
Machan viene presentato come la storia vera di una falsa squadra di pallamano ma potrebbe essere una storia falsa di una vera squadra di pallamano. In effetti quando a Manoj e Stanley viene in mente, leggendo un depliant su cui è pubblicizzato un torneo che sarà disputato in Germania, di costituire una squadra singalese di pallamano allo scopo di poter eludere i controlli del governo per raggiungere l’agognata Europa, dove “tutte le cose sono più belle” (1), non fanno altro che incidere sullo stato “abituale” del loro mondo mettendo in discussione una norma. Per una serie di circostanze “casuali” (nel rispetto dei meccanismi che regolano il comico) il numero dei candidati-giocatori (e pertanto dei futuri clandestini) aumenta di sequenza in sequenza. In questa prima parte del film la mdp mostra gli slum di Colombo e la grama vita che vi si conduce, ma mostra anche un albergo di lusso frequentato da turisti tedeschi e per contrasto mostra la dignità dei poveri abitanti che non rinunciano alla loro umanità affrontando a testa alta le avversità quotidiane. Non è semplice ambientare una commedia in un contesto di miseria forse più adatto a una trasposizione melodrammatica, perché “ridere” sulla disperazione presuppone allineare l’empatia dello spettatore alle condizioni sociali e psichiche dei personaggi. Intendo affermare che per ottenere un risultato che non trascini il plot narrativo nel grottesco Pasolini ha creato un equilibrio tra i caratteri di questi personaggi (sempre simpatici e divertenti tanto quanto li vorrebbe ad esempio un turista) e i loro tentativi “illegali” per ottenere l’oggetto del desiderio (l’espatrio nella ricca e bella Europa). Non deve essere stato semplice anche se il risultato a volte potrebbe ricordare gli slogan di una qualsiasi agenzia di viaggio. Anche se condizionati dalle esigenze del découpage gli “allegri” abitanti degli slum rischiano di somigliare troppo ai desiderata di qualsiasi occidentale in procinto di partire per Ceylon, ma il limite della commedia coordina un’incognita che dovrebbe rappresentare il risultato matematico del genere comico. Eppure nonostante alcuni difetti intrinseci al genere (e questi tipi di film non aiutano certo a far decollare il comico senza cadere nel grottesco o nel patetico) Machan presenta alcuni aspetti interessati legati soprattutto al senso in più (2) che riesce a trasmettere. Innanzitutto la Bugia che qui non è coerente e congruente come nella commedia degli equivoci, ma mostra comunque la sua importanza in un contesto in cui ogni mezzo è lecito per aggirare le “assurde” regole della significanza burocratica. Per burocrazia intendo una chiusura a tutto ciò che non rientra nei canoni classici della sicurezza, una chiusura alla trasgressione, alla prova stessa, che porta al peccato incurabile, alla perdita del connotato di “indigeno attendibile”. Altro aspetto è la stessa Trasgressione, il voler aggirare le regole senza peraltro trasgredirle veramente, trasgressione inattendibile proprio perché costretta nelle forme canoniche di una comicità a tratti troppo leggera: Manoj, Stanley e i loro amici giocano soltanto ma in fondo accettano il substrato profondo di quelle stesse regole mostrando così di omologare con il loro assenso la forma più retriva del potere: la burocrazia.
Trovo molto più interessante la progressione costante del Falso che non trascina nel gorgo della punizione prima e della redenzione poi, ma conduce all’acquisizione di una libertà (terzo aspetto) che è sempre stata nella mente dei singalesi (e nostra). La libertà non è il fine, il punto di arrivo (Europa), anzi il film si conclude proprio ai margini del vero dramma (e non poteva essere altrimenti per una commedia) innestandosi in aspettative melodrammatiche dovute allo status di clandestini. L’impossibilità (o le difficoltà) di rendere l’aspetto comico (e solamente quello) della disperazione obbliga Pasolini a fermarsi prima del confine. Questo perché la storia è solo una premessa, rappresenta l’antecedente dell’arrivo, e in questa storia la comicità è possibile (ma come abbiamo visto entro certi limiti molto rigidi) soltanto al di qua della raya; mentre il dopo, l’al di là, rientra nella nostra convinzione (una sorta di sostanza magmatica che può e deve essere accesa). Pertanto il Falso come anelito di libertà (almeno quella mentale dei protagonisti), gli oggetti come forme del falso (timbri contraffatti, carta intestata ricostruita al computer, ecc.) oppure come cause efficienti del bene e del male (il tetto di lamiera che viene venduto e l’asciugamani automatico che causa il licenziamento di un inserviente dell’Hotel), ma soprattutto il Vero come ombra costante di una promessa/premessa (la squadra falsa ma in fondo vera). La vera storia di una falsa squadra.
(1) Questa frase viene spesso citata nel film. Cito a memoria perché, avendolo visto una sola volta al cinema, non ricordo i termini precisi.
(2) Edoardo Bruno, Il senso in più, Bulzoni