14 luglio 2011

Roma (Federico Fellini, 1972): 3/3 Estetica del tapis roulant

1. C’erano una volta gli oggetti.

Quando la Principessa Domitilla, seduta accanto a Sua Eminenza in attesa che inizi la sfilata di moda, pensa ai bei vecchi tempi andati (“…Monsignori, Cardinali, il Papa: erano tutti amici nostri, tutti parenti […] Che belle feste che davamo […] Mi sembrava di vivere come in un quadro”), ricordandosi “le statuette di cera, croci di paglia intrecciate e tanto vellutello per presepi” delle feste natalizie, si chiede dove siano andate a finire le statuette, lasciandosi quindi prendere dalla commozione. Adesso la condizione oggettuale (1) non è conforme alla capacità della mente di elaborare situazioni e abitudini, di distaccarsi da certezze una volta inattaccabili. Eppure, vivendo in un ambiente legato alle sue tradizioni (Vaticano, nobiltà) la Principessa non dovrebbe ricordare con nostalgia un’epoca in cui “la gente era più bbona, rispettosa”. L’attaccamento agli oggetti scaturisce dal suo monologo interiore. La mdp inquadra Domitilla concentrata a rimuginare mentre la sua voce fuoricampo ci informa dei suoi pensieri (ad un certo punto però la riflessione della principessa diventa uno sfogo, un dialogo con il proprio pubblico, anche se il monologo interiore viene percepito prima come pensiero, poi udito direttamente dalle labbra di Domitilla). Gli oggetti di una volta erano contestualizzati, legati a una funzionalità definita. Ogni attività dell’uomo era connessa alla manutenzione e all’utilizzo di manufatti fondamentali per l’economia, così anche gli oggetti di arredamento e i balocchi erano prodotti artigianali che possedevano un valore intrinseco enorme, in quanto beni spesso insostituibili (per il costo o perché non seriali). Adesso sono reliquie dimenticate sotto la polvere del tempo (i quadri di cardinali e papi) oppure immagini smarrite e vagamente percepite dal ricordo. Questi oggetti, una volta fondamentali per l’economia di una famiglia, oggi sono orpelli di un mondo ingessato. Al contrario l’oggetto moderno è replicabile, non riparabile e perde velocemente funzionalità. Il suo percorso vitale si esaurisce in pochissimo tempo e ciò che ieri era manufatto adorato e ricercato da tutti, adesso, nel migliore dei casi, se ne sta posato in un angolo dello scaffale di una soffitta polverosa. Nella sequenza della sfilata di moda le cose di una volta sembrano ancora intatte: il palazzo della principessa Domitilla e il salone dove si tiene la sfilata custodiscono oggetti di pregio (sedie, quadri), testimonianze di un’epoca memorabile e definibile in cui anche la ricchezza possedeva una propria specificità (“Che belle feste davamo: in villa, al palazzo. Con tutti quei cardinali vestiti di rosso che giravano per casa”). Il “piccolo mondo antico” di Domitilla è divenuto un salone affollato da una nobiltà indifferente e distante, molto più simile a una folla che a un pubblico. Durante la sfilata conta più l’estetismo dei movimenti degli indossatori e degli spettatori (movimenti, abiti indossati, ecc.), per cui nobili e monsignori diventano consapevoli di far parte essi stessi dell’evento come protagonisti che non hanno bisogno di confrontarsi con la rappresentazione. Il gusto per il “bello” si è trasferito dal palcoscenico alla platea (sono qui non per assistere ma per mostrarmi). Domitilla pare consapevole della realtà e la conseguente sfilata non è un catalogo di vestiti ecclesiastici, l’evento di una certa utilità, ma uno spettacolo che sancisce la permanente mondanizzazione della Chiesa. Durante la sfilata un presentatore introduce e descrive i vari modelli: passano preti di campagna in bicicletta con abiti adatti per stare sui pedali, altri ecclesiastici su pattini, suore che avanzano in una danza armoniosa, poi arrivano abiti vuoti, sagome senza corpi che brillano di luce propria e infine un modello che dovrebbe rappresentare la “massima autorità”, “colui che tutto move”, il simbolo della mondanità. Gli oggetti, durante la sfilata, si staccano progressivamente dalla pelle dei mannequin, acquisendo una propria autonomia slegata dall’uomo: gli abiti che “scivolano” sulla pedana come su un tapis roulant esprimono il raggiunto distacco dell’uomo dalle sue cose. Adesso neppure l’utilità ha valore. L’impiego del vestito cardinalizio ha sancito lo scollamento totale dell’essere umano dall’indumento. La veste che rappresenta l’autorità è divenuta simbolo di un’autorità. Chiunque nel sogno felliniano potrebbe acquistare la “tuta” cardinalizia illuminata che vale di per sé senza bisogno di essere indossata. L’oggetto non è più funzionale all’uomo ma ha acquisito una propria autonomia per cui l’uomo è diventato “servo” del proprio manufatto. Pertanto la sfilata diventa spettacolo, una sorta di rappresentazione teatrale che mette in scena la crisi di una classe sociale cristallizzatasi nel culto dei propri oggetti.

