9 settembre 2014

Across the Universe (Julie Taymor, 2007)

Spazio e tempo. Liverpool vs Princeton-New York; ossia le mura del quartiere operaio salgono in alto, le gru e le navi del cantiere inquadrate dal basso, i vialetti, i miseri giardinetti dei vicoli si restringono accostandosi a Jude che cammina per recarsi al cantiere navale; vedi al contrario i grandi spazi di Princeton, l’Università con i giardini, il campo di rugby, i parchi-bosco, persino le inquadrature di New York con i grattacieli distanti  inquadrati per evidenziare l’ampiezza delle piazze e delle vie e le strade di Brooklyn. La verticalizzazione di una città prettamente orizzontale qual è Liverpool opposta al respiro orizzontale di un paese immaginato come verticale. La claustrofobia opposta all’agarofobia assecondate dai virtuosismi e dagli arrangiamenti metaforici della musica dei Beatles, unica scelta per “rappresentare” un’epoca, un simbolo, un mito. Questo per dimostrare che non siamo seduti a “osservare” la Storia, ma solo una storia (la storia d’amore tra Jude e  Lucy), siamo seduti a vedere un musical, genere in cui la musica domina sul dialogo e che particolarmente in Across the Univers si sostituisce pressoché al dialogo amplificando il senso delle parole delle canzoni dei Beatles. Il musical cresce immagine dopo immagine, sequenza dopo sequenza, atto a ristabilire il senso storico di eventi cristallizzati nel tempo evocati per dispute sul “bisogno” di guerra o sulla forza pregnante di un pacifismo ormai sbiadito. Il musical suscita la percezione di un’epoca per concentrasi sull’oggi. Across the Univers gioca con gli anni sessanta per fare riflettere sulla debolezza tangibile di un oggi abituato a digerire guerra dopo guerra, genocidio dopo genocidio, persino l’indignazione e lo stupore: scandalo dopo scandalo la routine ha annichilito le coscienze.

C’erano una volta i Beatles. Questa splendida musica è rielaborata e trasformata non per adattare il senso di un’epoca ai bisogni dell’oggi ma per recuperare un’atmosfera, un sapore perduti, allo scopo di disarticolare l’idea che ci siamo fatti di anni lontani (mitici, ma scoloriti, dimenticati) dalla certezza storica di un accaduto irripetibile: il Vietnam, le manifestazioni pacifiste, le marce, i sit inn, la polizia violenta come descritta in Fragole e sangue di Stuart Hagmann, le pantere nere, la guarda nazionale. Eppure tutto ciò accade ancora oggi e forse più spesso. È assente caso mai il senso di una appartenenza. La disgregazione ha avuto il suo effetto e per questo l’unica sola musica dei Beatles (33 brani), rivisitata dagli arrangiamenti di Elliot Goldenthal, comprende il rock and roll degli anni settanta, da Bob Dylan ai Jefferson Airplane, ai Doors; tutto ciò per suscitare il senso della musica dell’epoca. Ad esempio Let it be cantata come un gospel evidenzia la metamorfosi di una musica che non era quella (la melodia originale) ma che comprende tutta la musica dell’epoca, la elabora, ne diviene simbolo, restituendo in pieno l’atmosfera di quegli anni.

Attraverso l’universo. “Limitless undying love which shines around me like a million suns/It calls me on and on across the universe […]Nothing's gonna change my world” (1). Questa musica, queste immagini, le animazioni, il sound psichedelico, i colori “negativi” del viaggio che debordano dai contorni delle forme per acquisire un loro status, ogni cosa attraversa l’universo per farci ascoltare questa radiazione di fondo, questo suono labile proveniente dal nostro passato per ricordarci che niente dovrà cambiare il “nostro mondo” neppure le immagini e le sequenze costruite solo per appagare la mente: illudere anziché eludere (2), elidere invece di esimere (3). In altri termini si tratta di attraversare il film, testo-universo che descrive un mondo immaginario, paradigmatico, in grado di strutturare un senso. Si tratta di immedesimarsi nel contesto riconoscendo la musica dei Beatles come unica musica ascoltata all’epoca non perché i Beatles rappresentino da soli un periodo irripetibile. Secondo i miei gusti personali le band e i musicisti che hanno segnato un’epoca sono numerosi (e Julie Taymor lo sa benissimo dimostrandolo con i camei di Joe Cocker e Bono) eppure gli arrangiamenti di Goldenthal “trasformano” pezzi famosi rilasciandoli nell’humus storico, nell’eco giunta fino a noi tramite letture e/o ricordi, consegnando uno spaccato dell’America (e in parte dell’Inghilterra) di quegli anni.

(1)   Amore senza fine né limiti mi splende intorno come un milione di soli/ Mi chiama ancora e ancora per tutto l'universo […] Niente cambierà il mio mondo”.
(2)    Mi riferisco a un certo tipo di cinema post-classico che vuole sempre e comunque essere trasparente per illudere di vivere una storia anziché di limitarsi a evidenziare almeno che sta in realtà prendendosi gioco dello spettatore.
(3)    Un cinema che cerca di annullare la coscienza mentre dovrebbe liberare lo sguardo dall’obbligo di comprendere a ogni costo tutte le invenzioni raccontate.

Nessun commento: