
Il film è già scritto, segue il suo destino. Ogni volta che vediamo e rivediamo una sequenza ci illudiamo di vederla in un eterno adesso, di osservare eventi e personaggi come curiosi che si soffermano, distratti dai propri affari, per assistere a un litigio. Come finirà, cosa succederà? Ma un litigio (o altri eventi) incontrato lungo la strada non possiede un inizio e un epilogo perché è “solo” un flash insignificante fra tanti altri eventi “insensati” in cui ci caliamo contemporaneamente, eventi senza storia e senza morale perché sono “solo” eventi, sono “solo” la vita. Ma il cinema è il cinema e anche se ci illude della freschezza del suo mostrato o della purezza della sua luce è “solo” un testo. È già accaduto, o meglio, ha bisogno del nostro vissuto per accadere in fieri anche se è già tramontato nel suo passato. Così la storia di Han-ki e Sun-hwa e del loro casuale incontro, in realtà è già accaduta. La studentessa che attende il fidanzato su una panchina di una strada affollata, credendo di vivere un altro giorno qualsiasi, non dovrebbe sapere cosa sta per diventare a causa del protettore Han-ki appena sedutosi accanto a lei su quella stessa panchina. Il luogo comune della panchina come contenitore di amore (ossia ragazzo + ragazza + panchina = amore) diventa l’orrore della panchina come “vetrina” con il proprio contenuto di giovane carne esposta allo sguardo della libidine (ossia ragazza + panchina – amore = – ragazzo). Il senso apparente, estrapolato dal desiderio comune di un evento che sopravvive sulle scatole dei cioccolatini, diventa (scambiando i termini) l’orrore del tempo che non riesce a mostrare i suoi perché. E il cinema sta lì, davanti a noi, a indicarci che è sempre stato così, che Han-ki e Sun-hwa nella diegesi sono carnefice e vittima (o viceversa?), sfruttatore e studentessa costretta con l’inganno a prostituirsi, ma nell’iconico sono sempre stati, ancora prima che lo sguardo se ne renda conto, due corpi condannati ad essere amanti. E mentre nel plot Sun-hwa disprezza il suo carnefice, sputandogli in faccia, esigendo le scuse, non sa che nella fotografia (in un frammento di story board strappato e perduto in una spiaggia) è sempre stata al suo fianco come una arcaica rassegnata concubina. Il mondo però ci invia segnali apparentemente indecifrabili, che non siamo in grado di capire, e che il cinema tenta di rendere intelligibili attraverso la formazione di simboli. E spesso questi simboli sono oggetti qualsiasi (1) o riflessi vaghi ed evanescenti o certi momenti onirici che stanno lì non per essere decifrati ma per essere amati. Quando Han-ki si trova sulla spiaggia accanto a Sun-hwa vede una ragazza di spalle che cammina verso il mare immergendosi e scomparendo sotto la calma coltre equorea. Ma chi è quella ragazza? È la stessa che Sun-hwa incontra lungo la strada della sua fuga e che le mette una maglietta sulle spalle come per proteggerla dal gelido pianeta ostile? O è lei stessa, il fantasma di una “brava” ragazza che non esiste più? La foto strappata assemblata da Sun-hwa manca di una tessera e non può mostrare un volto. Sun-hwa non s

a ancora di chi è quel volto, conosce il contorno (o crede di conoscerlo) ma se attacca quella foto ricostruita allo specchio della sua cameretta, dove ogni sera dona il proprio corpo, il posto della parte mancante sarà di volta in volta occupato da un riflesso: il suo stesso volto che si pone sul corpo della ragazza della fotografia, il volto di Han-ki? Il cinema scivola in un riflesso assumendo una forma incorniciato da un testo (o da quel che ne rimane) che non è mai stato (il testo) ciò che avrebbe “voluto” essere. Difficile muoversi in questo film, tanti sono gli spunti e i motivi per riflettere. Ad esempio, può un volantino in quanto arma fronteggiare un coltello? O un vetro, portato sottobraccio come lo farebbe un vetraio mentre si reca a sostituirlo, può colpire e ferire? Nel cinema si può. Eco tre aspetti che mi hanno incuriosito:
1. Origami come piega dell’extra spazio/tempo. In una sequenza Han-ki fronteggia un avversario piegando un volantino pubblicitario in modo da dargli una forma simile a un cono appuntito che poi infilerà nella gola del suo rivale. Un origami contro un coltello non ha possibilità nel reale, un foglio contro la lama d’acciaio, qualcosa che non sembra nato per essere oggetto del male contro qualcosa che spesso simboleggia (grazie anche a tanto cinema classico) l’evento principale della ballata di un guappo: il duello all’ultimo sangue con un coltello in mano e tanto romantico coraggio. Ma nel cinema l’origami è la piega che cela il senso o l’assunto che si camuffa in arma per rimandare (almeno fino all’epilogo) lo scioglimento catartico. In questa arma c’è un condensato di immagine e scrittura, c’è il bisogno di nascondere, velare, ripiegare il mistero per tagliare un altro fotogramma, per esorcizzare la morte senza guardarla in faccia (un po’ come lo scudo di Atena usato da Perseo per sconfiggere Medusa) (2). La carta del cinema può anche (tra le pieghe di un’ellissi o di una panoramica che mette fuori campo un personaggio, o di una zoomata che butta fuori dal quadro il contorno) sconfiggere un finto acciaio o il passato di un altro cinema che non c’è più. La carta (dove potrebbe trovarsi la sceneggiatura del film), tagliando il corpo, forma l’immagine come contenitore di una proiezione, come raccordo tra uno spazio-tempo che sta per lasciarci e un’attesa dell’imprevisto che sta per essere vista. Insomma il fuisse viene de

terminato dal futurum esse.
2. La trasparenza come arma (il vetro che ferisce). Un vetro sottobraccio, anche se appuntito, non è un modo per uccidere. Quasi impossibile muoversi nello spazio per sperare di colpire il nemico. L’arma è piuttosto il sogno di determinare una trasparenza filmica che lasci “parlare” gli oggetti e gli eventi, come se la pellicola non esistesse, il cast non esistesse. Quel vetro diventa una sorta di deissi che torna ogni volta ad annullare la sua stessa trasparenza (del vetro). Ossia un tal vetro come arma diventa di un’opacità inaudita, una trasparenza opaca.
3. La luce dentro lo specchio. Han-ki spia Sun-hwa da dietro lo specchio, soffrendo nel vederla prostituirsi, soffrendo nel vederla piangere ma anche nel vederla trasformarsi in una puttana desiderata da tutti. Vede non visto, ma il desiderio di fondersi col riflesso di lei adagiato sullo specchio trascina l’opacità speculare, che riflette l’immagine di Sun-hwa, a ridosso della trasparenza (dell’attraverso). Per creare una simile rappresentazione ci vuole una luce (in questo caso un accendino). Per trascinare il mondo riflesso dallo “specchio di Atena” (3) oltre lo specchio stesso ci vuole la luce che solo il cinema può ricostruire. La fusione può sembrare totale, ma ha un costo alto: la possibilità di rivelare il trucco e l’alienazione dell’ego nell’abisso di una credenza (appagamento?).
(1) Oggetti qualsiasi come un portafoglio (tra l’altro un oggetto fondamentale per la storia del film), ma anche accendini, parrucche colorate, vetri, coltelli, ma soprattutto il catalogo delle opere di Schiele , un pittore espressionista. I pittori espressionisti non considerano le leggi della prospettiva e né l'illusione del volume e della profondità. Le linee e il colore sono utilizzati per evidenziare la visione drammatica e pessimistica sul mondo e la società.
(2) Kracauer afferma (cito a memoria) che nel mito la decapitazione di Medusa non significa ancora la fine del suo regno. Infatti Atena fissò la terribile testa sul suo scudo per gettare il terrore tra i nemici. Perseo, che ne aveva vista l’immagine, non riuscì a distruggerne completamente lo spettro (Krakauer, Film: ritorno alla realtà fisica (1960) Milano, Il Saggiatore 1962)
(3) In realtà si tratta dello scudo di Atena e non dello specchio, ma lo scudo nel mito di Perseo e Medusa viene usato come uno specchio.