2. Come un anello di Saturno

Ma la “vera” sfilata di moda si svolge sul raccordo autostradale, un “anello di Saturno” composto dai frammenti di una realtà non ricostruibile, che Fellini assembla teatralmente accorpando “pezzi” di pellicola girati lungo il raccordo anulare con parti ricostruite in studio. Nella sequenza dell’autostrada la mdp non si limita solo a mostrare la parcellizzazione di un universo diventato irrappresentabile. Questo “anello di Saturno”, in quanto metafora di un mondo esploso e frammentato, contiene in sé l’angoscia dell’artista che penetra, tramite l’inserimento di inquadrature e scene oniriche (o elementi onirici), all’interno della sequenza solo apparentemente documentaristica. L’utilizzo di una “comunicazione metalinguistica” (2) (il cast al lavoro) significa scegliere l’unica strada possibile per Fellini di conoscere una Roma contemporanea. Il camion e l’auto che trasportano il set cinematografico lungo l’autostrada indicano “il falso” della rappresentazione, l’impossibilità di conoscere nel profondo una verità non omologabile e imprevedibile (documentario) se non attraverso la finzione e la ri-costruzione teatrale. Il teatro felliniano consiste nell’accorpare “strada” e “studio”, documentario con teatro di posa, tesi e antitesi della Nouvelle Vague. L’autostrada diventa un laboratorio di ricerca in cui sopravvivono elementi ripresi direttamente dal profilmico naturale (la barriera dei caselli di inizio sequenza, le macchine, l’ingorgo) con immagini surreali e impossibili (il cavallo al trotto tra le auto, un uomo a piedi che spinge il barroccio, due autostoppisti seduti uno accanto all’altro con cartelli che indicano direzioni opposte: Firenze e Napoli). Qui l’immagine-sogno si intinge nel verosimile formando una frattura nella struttura solida dell’evento: l’autostrada non è l’anteprima di una città (Roma) ma la stessa essenza della capitale. L’incidente stradale, le mucche morte, le fabbriche con il fumo delle ciminiere, che sbucano nella notte illuminata dai riflettori del cast, destabilizzano la rappresentazione come una forza centrifuga che tenta di portare lo sguardo lontano dal film sino ai confini del reale, quasi come se il paesaggio visto da dentro un’auto sia una “cosa” che non ci riguarda. Pertanto la morte (le mucche), la confusione (le auto bloccate davanti all’incidente), gli oggetti ai margini del nastro d’asfalto (fabbriche, insegne luminose) rappresentano un mondo distante che non è di nostra pertinenza, poiché “ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole” (3), rinchiuso nel proprio abitacolo (un’auto-mondo irreversibile), nella sua auto-veste, come direbbe Robert Young, (4). Isolato all’interno della propria macchina, imprigionato nel proprio mondo personale, interiore, l’uomo emerge a fatica dal fuori fuoco dell’immagine, come da una nebbia perenne, evidenziando la propria estraneità nei confronti di una realtà troppo lontana, intento a svolgere i propri “uffizi” (la dona che fa le corna, l’uomo che gesticola con pollice e indice), come a occuparsi delle proprie abitudini (la donna che si trucca). All’interno della propria auto-loculo ognuno partecipa come entità “vedente”, osserva una realtà improponibile, distrattamente, indifferente agli eventi esterni, pensando al suo mondo privato: l’interno di una vettura. L’esterno può essere concepito solo come spettacolo e come un sogno, un aggregato di immagini in cui calare le proprie visioni, i propri desideri, materializzazioni della nostra mente, distorsioni inevitabili eppure così tangibili da diventare parti irrinunciabili dell’evento stesso, fino forse al blocco totale perché l’imbottigliamento autostradale, il nostro inferno(5), non può che inglobarci tutti quanti, impacchettati e ben maturati, pronti per un megaingorgo infinito davanti al Colosseo. La Roma di Fellini (la Roma contemporanea a Fellini) è un pandemonio inestricabile, un labirinto non percorribile, l’ebbrezza globale che risulta dai tanti punti di vista, dalle tante angolature dei vedenti, è sofferenza, è la consapevolezza matura di non poter più abbracciare un mondo, la capacità di vedere la Luna sapendo che quel satellite lontano non è un corpo celeste senza atmosfera che orbita intorno alla Terra, ma la materializzazione di un sogno, un volto che ci osserva e sorride.

(1) Il problema è stato affrontato spesso dagli artisti a partire dal cubismo, surrealismo fino a Man Ray, Duchamp (il pubblico riconosce il ruolo dell’artista) che con il ready-made elevarono al rango di opera d’arte l’oggetto banale di utilizzo quotidiano per cui il pubblico riconosce nell’oggetto il ruolo svolto dall’artista; per Alberto Burri l’opera d’arte (il quadro) viene considerata come oggetto nella valorizzazione degli elementi con cui è assemblato (cornice, tela, ecc.); la pop-art finalizzò la ricerca allo studio dell’oggetto nuovo appena prodotto dalla società dei consumi, ancora da utilizzare così come presentato dalla pubblicità; con il neo-dadaismo (Robert Rauschenberg, Jasper Johns) l’oggetto viene considerato nella sua condizione di materiale povero, composto da oggetti di recupero, consumati e abbandonati (soffitte, cantine, discariche).
(2) cfr. Casetti F, Di Chio, "Analisi del film" Bompiani, Milano 1990
(3)
ED E’ SUBITO SERA
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
(Salvatore Quasimodo, Acque e Terre (1920-1929)
(4) Robert Franklin Young, L’auto addosso, (racconto del 1960). Titolo originale: Romance in a Twenty-First Century Used-Car Lot
(5) Stefano Benni, Elianto, Feltrinelli, Milano 2000(4).
“L’Ingorgo (o Inferno se preferisce) è una fila d’auto lunga circa tremila chilometri, che procede assai lentamente al centro della terra, in un budello avvelenato dai gas di scarico. A esso sono condannati i peccatori. Può durare dai due ai duecento anni, e non c’è castigo peggiore per i guidatori e i passeggeri, che viaggiano in gruppi di quattro o più per auto. Le portiere non si possono aprire e gli equipaggi sono sempre assortiti in modo da riunire persone che si trovino reciprocamente odiose o quanto meno noiose”. p. 55.

4 commenti:

cooksappe ha detto...

come un anello di saturno! mi piace! :D

Luciano ha detto...

@Cooksappe. In effetti è una bellissima frase che introduce la sequenza dell'autostrada. Grazie della visita^^ Spero di poter visitare presto il tuo blog.

cinemaleo ha detto...

Opera geniale di un genio

Luciano ha detto...

@cinemaleo. Senz'altro d'accordo con te. Grazie per la visita.