Guermantes, Swann e Verdurin. Questa “uscita dal tempo” (il profumo delle madeleine, il pavimento irregolare, il rumore causato da un cucchiaio posato sul piatto), questa sensazione di tempo ritrovato e fissato dall’arte per sempre accomuna i due lavori di Pinter: emerge pertanto l’idea che il ricordo frammentario restituisca in un’epifania improvvisa il sapore di un tempo passato ritrovato nel presente, formando una sorta di limbo extratemporale. A questo proposito risulta illuminante la sequenza della morte di Albertine. Nel romanzo Marcel, tornato a Parigi con Albertine per aver saputo dei rapporti omosessuali della sua amata con la signorina Vinteuil (Sodoma e Gomorra), diventa preda della gelosia e accusa la ragazza di avere avuto relazioni omosessuali impedendole di uscire di casa. Albertine, non sopportando più la reclusione, abbandona Marcel (La prigioniera), ma fuggendo muore in un incidente a cavallo (La fuggitiva). Ecco una sintesi di come Pinter ha trascritto l’evento nella sua sceneggiatura:

290. Interno. Scale.
Marcel Sale le scale con i fiori. Alza lo sguardo. Andrée esce dalla porta dell’appartamento.
Marcel Come, già di ritorno?
Andrée Siamo appena arrivate. Albertine voleva scrivere una lettera, e così l’ho lasciata sola.
Marcel Una lettera? A chi?
Andrée A sua zia
Marcel Peccato che abbiate chiuso la porta. Ho dimenticato la mia chiave. Françoise è in casa?
André È andata a fare la spesa. È lillà, vero?
Marcel Sì.
Andrée Albertine detesta il lillà. Per via del profumo. Troppo forte.
Marcel Davvero? Non lo sapevo.
Andrée Il profumo è opprimente. Beh, arrivederci.
Scende le scale
Marcel suona il campanello.
La porta è aperta immediatamente, da Albertine.
L’ingresso è buio.
Albertine Lillà! Oh! (Fugge nell’ingresso).
Marcel Li porterò in cucina
[…]
292. Interno. Camera da letto di Marcel
Albertine è sdraiata sul letto.
Marcel Scusami. Non sapevo che detestassi i lillà.
Albertine È il profumo, nient’altro. È troppo forte. Probabilmente ti è rimasto addosso. Non avvicinarti troppo, finché non è svanito.
[…]
294. Interno. Camera di Albertine. Notte.
Albertine sta dormendo, mormorando.
Marcel, accanto a lei, cerca di captare le sue parole.
Albertine Oh, cara!
Marcel si acciglia.
[…]
301. Interno. Il corridoio. Notte
Il corridoio è buio.
La porta di Marcel si apre. Egli esce e risale il corridoio dirigendosi verso la porta della camera di Albertine. Rimane immobile, in ascolto.
Silenzio
304. Interno. Stanza di Marcel. Sera.
Marcel Andrée.
Voce di Andrée Oh! Salve.
Marcel Tu e Albertine dovete andare dai Verdurin domani pomeriggio?
Andrée Esatto.
Marcel Perché?
Andrée Perché?
Marcel Perché Albertine ci vuole andare?
Andrée La signora Verdurin ci ha invitate per il tè. Nient’altro. Una cosa assolutamente innocente.
Marcel Sei sicura che…
[…]
Andrée Pronto?
Marcel Sì… sì… scusami… (Françoise esce). Sei sicura che non ci sia qualcuno che desidera incontrare?
Andrée Non saprei davvero chi.
Marcel Potrei venire con voi.
Pausa
Andrée Ah.
[…]
338 Interno. Salottino. Notte.
[…]
Marcel Sapevi che questo pomeriggio dai Verdurin doveva esserci anche la signorina Vinteuil, vero?
Albertine Oh, quante domande! (Alza le spalle) Sì, lo sapevo.
Marcel Puoi giurarmi che non volevi andarci per rinnovare la tua relazione con lei?
Albertine Non ho mai avuto nessuna relazione con lei.
Marcel Puoi giurarmi che il piacere di rivederla non aveva niente a che fare col tuo desiderio di andarci?
Albertine No, questo non posso giurarlo. Mi avrebbe fatto molto piacere rivederla.
[…]
Marcel Sciocchezze. Io ho denaro. Se vuoi, puoi dare una festa in onore dei Verdurin, per esempio, in qualunque momento tu lo desideri.
Albertine Oh Dio! Grazie tante. Una festa per quelle barbe! (Mormora rapidamente) Preferirei che mi lasciassi in pace per una volta tanto, in modo da poter andarmene a farmi… (Si ferma di colpo).
Marcel Che cosa hai detto?
Albertine Niente… I Verdurin… la festa.
Marcel No. Stavi dicendo qualcos’altro. Ti sei fermata. Perché ti sei fermata?
[…]
Marcel Non ho capito cosa stavi dicendo. Non ho afferrato esattamente le tue parole. Volevi farti…
Albertine Oh, lasciami stare, ti prego!
[…]
341 Interno. Camera da letto di Albertine.
Si sta specchiando.
Entra Marcel.
Marcel Albertine, credo che dovremmo separarci. Voglio che te ne vada, domattina presto.
Albertine Domattina?
Marcel Siamo stati felici. Ora non lo siamo più. È semplicissimo.
Albertine Io non sono infelice.
Marcel Non cercarmi più. È meglio.
Albertine Tu sei l’unico che mi stia a cuore.
Marcel Ho sempre desiderato andare a Venezia. Ora ci andrò. Da solo. (Silenzio). Quante volte mi hai mentito?
[…]
Marcel Dove andrai?
Albertine Non lo so. Ci devo pensare. Tornerò da mia zia. Suppongo.
Marcel Vuoi che… tentiamo ancora… per qualche settimana?
Albertine Sì.
Marcel Qualche altra settimana.
Albertine Sì credo che dovremmo.

Una serie di sequenze molto frammentate in cui crescono in Marcel la gelosia e il sospetto di essere tradito da Albertine con una donna, in particolare con la signorina Vinteuil. Poi il momento più drammatico con climax: un frammento che s’incastona agli altri frammenti dipingendo un quadro unitario di sensazioni e sapori, la fuga di Albertine…

342. Interno. Camera da letto di Marcel
Marcel solo nella sua camera, seduto immobile.
Improvvisamente dalla stanza di Albertine il rumore di una finestra aperta violentemente.
Egli riguarda attorno, rapidamente.
343. Interno. Corridoio. Notte.
(Stessa inquadratura del n. 301)
Corridoio buio. La porta di Marcel si apre. Egli avanza nel corridoio. Si ferma fuori dalla stanza di Albertine, e ascolta.
Silenzio.
344.Interno.camera da letto di Marcel. Mattino.
Marcel a letto. Entra Françoise.
Françoise Non sapevo cosa fare . la signorina Albertine mi ha chiesto i suoi bauli – stamattina alle sette. Lei dormiva. Non volevo svegliarla. Lei dice che non devo mai svegliarla. Ha fatto i bauli. Se n’è andata.
Marcel la guarda.
Marcel Hai fatto bene a non svegliarmi.
345. Occhi di Marcel.
346. Gli occhi di Gilberte a Tansonville
347. Gli occhi della Duchessa di Guermantes, per la strada.
348. Gli occhi di Odette nel viale delle Acacie.
349. Gli occhi della Madre nella camera da letto a Combray.
350. Gli occhi di Marcel nel gabinetto a Combray.
351. Gli occhi di Marcel.

… e la sua morte…

352. Interno. Camera da letto di Marcel. Parigi 1902.
Françoise gli porge un telegramma
Marce lo apre, legge.
Lo lascia cadere.
Françoise lo raccoglie, lo legge.
Ha un sussulto, si porta la mano alla bocca.
Guarda Marcel.
Posa il telegramma sul tavolo e lentamente esce dalla stanza.
La macchina da presa indugia su Marcel che rimane immobile, col volto assente.
353. Esterno. Campagna. Giorno.
Un cavallo senza cavaliere si allontana al galoppo dalla macchina da presa.
La macchina da presa retrocede lentamente fino a suggerire l’idea di un corpo inerte di ragazza.
354. Interno. Appartamento di Marcel. L’ingresso. Giorno.
L’ingresso vuoto.
355. Interno. La sala da pranzo. Sera.
La sala da pranzo. Vuota.
356. Interno. Camera di Marcel. Notte.
Marcel seduto, col volto assente.
357. Interno, l’ingresso. Notte.
La porta della camera di Albertine. Socchiusa.
L’ingresso è vuoto.
Silenzio.
358. Interno. Camera di Marcel. Giorno.
Marcel seduto, col volto assente.
359. Primo piano. Andrée.
Voce di Marcel, fuori campo.
Marcel (voce fuori campo) Adesso che è morta… posso chiedertelo francamente… A te piacciono le donne, vero?
Andrée (Sorride) Sì. È vero.
360. Interno. Camera di Marcel. Due inquadrature. Giorno. 1902.
Marcel Conoscevi la signorina Vinteuil… bene, vero?
Andrée No, non lei, per la verità. La sua amica.
Pausa.
Marcel Sapevo da anni, ovviamente, le cose che facevi con Albertine.
Andrée Non ho mai fatto niente con Albertine.

Dall’inquadratura n. 345 alla n. 351 mi immagino un passato che affiora nel ricordo di un attimo. Una sensazione vivida che cristallizza nel presente assumendone l’aspetto, vestendosi di esso; un brivido che rievoca tutti gli abbandoni, tutte le fughe, le passioni, i litigi, i pianti e i rimpianti. Così la sofferenza che cresce nel vuoto di una stanza (da inquadratura 353 a 358) fino ad assumere proporzioni insopportabili con l’inquadratura della porta socchiusa della camera di Albertine. E mentre apprendiamo dalle didascalie che l’ingresso è vuoto, la sala da pranzo è vuota (vedo già le puntuali riprese di Losey) non ci è permesso di vedere la camera da letto (vuota) di Albertine, come se Albertine sia appena uscita o sia ancora in camera, un’Albertine dei tempi andati che abbiamo già visto e che adesso una sensazione forte, quasi amara, fa riemergere dal tempo ritrovato in un pensiero, in un oggetto, qui in una porta socchiusa.
Poi il ricordo, il racconto del passato, contraddittorio, quel passato della memoria volontaria con le situazioni ambigue, impalpabili, la disillusione; racconto che ricorda tanto alcuni passi di Vecchi tempi:

361. Interno. Stanza di Marcel notte.
Marcel e Andrée siedono in punti diversi della stanza. Andrée indossa un abito diverso.
Marcel Provo una grande attrazione per te. Forse per via delle cose che hai fatto con Albertine. Voglio quello che ha avuto lei.
Andrée. È impossibile. Tu sei un uomo (Pausa). Era così passionale. Ricordi quel giorno che perdesti la chiave, quando portasti a casa i lillà? Ci avevi quasi sorprese. Era molto pericoloso, sapevamo che potevi rientrare da un momento all’altro, ma lei ne aveva bisogno, a tutti i costi. Ricordi, feci finta che lei non sopportasse il profumo dei lillà. Lei era dietro la porta. Disse la stessa cosa per tenerti lontano da lei, perché tu non potessi avvertire il mio odore su di lei.

Il rispetto degli eventi descritti da Proust limita in parte l’enucleazione della poetica pinteriana così come in Vecchi tempi (5), ove l’ambiguità del passato è ancora più eclatante e il tempo ritrovato, fissato nella scrittura, restituisce il senso profondo di una vita sempre più liquida:

ATTO I
[…]
Deeley Non sapevo che tu avessi così pochi amici.
Kate Nessuno. Neppure uno. Tranne lei.
Deeley. Perché lei?
Kate Non lo so (Pausa). Era una ladra. Aveva l’abitudine di rubare.
Deeley A chi?
Kate A me.
Deeley Che cosa rubava?
Kate Un po’ di tutto. Biancheria intima.
[…]
ATTO II
[..]
Anna Mi ero messa della sua biancheria intima, per andare ad una festa. Più tardi quella notte glielo confessai. Era stato sconveniente da parte mia. Lei sgranò gli occhi su di me, sconcertata, è la parola. Ma aggiunsi che ero stata punita del mio peccato perché un uomo alla festa non aveva fatto altro che guardarmi sotto la gonna tutta la sera.
[…]
Deeley Guardava sotto la sua gonna, nella biancheria intima di lei. Mmmnn.
Anna Ma da quella notte ogni tanto insisteva perché usassi la sua biancheria – lei ne aveva molta più di me e tanto più varia – ed ogni volta che me lo proponeva arrossiva, ma continuava a propormelo, nonostante tutto.


(1) Harold Pinter “Proust. Una sceneggiatura. Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino, 2005 P.185 (tutti i brani riportati sono stati ripresi dal sopra citato volume)
(2) Ibid.
(3) Riporto la frase ripresa pari pari dal testo di Pinter: “Decidemmo che l’architettura del film dovesse basarsi su due principi primari e contrastanti: uno,un movimento,essenzialmente narrativo, verso la disillusione, e l’altro, più intermittente,verso la rivelazione,che crescesse verso un punto in cui il tempo perduto è ritrovato e fissato per sempre nell’arte”. Ibid.
(4) Ivi, p. 186
(5) Tutte le citazioni sono tratte da: Harold Pinter, Vecchi tempi, Einaudi, Torino 1976(3)

27 agosto 2012

Vecchi tempi (Harold Pinter, 1970): 1/3 Pinter, la commedia

Avrei voluto assistere alla messa in scena del 1973 di Tanto tempo fa per la regia di Luchino Visconti con Umberto Orsini, Adriana Asti, Valentina Cortese e soprattutto essere presente la sera in cui Harold Pinter si fece vedere per contestare l’adattamento del maestro al suo capolavoro Vecchi tempi. L’esplicitazione, nell’allestimento viscontiano, del mondo fantasmatico creato da Pinter non poteva certo andare a genio al premio nobel inglese nel vedere distorta la sua creatura, anche se bisogna tener conto che la grande vitalità del teatro consiste proprio in questo. Un lavoro, un’opera nasce ogni sera diversa e muore sempre più distante dagli ormeggi a cui l’ha legata l’autore. L’opera teatrale è come un figlio che prima o poi dobbiamo lasciare libero per la sua strada. E forse a Visconti non dispiacque tanto il gesto di Pinter. Per Visconti infatti il teatro deve comprendere la reazione del pubblico, per mostrare la propria vitalità deve accettare anche lo scontro “fisico” con la contestazione e non ridursi a mera enunciazione che strappi applausi a un pubblico magari disinteressato sino a pochi secondi prima della chiusura del sipario. Probabilmente il regista del Gattopardo rimase più disturbato dal fatto che Pinter adì a vie legali obbligandolo a interrompere le rappresentazioni. Pinter forse non capì la forza performativa dell’opera di Visconti, la sua capacità di coinvolgere il pubblico obbligandolo a reagire, a interagire con la propria creatura, mentre Visconti non vide la distanza della sua arte dal mondo borghese pinteriano, dalle situazioni assurde causate dalla labilità del ricordo che trasforma i personaggi in fantasmi e che contiene solo una parvenza di verità, riducendo il passato a un’inesistenza in cui ogni storia si dipana differente per seguire un percorso in continua trasformazione, deformato dall’incertezza del ricordo se non dalla volontà del cercatore del tempo perduto di “accomodare” il passato al fine di modellare una storia. In tal modo ad esempio il rapporto tra le due amiche, Kate e Anna,è molto più sottile di quello che sembra. Le due donne della pièce forse sono state molto più di due amiche o forse no, forse hanno avuto lo stesso amante, Deeley, o forse ognuno ricorda un passato diverso. Poiché il tempo è perduto per sempre, conta l’enunciazione, la ricostruzione di un mondo che i tre interpreti tessono per dare l’illusione di un senso compiuto. Forse più che una storia ricostruita dal ricordo, Vecchi tempi è un storia decostruita, per cui ogni battuta che segue non solo contraddice la precedente ma scuce e ricuce in modo differente l’idea che ci eravamo fatti disorientando ogni tentativo del fruitore di crearsi un mondo organico. Già dall’incipit Deeley e Kate parlano dell’imminente arrivo dell’amica di Kate, Anna, la quale però è già presente sul palco anche se defilata, in piedi presso la finestra. Pertanto il ricordo di Anna da parte di Kate è già “presente” nel qui adesso, anche se metaforicamente. La presenza di Anna in scena (Pinter avrebbe potuto far entrare Anna in un secondo momento) rappresenta già la labilità del ricordo (la donna potrebbe già essere arrivata magari il giorno prima) se non addirittura l’intrusione del ricordo nella materialità dell’evento messo in scena; eppure la vediamo nel quadro ma isolata come in una dissolvenza incrociata di un film (1):

Si distinguono tre figure.
Deeley sprofondato nella poltrona, immobile.
Kate accoccolata su un divano, immobile.
Anna in piedi presso la finestra, guarda fuori.
Silenzio.
Luci su Deeley e Kate, che fumano entrambi.
La figura di Anna resta immobile nella penombra, accanto alla finestra.


KATE (riflessivamente) Bruna.
Pausa
DEELEY Grassa o magra?
KATE Più piena di me. Mi pare.
Pausa.
DEELEY Lo era allora?
KATE Mi pare di sì.
DEELEY Può non esserlo più. (Pausa) Era la tua migliore amica?
KATE Che vuoi dire?
DEELEY Cosa?
KATE La parola, amica…quando pensi… dopo tanto tempo.
[…]
DEELEY Sapevo che eri vissuta con qualcuno per un certo tempo… (Pausa). Ma non sapevo fosse lei.
KATE Certo che era lei.
Pausa.
DEELEY Comunque, tutto questo non importa.
Anna si volta, parlando, lascia la finestra e si dirige verso di loro, alla fine siede sul secondo divano.
ANNA A far la coda tutta la notte, sotto la pioggia, ti ricordi? Mio Dio, l’Albert Hall, il Convent Garden, senza mangiare, ma ci pensi? Passavamo metà della notte a fare le cose che più ci piacevano, beh certo eravamo giovani allora, ma che resistenza, e la mattina in ufficio, e poi un concerto, o un’opera, o un balletto quella sera stessa, lo hai dimenticato? […] ad ascoltare ascoltare tutte quelle parole, in quei caffè tutta quella gente, senza dubbio geniale,mi chiedo, tutto questo esiste ancora? Voi ne sapete qualcosa? Potete dirmelo?

Anche i rapporti tra i tre personaggi sono evanescenti, impalpabili; il rapporto tra Deeley e Kate che sembra concreto, solido, sicuro, con Anna relegata “nel passato”, si inverte quando Anna comincia a interloquire con i coniugi, quindi, iniziando un dialogo con Deeley, parla di Kate al passato come se la donna non sia presente sulla scena.

ANNA Sono così felice di essere qui.
DEELEY So che a Katey fa piacere rivederla. Non ha molti amici.
ANNA Ha lei.
DEELEY Non si è fatta molti amici, sebbene abbia avuto tutte le opportunità per farsene.
ANNA Forse ha tutto ciò che vuole.
DEELEY Manca di curiosità.
ANNA Forse è felice così.
Pausa
KATE State parlando di me?
DEELEY Sì.
ANNA È sempre stata una sognatrice.
DEELEY Le piacciono le lunghe passeggiate. Tutte quelle cose. Mi spiego? Impermeabile addosso. Mani in tasca, giù per il sentiero. Tutte quel genere di cose.

