
L’altezza di un bambino (nove centimetri più basso del novenne Walter Collins) o la differente arcata dentale o il fatto che il piccolo mistificatore non ritrovi il suo posto in classe, convincendo così la maestra di non avere davanti a sé il “vero” Walter, non rappresentano prove a carico messe a disposizione dello spettatore al fine di ricostruire un’indagine che concordi con la versione della madre, Christine Collins. Per questo sarebbe stato sufficiente il punto di vista della madre e noi spettatori avremmo comunque stabilito un “contatto” empatico con lo “sfortunato” personaggio. Durante la sequenza finale del film uno spettatore ha pronunciato appena un attimo prima di Angelina Jolie la fatidica parola, “speranza”, crogiolandosi nell’autocompiacimento dopo avere avuto conferme alle sue aspettative. Alcune persone in sala si sono indignate quando Gordon Northcott ha negato la sua colpevolezza; uno spettatore seduto alcune file sopra di me ha sentito di odiare il capo della polizia lasciandosi sfuggire una brutta parola. Con questi presupposti il film potrebbe sembrare il solito spettacolo accattivante, un’opera che ti prende per mano e ti conduce nel suo dipanarsi
événementielle fino all’epilogo ormai stampato da tempo come scelta mentale voluta dal regista o dalla produzione. Ma Changeling per fortuna non è un film che vuole mostrare la forza della speranza, perché questa forza è già evidente sin dal primo fotogramma, anzi è già espressa nella storia “vera”, o meglio nei verbali del processo che si tenne nel 1928 nei confronti del capitano Jones o negli articoli dei giornali dell’epoca. La sostituzione del figlio con un impostore e il comportamento della polizia che cerca di avallare la veridicità “fisica” degli eventi e la “malattia” della madre sono espedienti utilizzati spesso dal cinema per “convincere” i nostri sensi che gli evanescenti fantasmi scolpiti dalla luce siano proiezioni reali. Ma questo non è il caso di Changeling, perché la malattia non risiede nella mente della cavia che si ostina a non riconoscere, ma nel tentativo di formare un’immagine verosimile. In altri termini il bambino impostore potrebbe essere il vero Walter in quanto icona di un’epoca, ossia idea fotografica di un certo modo di concepire l’infanzia americana degli anni venti. In fondo possediamo solo cinegiornali, fotografie, incartamenti, verbali che aiutano certamente a ricostruire storicamente gli eventi di un’epoca tramontata, ma che non rilasciano l’odore, la forza prorompente dei tempi. E solo il cinema possiede quella dose di magia per poterlo fare. L’odore di un’epoca, la sua segreta vitalità, la sua essenza profonda è trasmigrata nel cinema, nella sua capacità di raccontare ma anche di “mostrare”. A questo proposito due aspetti mi hanno particolarmente colpito: il gioco fluido dell’effetto di reale; l’utilizzo del campo/controcampo.
La fluidità della mdp ci mostra bambini che giocano, i loro giocattoli, asce insanguinate, cappellini, una centralina telefonica dell’epoca, le vecchie auto dei nostri ricordi qui nuove di zecca, tram che viaggiano lentamente, quasi a passo d’uomo, che puoi rincorrere per un po’ sulla pavimentazione della via. Il cinema non può ancora rilasciare concretamente gli odori che invece mostra attraverso le immagini, ma questi stessi odori emergono nelle sensazioni provate attraverso un input che lo sguardo invia all’olfatto. Odori immaginari, non riprodotti dalla tecnologia(visione, audio) ma da una certa atmosfera che inverte il meccanismo per cui si realizza la funzione olfattiva. I recettori degli stimoli delle mucose nasali trasformano l’informazione chimica in impulso nervoso, ma in questo caso probabilmente l’immagine, e l’atmosfera dei tempi che suscita, stimola il ricordo di antichi profumi, resuscita l’odore insito nei tempi, quell’odore di amido e lavanda che usciva una volta dai cassetti della nonna, di bucato pulito lavato a mano e di dolci e caramelle che il commesso prelevava dal boccione di vetro di un’antica pasticceria. Forse questi profumi li ha “annusati” soltanto il sottoscritto, ma suppongo che Clint Eastwood abbia scelto (com’è suo solito) la ricostruzione puntuale e inappuntabile di un’epoca o almeno di come oggi “deve” essere immaginata quell’epoca. Los Angeles anni venti-trenta, polizia corrotta che uccide senza regolari processi e che rinchiude donne supposte fragili ma in realtà forti e tenaci, bambini che mangiano panini incartati con cura, camminano da soli per le strade, abbandonati o semplicemente lasciati crescere nel mondo. In una sequenza del manicomio assistiamo ad un elettroshock, un macchinario diabolico che fa scorrere la corrente elettrica nel cervello del paziente inducendo convulsioni, utilizzato su una “paziente” che non accetta il suo ruolo voluto dalla società civile. Questa terapia elettroconvulsivante, detta TEC, (dovrei rivedere il film, ma all’epoca era già stato inventato il macchinario?) induce una scossa nel cervello del malato ma anche nella nostra mente; è la sintesi estrema, la personificazione del Male spacciato per il Bene. Città degli Angeli, 1928; eppure sembra di essere agli inferi, ma il fatto è che gli inferi sono verosimili, ingannevoli, perché riescono a creare illusione di realtà, a ingannare mostrando una qualità sopportabile del Bene. Il cinema è stato ed è un mezzo capace di supportare queste volontà politiche, offrendo con la sua Luce bianca e pura ogni possibilità di redenzione, di ricostruzione. Infatti viene offerta a Christine Collins la possibilità di ricostruirsi una vita verosimile attraverso la convivenza di un figlio verosimile in una Los Angeles verosimile. Ma Eastwood mostra solo in lontananza questa città verosimile perché quando la mdp si avvicina alla superficie, e scava dentro gli oggetti, dalle fauci della terra emergono gli scheletri degli effetti di reale: gli oggetti mostrano, indicano, rivelano che siamo all’inferno, che la luce del cinema non è pura, ma opaca. La sig.ra Collins sceglie la seconda possibilità: gettare la maschera, non prendere droghe, rifiutare l’apparenza della bellezza. La bellezza è anche la polvere del macadam, è anche il respiro della morte, non perché la morte sia bella ma perché la morte esiste ed è concreta, trasforma in larva anche il peggiore dei criminali. L’appiccato e i suoi tremori è un altro effetto di reale che non indica un autocompiacimento, una soluzione trovata e completata dal Bene (purtroppo in sala ho sentito “gridolini” di sollievo, appagamento per l’espiazione del “cattivo”), ma solo la fredda affermazione del Male, la ricerca di una conoscenza, un’analisi compiuta (attraverso i movimenti del condannato che sale le scale, si lamenta, soffre, ha paura, viene incappucciato) per scavare ancora una volta nelle viscere della terra scoprendo ciò che non è possibile vedere. La realtà è costruita attraverso i suoi oggetti, attraverso i suoi particolari e Eastwood, da grande regista qual è, lo sa benissimo.
Non gradisco molto nei film contemporanei l’eccessivo utilizzo del campo controcampo, lo confesso, e per eccessivo uso intendo solo tre o quattro scene. Non lo sopporto più di tanto, lo apprezzo certamente nel cinema classico, ma non in quello odierno; eppure in Eastwood riesco a gradirlo perché il suo non è un uso precipuo per mostrare l’altro, ma per annullare lo spazio dell’altro. Innanzi tutto sovente, quando inquadra il volto nitido e in primo piano (anche in primissimo piano) dell’attore in campo, la nuca dell’interlocutore è spesso mostrata fuori fuoco. Come se non bastasse l’annullamento dell’altro attraverso la formazione di un inganno (la donna è pazza e va curata), un inganno verosimile, si annulla anche l’altro attraverso l’esclusione, per cui il controcampo diventa luogo di interdizione, una porzione di territorio altrui. In questo concordo con Giona A. Nazzaro quando scrive: “Scindete la parola: contro-campo sembra indicare la porzione di territorio, spazio, inquadratura occupata dall’altro per antonomasia, ossia il nemico, e ciò che potenzialmente ci nega come identità che guarda, essendo noi nel campo” (1). Quindi noi siamo “portatori di un altro controcampo”, siamo coloro che escludiamo ma anche coloro che sono esclusi. Questi primi piani della Collins e del capitano Jones che si affrontano nel campo/controcampo sono un duello oltre che diegetico anche iconico. Il rossetto di Christine che risplende sulle sue labbra e che dovrebbe denotare un senso erotico, accattivante, attraente, in realtà ispira sofferenza, ispira il sangue della guerra come quello incrostato sull’ascia utilizzata da Gordon Northcott per abbattere bambini. Ecco perché lunghi brividi hanno attraversato il mio corpo, un po’ come convulsioni indotte da un macchinario, per via dei profumi, del sangue, dei poveri resti e dei semplici oggetti quotidiani che oggi non esistono più se non nei musei o in qualche soffitta.
(1) Giona A. Nazzaro, L’epifania dell’altro, in Filmcritica n. 573 marzo 2007 p. 123. Questo articolo di Nazzaro è un’analisi di Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood.