3 luglio 2011

Roma (Federico Fellini, 1972): 2/3 la Barafonda e il Bordello

Immaginiamo come doveva essere uno spettacolo al teatrino della Barafonda agli inizi degli anni quaranta, quando gli spettatori interagivano con gli attori interrompendo lo spettacolo, veri e propri antesignani dell’interattività del web. Niente di più lontano dalla dittatura delle tv, perché nei teatrini di cabaret c’era il contatto fisico, il feedback tra pubblico e attori. La performance si svolgeva con interferenze “extra-spettacolari” costituendo uno spettacolo nello spettacolo, un’interazione, un nuovo prodotto che definirei una performance al contrario, una deformance, nel senso di una “prestazione” che comprende già il suo rumore (gli spettatori che disturbano) neppure scongiurato tramite la “ridondanza” (ripetere o rallentare la performance per renderla intelligibile nonostante l’interferenza). Gli spettatori si divertono a snobbare e disturbare i vari siparietti e a sfogare la propria libidine (se uomini) nei confronti di ballerine e soubrette. Lo spettacolo pertanto non si identifica nel teatro di rivista o nelle sue varianti (avanspettacolo, cabaret) quanto nella platea degli spettatori che ormai conoscono a memoria il programma: ballerine che mostrano le gambe, la bella soubrette che danza e canta, i vari comici più o meno divertenti. Lo spettacolo, codificato da decenni, è più o meno lo stesso così come lo spazio della rappresentazione (il palco, le scenografie spesso realizzate con quinte imponenti e spettacolari, i movimenti dei protagonisti) e il tempo (la durata di un balletto, di una canzone, di una esibizione). Il mistero dello spettacolo è invece incentrato sul fatto che non è possibile conoscere la reazione del pubblico: sapere per esempio se gli spettatori saranno unanimi o no sul modo di “rispondere” agli input dei professionisti, oppure analizzare le reazioni (forse identiche a quelle dello spettacolo precedente, forse differenti) agli stimoli sempre identici (salvo rare varianti). Lo spettacolo sta cambiando supporto, trasferendosi dal legno (il palco) alla stoffa (la tela bianca dello schermo). E la meraviglia, affievolita davanti alla Rivista, impera nella sala di proiezione determinando il differente comportamento dello spettatore. Nel teatrino della Barafonda ormai interessa “giocare” con il proprio joystick in un’enfasi quasi post-moderna (o, meglio, post-classica), interrompendo e cercando di dirigere gli eventi che accadono sul palco piuttosto che farsi stordire dall’affabulazione delle “storie” rappresentate. Il cinema classico, al contrario, con la sua trasparenza, trascina direttamente dentro la storia, diventa centro di gravità che “isola” lo spettatore dalla realtà della sala affollata, realtà che riprende consistenza quando il film termina e lo spettatore si interessa a occupare un posto a sedere in una fila più indietro per vedere in tutta comodità almeno la prima parte del film della proiezione seguente. In Roma Fellini ha già dato prova di interessarsi più agli spettatori che agli attori (le due “cene” nelle due differenti epoche romane ossia anni trenta e contemporaneità). Ma il suo non è un interesse legato a una ricerca antropologica o sociologica. I suoi personaggi sono l’espressione della spettacolarizzazione della realtà. Il mondo è per Fellini un immenso palcoscenico dove le pedine si muovo in maniera apparentemente logica, ma che in realtà conoscono solo un ruolo preciso, coordinato e organizzato dallo spettacolo. Pertanto la “recita” della vita non si svolge attraverso la puntuale caratterizzazione di individui che possiedono una psicologia e garantiscono nel plot una evoluzione caratteriale, una trasformazione della propria visione del mondo o un cambiamento del proprio punto di vista dovuto a un voler mettere in discussione un quadro normativo di partenza (Christopher Vogler direbbe: la fuoriuscita dal proprio mondo ordinario) (1). I personaggi di Fellini sono personaggi-tipo organizzati, macchiette peculiari e originali, ma pur sempre “oggetti” rappresentativi, formati per sintetizzare la spettacolarità di un’epoca deformata dal ricordo e dall’immaginario dell’autore. Con questo non intendo affermare che i personaggi felliniani di Roma siano stereotipati e assimilabili al cliché. La fauna dei “tipi” che incontriamo in molti suoi film è talmente distante dai tanti eroi stereotipati, che troviamo in romanzi e film (es.: il cavaliere senza paura, il principe azzurro, lo scienziato pazzo, il signore oscuro, il vendicatore e così via), da far pensare a una categoria sui generis. Ritengo siano piuttosto “istanze” create per restituire il profumo di un’epoca filtrato dal ricordo dell’autore. Non sono il realismo, sono immagini anamorfiche per cui “[…] le prospettive puramente ottiche o sonore di un presente disinvestito non hanno più alcun legame con un passato sconnesso, ricordi d’infanzia fluttuanti, fantasmi, impressioni di dejà- vu” (2). Questi “oggetti” rappresentativi, indotti dal sogno e dalla nostalgia ma per questo ben costruiti e sfaccettati, risultano più rappresentativi di tanti personaggi-individuo forse più approfonditi ma spesso tendenti al cliché. E proprio per questo il “sogno” felliniano (Barafonda, bordello, ecc) coi suoi personaggi anamorfici è un mondo in piena regola (3). In altri termini vedendo certe sequenze si respira il profumo di un’epoca, riuscendo a percepire perfettamente il modo di vivere di una classe sociale: abitudini, speranze, sogni, caratteristiche. La cultura di un mondo scomparso affiora nelle sequenze “teatrali” del film. Nel teatrino della Barafonda, “com’era trent’anni fa, i primi tempi della guerra”, la mdp si sofferma più sulla “recita” del pubblico, la sua reazione ai “fatti” del palcoscenico. Così la noia provocata da un maldestro comico, imitatore di una ragazza sotto la doccia, suscita la reazione di alcuni spettatori che urlando lo obbligano ad andarsene, mentre un ragazzo disturba un uomo seduto qualche fila più avanti lanciandogli molliche; nel frattempo un altro si volta, non curandosi della performance dei ballerini sul palco, mandando a quel paese un addetto al controllo del proiettore. Questo rapporto de-proiettivo (nel senso che lo spettatore non si identifica con un mondo ma è consapevole di essere coinvolto in un mondo) è molto simile alla sequenza del bordello (mi riferisco in particolare alla prima fase della sequenza ossia quella “girata” nel bordello popolare) anche se il rapporto si inverte. Mentre nella Rivista il pubblico cerca di scardinare il palinsesto tracimando nello spettacolo, nel bordello popolare le prostitute sono le vere protagoniste con le loro movenze e i loro richiami più o meno volgari atti a convincere i clienti a salire nelle camere. Il pubblico sembra ritornare pubblico, non cerca di interrompere lo spettacolo, limitandosi ad assistere alle performance delle ragazze. In realtà anche qui c’è una forte interazione, uno scambio di informazioni che scaturiscono sia dai gesti delle dame che dalle risposte dei personaggi-clienti intenti a guardare, a eccitarsi, ma anche a commentare fino a seguire le signorine nelle camere. L’interazione caso mai è paritaria. Lo spettacolo contempla l’azione da entrambi i lati: di là dalla balaustra le donnine saltano, mostrano i seni e il sedere, ancheggiano, muovono la lingua fuori dalla bocca, urlano cercando di attirare a sé i clienti; di qua (perché noi spettatori che assistiamo al film Roma siamo idealmente seduti dietro la folla dei clienti assiepati che osservano in piedi le performance delle ragazze) gli uomini, ripresi in primo piano da dietro, occupano gran parte dell’inquadratura come per voler disturbare con la loro stessa presenza lo show delle prostitute. Il punto di vista coinvolge l’insieme in quanto lo spettacolo del bordello deve per forza comprendere anche la committenza. Il bordello è ambiente teatrale forse ancora più della Rivista. Qui le immagini si implementano per condurre a una “unione” carnale (gli uomini che salgono le scale con le donne), mentre nella Rivista, la clientela, pur disturbando con la propria performance lo spettacolo, non si “unisce” del tutto: sono gli attori a scendere nella platea, mentre il pubblico si limita a criticare, contestare, disturbare, interrompere, ma sempre rimanendo confinato nel proprio spazio senza attraversare il palco per scomparire dietro le quinte insieme agli attanti. L’interesse di Fellini per i suoi spettatori-personaggi si intensifica soprattutto nella sequenza del cinema. Le inquadrature del film sono appena mostrate. In questo caso l’interazione è impossibile, il cinema è arte che richiede molto tempo da “perdere” e soprattutto voglia di lasciarsi andare, farsi rapire dal racconto e dallo splendore delle immagini. Allora Fellini mostra la meraviglia dipinta sul volto degli spettatori: una donna che piange, i bambini attenti, un uomo che segue la trama a bocca aperta, mentre la scena diventa dinamica solo quando il film viene sospeso (tra una proiezione e l’altra o tra un tempo e l’altro) e il pubblico comincia a scatenarsi: gente che cerca posti migliori, uomini che litigano, persone che corrono e disturbano il pubblico seduto per accaparrarsi una sedia vuota. La verosimiglianza di un mondo rappresentato, ormai codificato, trascina nel gorgo della trama bloccando gli spettatori sulla sedia, rendendoli inattivi. Nell’epoca della sua maturità il cinema classico non è solo un sogno che si realizza: illudendo lo sguardo nella credenza di una verità inappuntabile che è mostrata senza remore, riesce ad abbracciare sia la Rivista (comico, sesso, danza) che il Bordello (voyeurismo) senza incontrare resistenze pericolose (un buttafuori o una malattia venerea), accompagnando il suo pubblico a visitare territori esotici di ogni epoca. Luogo dove il tempo non è vissuto soltanto come una metafora spaziale, il cinema de-spazializza il tempo regolando la sua presenza invadente (ellissi, flash back) oppure, come nel cinema di Fellini e soprattutto in Roma, ingigantendo i particolari della vita quotidiana, il ricordo, il sogno e il punto di vista soggettivo, combinando pertanto spettacolo e realtà (4).


(1) cfr. Christopher Vogler, Il viaggio dell’Eroe
(2) Gilles Deleuze, L’immagine tempo, ubulibri, Milano 1993(2), pag. 69
(3) cfr. Jean-Paul Sartre, Immagine e coscienza. La citazione del libro di Sartre si trova anche in nota a pag,73 del volume di Deleuze.
(4) cfr, Deleuze, cit.

2 commenti:

Jack Doppio Jack ha detto...

Fellini santo subito

Luciano ha detto...

@Jack Doppio Jack. Ottima proposta^^ Grazie per la visita. Ho visto il tuo blog ed è molto originale. Mi rammenta in parte quello di un mio vecchio amico.
A presto.