Questo modo di procedere (anche Deeley viene poi “relegato” ai margini quando si entra nel cuore della commedia, ossia quando le due donne cominciano a rievocare i ricordi comuni della loro vita londinese, nei giorni in cui frequentavano i salotti letterari o andavano al cinema) disorienta lo spettatore, ma soprattutto induce il lettore, costatata l’inaffidabilità della memoria, a ricostruire un passato più o meno coerente. A questo punto sembra che Deeley tenti di recuperare un ruolo nel dialogo ma soprattutto nel “passato” delle due amiche ricordando lo stesso film visto dalle donne (Il fuggiasco di Carol Reed, 1946), e soprattutto affermando di avere conosciuto Anna durante una festa mentre era seduta su un divano e di averle guardato insistentemente le gambe. Questa perlustrazione del passato da parte di Deelay, nel rammentare eventi che almeno in un primo momento Anna sembra non ricordare, questa sua intrusione nella vita “a due” di Anna e Kate, dei loro giorni spensierati, di quando frequentavano salotti e caffè, tende a immergersi in un mondo proustiano. Infatti anche in Vecchi tempi la “memoria volontaria” cede il passo a sensazioni che sanciscono il passaggio in un evanescente mondo in cui il ricordo emerge quasi smarrito, ricordo labile ma dal profumo intenso nel recuperare episodi come dimenticati da Anna o mai avvenuti:

ANNA Lei sta dicendo che ci siamo conosciuti?
DEELEY Certo che ci siamo già conosciuti. (Pausa). Ci siamo già parlati. In quel locale, per esempio. Nell’angolo. A Luke la cosa non piaceva, ma noi l’ignoravamo. Più tardi andammo tutti ad una festa. In casa di qualcuno, dalle parti di West Bourne Grove. Lei era seduta su un divano molto basso, io le sedevo di fronte e guardavo fisso sotto la sua gonna. Le sue calze nere erano nerissime, perché le cosce erano così bianche. Questa è roba passata, naturalmente, non è vero? Non ha più senso, ma allora ne aveva. Ne valeva la pena. Quella notte ne valse la pena. Io me ne stavo semplicemente lì, sorseggiando la mia birra bionda e guardavo… guardavo fisso sotto la sua gonna. Lei non si opponeva. Trovava il mio sguardo perfettamente accettabile.
ANNA Vuol dire che ero consapevole del suo sguardo?
DEELEY C’era una gran discussione […] ma soltanto io avevo una vista di cosce che si baciavano, soltanto lei aveva cosce che si baciavano. E adesso lei è qui. La stessa donna. Le stesse cosce. (Pausa). Sì. Poi arrivò una sua amica, una ragazza, amica sua. Si sedette sul divano accanto a lei, e vi metteste a chiacchierare e a ridere […] ed io mi sistemai più in basso per guardarvi a tutte e due, le cosce ad entrambe […] lei consapevole, l’altra ignara […]
ANNA Sono veramente mortificata.
DEELEY Mi pare giusto. (Pausa). Non l’ho più rivista. Scomparve dalla circolazione. Forse cambiò casa.
ANNA No. Restai dov’ero.

È un tempo perduto ritrovato e “fissato” nell’eternità dall’arte. Ma Pinter deve fissare la “verità” nell’essenza stessa dell’arte per cui il ricordo non è una ricostruzione logica di eventi passati (la memoria volontaria di Proust), e pur essendo una reminiscenza (la memoria involontaria con il classico esempio del profumo della madeleine sempre in Proust), diventa attività creatrice dell’artista, l’atto stesso di restituire l’eternità di un evento alla memoria vero o falso che sia:

ANNA. Io non ho mai conosciuto Robert Newton, ma credo di sapere ciò che lei vuol dire. Ci sono cose che si ricordano anche se possono non essere mai accadute. Io ricordo cose che possono non essere mai accadute ma, poiché le ricordo, sono accadute.

(1) Tutte le citazioni sono tratte da: Harold Pinter, Vecchi tempi, Einaudi, Torino 1976(3)

Nella foto. Dorothy Tutin, Colin Bateman e Vivien Merchant alla prima di Vecchi tempi, Aldwych Theatre 1 giugno 1971. Fotografia di Donald Cooper

21 agosto 2012

La cantatrice calva (Eugène Ionesco, 1950)

Mi sono sempre chiesto quale sia il senso profondo di girare un film, nell’accezione che se intendo con un film raccontare una storia, ebbene, pur ammettendo l’interesse fondamentale di una narrazione, perché raccontare una storia e non, ad esempio, un disagio, un sentimento, un quadro, un temporale, una pozzanghera? Mi rendo conto che i miei dubbi sono paragonabili alla scoperta dell’acqua calda, ecco perché intendo fare “attraversare” questa mia ordinaria riflessione da un post dedicato a un’opera di letteratura teatrale. Il teatro è una grande passione, forse ancora più grande del cinema, ma mi rimane così complicato tentare di “fissare” su carta le emozioni provate da una rappresentazione (con tutte le sue varianti, variabili, imprevisti, scelte di regia, modi di recitazione, ecc.) da vedermi costretto a limitarmi all’osservazione di un canovaccio, un testo scritto, importante, ma non fondamentale per il teatro.

L’altro giorno rivedendo La cantatrice calva di Eugène Ionesco ho provato il desiderio di rileggere il testo. Mi sono accorto che il testo (scollegato dai vari adattamenti che possono esaltarne la comicità, la riflessione politica, la metafora, oppure possono adattare il testo alla situazione e ai cliché di questa Italia di inizio III millennio) isolato dal contesto, reso assoluto e scollegato dall’humus culturale anche del periodo in cui è stato prodotto (la Parigi del 1950) presenta una banalità inaspettata. I dialoghi dell’incipit della signora e del signor Smith sono di una ovvietà disarmante. Mi si dirà che è importante il contesto. Il rapporto tra opera e uomo, le situazioni assurde del testo nascono dall’esigenza di focalizzare l’isolamento dell’uomo moderno rinchiuso nelle proprie abitudini, inidoneo a comunicare, privo di ogni logica o strategia, prigioniero del ruolo ricoperto. Infatti non metto in dubbio la grandezza dell’opera. La mia riflessione intende al contrario mettere in evidenza proprio l’opposto: La cantatrice calva è un capolavoro perché è adattabile a ogni epoca. Era una valida critica alla società degli anni cinquanta come lo è oggi e probabilmente come lo sarà anche domani. Questa capacità di attraversare i tempi è dovuta proprio alla perdita di ogni riferimento. Il plot (se di plot si può parlare) tende a evaporare lasciando emergere il discorso in tutta la sua potenza. Un testo fatto di situazioni “banali”, dialoghi che vestono soltanto circostanze senza “sbocco” nel senso che non esistono nuclei narrativi e se il testo è infarcito di “catalisi” (Roland Barthes) , riempitivi (ma poi forse a ben vedere non è poi così palese), non solo si può parlare di un testo antiepico ma addirittura di un lavoro evanescente, evaporato nell’ordinario, luogo in cui la storia è tramontata perché annichilita dall’impasse in cui l’ha portata l’uomo moderno, disilluso dalle ideologie, antiromantico e non in grado di applicare il valore della Storia, della Cultura di un paese, di un continente, del globo intero, alla sua vita ordinaria, come se questa sua vita, come se il mondo che ci circonda, le strade, i porti, le città, i mari, le campagne, non siano il risultato di una successione cronologica di eventi, ma un’eterna esistenza, come un tempo cristallizzato e immobile, un frame stop che crediamo immutabile, ma che invece si muove al di là di ogni nostra contraria illusione. Ionesco, per entrare in questo buco nero dell’assenza di mondo, per analizzare e conoscere i luoghi comuni, doveva affondare nella melma dell’immobilismo, penetrare nei meandri di una realtà fatta solo di riempitivi, simile a una torta salata senza una crosta, una massa informe di luoghi comuni. Se per Barthes(1) le funzioni cardinali del testo sono nuclei narrativi (amori, tradimenti, guerre,incontri, eventi) e mentre quelle secondarie sono catalisi (oggetti, descrizioni, pensieri, paesaggi, ecc.) per l’autore della Cantatrice il racconto è svanito, è diventato una massa informe di funzioni che non funzionano. Ormai i “riempitivi” (catalisi) vivono di vita propria, attraversano un tempo indefinibile,ambiguo e impalpabile, invadono e occupano i pensieri così come gli eventi degli uomini assumono essi stessi la funzione principale per definire una nuova forma di “racconto”. Non un’antiepica composta da nuclei e catalisi (il romanzo moderno d’autore) ma una neoepica, nuova forma di testo in cui le dimensioni spazio-temporali sono saltate, e in cui non è possibile raccontare una storia solo perché il tempo non riesce a funzionare; e senza una progressione cronologica (pur con le sue analessi ed eventuali prolessi) risulta inaffidabile, mentre il racconto non riesce a dipanarsi, a tutto vantaggio di un racconto il cui oggetto diventa il suo stesso discorso. Pertanto si tratta di disarticolare il linguaggio per togliere ogni riferimento narrativo e “annullare” o ridurre al minimo la presenza degli oggetti, per slegare ogni riferimento di verosimiglianza e addirittura evitare di dare forma a oggetti pensati come effetti di reale. Gli oggetti infatti (quei pochi descritti rendono il testo fumoso: “Interno borghese inglese, con poltrone inglesi” oppure “[…] nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi […] la sua pipa inglese […] un giornale inglese” ) non servono a definire un effetto di reale ma a dare forma a un evidente “difetto di reale”.

Due esempi: Incipit (scena 1); i Martin (scena 4)

Nella commedia saltano subito i riferimenti temporali: il pendolo batte diciassette colpi quindi tre volte, poi non suona nessun colpo e poi di nuovo cinque colpi. I signori Smith parlano di un funerale avvenuto un anno e mezzo fa, mentre il defunto è morto due anni fa e sul giornale si è parlato del decesso tre anni fa. I ricordi sono confusi, i due coniugi non definiscono bene i fatti, la narrazione è falsata e allo spettatore non viene dato alcun punto di riferimento. Così ad esempio il defunto Bobby Watson aveva una moglie che si chiamava anche lei Bobby Watson e “siccome avevano lo stesso nome, non si riusciva a distinguerli l’uno dall’altra quando li si vedeva assieme” (2).

SIGNORA SMITH […] È stato solo dopo la morte di lui , che si è potuto sapere con precisione chi fosse l’uno e chi fosse l’altra. Tuttavia, ancor oggi, c’è gente che la scambia per il morto e le fa le condoglianze. Tu la conosci?
SIGNOR SMITH Non l’ho vista che una volta, per caso, al funerale di Bobby.
SIGNORA SMITH Io non l’ho mai vista. È bella?
SIGNOR SMITH Ha tratti regolari, eppure non si può dire che sia bella. Troppo alta e troppo massiccia. I suoi tratti non sono regolari, eppure la si potrebbe dire bella. È un po’ troppo piccola e magra. È insegnante di canto.

Non è neppure possibile conoscere i connotati delle persone e addirittura sapere niente di preciso della loro vita. Non si sa se abbiano figli o meno e poi non si riesce a capire se la signora Bobby si sposerà e con chi e per quale motivo e se sia lei veramente la sposa:

SIGNORA SMITH E quando pensano di sposarsi quei due?
SIGNOR SMITH La primavera prossima, al più tardi.
[…]
SIGNOR SMITH Per fortuna non hanno figli
SIGNORA SMITH Non ci sarebbe mancato che questo! Figli! Povera donna, che cosa ne avrebbe fatto?
SIGNOR SMITH È ancora giovane. Può benissimo risposarsi. Il lutto le sta così bene!
SIGNORA SMITH Ma chi si prenderà cura dei figli? Lo sai che hanno un bambino e una bambina, come si chiamano?
SIGNOR SMITH Bobby e Bobby, come i loro genitori. Lo zio di Bobby Watson, il vecchio Bobby Watson, è ricco e vuol molto bene al bambino, potrebbe incaricarsi lui dell’educazione di Bobby.
SIGNORA SMITH Sarebbe logico. E la zia di Bobby Watson, la vecchia Bobby Watson, potrebbe benissimo incaricarsi per parte sua dell’educazione di Bobby Watson, la figlia di Bobby Watson. Così la mamma di Bobby Watson, Bobby, potrebbe risposarsi, ha qualcuno in vista?
SIGNOR SMITH Sì, un cugino di Bobby Watson.
SIGNORA SMITH Chi? Bobby Watson?
SIGNOR SMITH Di quale Bobby Watson parli?

Tutti i Bobby Watson inoltre fanno i commessi viaggiatori e lavorano solo tre giorni alla settimana: il martedì, il giovedì e il martedì. Persino i ruoli maschio femmina sono confusi, così gli uomini fanno come le donne e viceversa: bevono whisky, fumano, si incipriano, si tingono le labbra di rosso. I rapporti tra le persone come tra i coniugi sono così labili che non è possibile sapere neppure quando e come si siano conosciuti e addirittura se veramente siano consapevoli di conoscersi. Così ad esempio nella scena quarta, i Martin sono soli e scoprono di vivere nella stessa casa e di essere veramente sposati:

SIGNOR MARTIN Mi scusi, signora, non vorrei sbagliare, ma mi pare di averla incontrata da qualche parte.
SIGNORA MARTIN Anche a me, signore, pare di averla incontrata da qualche parte.
SIGNOR MARTIN. Non l’avrò, signora, per caso intravvista a Manchester?
SIGNORA MARTIN Potrebbe darsi. Io sono nativa di Manchester! Tuttavia non ricordo bene, signore; non potrei dire se è là che l’ho vista, o no!
SIGNOR MARTIN Dio mio, è veramente curioso! Anch’io sono nativo di Manchester, signora!
[…]

Così i due scoprono di avere lasciato Manchester circa cinque settimane fa e di avere preso lo stesso treno, quello delle otto e mezzo del mattino, quello che arriva a Londra un quarto alle cinque. E di avere occupato lo stesso vagone, il numero otto e nello stesso scompartimento e che avevano i posti uno davanti all’altro.

SIGNOR MARTIN Non è lei, cara signora, la signora che mi ha pregato di metterle la valigia sulla reticella e che dopo mi ha ringraziato e permesso di fumare?
SIGNORA MARTIN Ma sì, dovrei proprio essere io, signore! Com’è curiosa, curiosissimamente curiosa questa coincidenza!
SIGNOR MARTIN Che curiosa e bizzarra coincidenza! Non le pare, signora, che noi potremmo esserci conosciuti in quel momento?
SIGNORA MARTIN Oh! È certamente una curiosa circostanza! È possibile caro signore! Tuttavia non credo di ricordarmene.
SIGNOR MARTIN Neppure io, signora.

I coniugi scoprono poi di abitare entrambi a Londra nella stessa via allo stesso numero nello stesso appartamento e di avere una figlia con un occhio bianco e uno rosso. Finché…

SIGNOR MARTIN […] Allora,cara signora, io credo che non vi siano più dubbi, noi ci siamo già visti e lei è la mia legittima sposa… Elisabetta, ti ho ritrovata!
[…]
SIGNORA MARTIN Donald, sei tu, darling!

Gli adattamenti filmici a una commedia simile non sono che video-commedie nel senso che non fanno che riportare la commedia in un filmato senza aggiungere nulla di nuovo all’opera drammaturgica (vedi le due trasposizioni francesi di Alexandre Tarta del 1980 e Vincent Bataillon del 2007, nonché quella italiana con la grande Franca Valeri di Josè Quaglio del 1967). Purtroppo non mi risulta siano state girate trasposizioni dell’opera nel cinema (ma posso essere smentito). Ho pensato molto a come un film dovrebbe restituire il senso profondo dell’opera senza risultare un’ordinaria video commedia e ritengo che una trasposizione dovrebbe attenersi (pur rispettando la volontà dell’autore riguardo al tempo, ai personaggi e alla disarticolazione del linguaggio) alle regole del cinema distorcendo più il montaggio delle immagini che le frasi dette. Ad esempio il dialogo degli Smith potrebbe evidenziarsi mostrando immagini del funerale avvenuto un anno prima e poi due anni prima e poi quattro anni prima con sequenze dei signori Watson, ossia il defunto che saluta la moglie, il padre i figli, tutti Watson, così come l’incontro dei Martin potrebbe avvenire contemporaneamente a Manchester e poi sul treno e in casa propria con abbraccio finale con la figlia con occhio-bianco rosso messo però in discussione dalla cameriera Mary (scena 5) che confuta tutto quanto detto dai Martin:

MARY […] Posso dunque rivelarvi un segreto. Elisabetta non è Elisabetta e Donald non è Donald. Eccone la prova: la bambina di cui parla Donald non è la figlia di Elisabetta, non si tratta della stessa persona. La figlia di Donald ha un occhio bianco e uno rosso, precisamente come la figlia di Elisabetta, tuttavia, mentre la figlia di Donald ha l’occhio bianco a destra e l’occhio rosso a sinistra, la figlia di Elisabetta ha l’occhio rosso a destra e l’occhio bianco a sinistra! […] Ma chi è allora il vero Donald? Qual è la vera Elisabetta? Chi mai ha interesse a far durare questa confusione. Io non ne so nulla. Non sforziamoci di saperlo. Lasciamo le cose come stanno […] Il mio vero nome è Sherlock Holmes.

In altri termini, come Ionesco ha inteso mettere in crisi il teatro a lui coevo, giocando sul linguaggio e lasciando svanire tempo e storia, così il filmico dovrebbe poter evaporare scena dopo scena lasciando nelle immagini il senso profondo della struttura quale viene evidenziata nello story board (o nell’atto stesso di filmare) con (ad esempio) ipotesi di movimenti di macchina, ipotesi di sequenze mai montate e prove di recitazione mal riuscite, destabilizzando la nozione stessa di filmico nel lasciare dissolvere gli stessi personaggi nei meandri imperscrutabili del mondo reale. Insomma la trasposizione filmica dovrebbe procedere tutto all’opposto della resa teatrale: per arrivare agli stessi risultati dovrebbe partire proprio dal racconto al fine di far emergere la sua drammatica e inquietante impalcatura. Forse solo un David Lynch sarebbe in grado di fare una simile operazione.

(1) R.Barthes, L'effet de réel, in Communications, n. 11, Paris 1968, pp. 84 e sgg. Il saggio, tradotto in italiano, si trova in: R. Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi 1988, pp. 151-159. (Ho già citato questa nota in un altro mio post, se ricordo bene proprio su Lynch. Mi scuso per la pedanteria).
(2) Tutte le citazioni sono tratte da: Eugène Ionesco, La cantatrice calva, Einaudi, Torino 1958, 2 ristampa 1980
Nella foto. Nicolas Bataille, secondo da destra, alla prima della Cantatrice Calva, Teatro Les Noctambules, Maggio 1950. Fotografia di Lipnitzki/Roger Viollet/Getty