19 luglio 2008

La fiammiferaia (Aki Kaurismäki, 1989)

Terzo film della cosiddetta “trilogia dei perdenti” (Ombre in paradiso del 1986 e Ariel del 1988 gli altri due) è anche il più intriso di pessimismo. Anzi, forse il pessimismo è il vero soggetto del film, e per questo certe sequenze ricordano e quasi portano lo sguardo nel melodramma. Ma Kaurismäki non cede al grande respiro del genere, non si lascia trascinare dagli sviluppi di una storia che avrebbe potuto dilatare all’inverosimile il dramma, fino a raggiungere l’espressione del più grande dolore dell’io “torturato” da un mondo crudele. Eppure i contenuti ci sono tutti: donna sola che mantiene, col suo lavoro in una fabbrica di fiammiferi, madre e patrigno, i quali la disprezzano e la ripudiano alla prima occasione; Arne, amante egoista e crudele che la usa per una notte, per poi abbandonarla (dopo aver conosciuto la sua famiglia e averla condotta in un locale, le dice: “Se però pensi che tra noi ci possa essere un rapporto, ti sei sbagliata di grosso. Niente potrebbe interessarmi meno del tuo affetto. E adesso credo che puoi anche sparire”); un bambino, frutto della sua unica notte con Arne, che sta per nascere; la vendetta e il conseguente epilogo. Ingredienti tipici del melodramma che Kaurismäki non lascia decollare. Al contrario, l’aspetto più drammatico e angosciante del film non è il racconto preso di per sé, ma il modo di porsi di immagini e riprese nel costruire una storia tanto sconvolgente quanto impossibile. Innanzitutto Kaurismäki interviene con il suo metodo più caratteristico, ossia una sceneggiatura minimalista passata attraverso una riduzione estrema dei dialoghi (la prima frase viene pronunciata da Iris dopo circa tredici minuti “Mezza birra”; altri sei minuti circa prima che il patrigno, schiaffeggiandola le dica “Puttana!”). Mentre le ellissi delegano allo spettatore il compito di ricostruire i momenti più drammatici o pregnanti (l’incidente di Iris o la notte d’amore tra Iris e Arne) la macchina da presa indugia sugli oggetti, sui comportamenti e le abitudini quotidiane dei pochi personaggi. L’incipit ad esempio mostra minuziosamente la catena di montaggio della fabbrica di fiammiferi attraverso la lavorazione di un tronco fino alla sua trasformazione in prodotto finito. In particolare questa lunga sequenza iniziale (oltre tre minuti), composta da inquadrature di macchinari che lavorano il legno fino a trasformarlo in fiammiferi inscatolati, è come un’istanza estrattiva di un “reale” amorfo, reso “emblema” di uno status quo che non può essere alterato. Questa istanza “astratta” non è contenuto verosimile e/o rappresentazione ma, come direbbe Barthes, una collusione tra referente e significante. Dettagli superflui (bastava una voce off per metterci al corrente sulla professione di Iris), riempitivi che permettono l’espulsione del significato dal segno. Ciò può causare un senso di irrealtà, di inverosimiglianza. Per questo motivo Barthes contrappone il nuovo verosimile (l’effetto di reale) al vecchio verosimile, all’opinabile (l’assoggettato all’opinione del pubblico). Per Barthes l’effetto di reale non sono altro che i dettagli inutili, superflui, che fanno parte della narrazione, di certe situazioni descrittive, apparentemente funzionali alla «storia». In realtà questi dettagli non hanno alcuna funzione significante. Questi riempitivi, queste “catalisi”, effetti di reale, definiscono il sapore della vita quotidiana, restituiscono allo sguardo quegli oggetti, quei gesti ormai automatizzati, ossia , come afferma Šklovskij , “[…] considerati nel loro numero e volume […]” (2), senza essere visti, ma conosciuti “[…] soltanto per i loro primi tratti “. (2). Inoltre Kaurismäki “indebolisce” i cosiddetti “nuclei narrativi” (le sequenze significanti), non solo relegandoli all’interno dell’ellisse e quindi lasciandoli macerare nel regno dell’opinabile, ma anche eclissandoli dentro la stessa visione, abbandonandoli nell’attimo in cui sono prodotti. Quando Iris viene investita da un’auto, sappiamo dell’evento che accade nel fuori campo solo attraverso il rumore acusmatico di una frenata. Per un attimo, nel “mentre” della dissolvenza in nero, non siamo a conoscenza della gravità dell’incidente: Iris potrebbe essere gravemente ferita o addirittura morta, potrebbe aver riportato conseguenze permanenti. Solo la scena seguente ci informa che Iris non è grave, la vediamo nel letto d’ospedale lucida e consapevole. Ma la maestria di Kaurismäki consiste proprio nell’insistere sull’indebolimento dei nuclei narrativi: adesso l’incidente non conta più, infatti la sequenza inizia col patrigno di Iris che sale le scale dell’Ospedale, entra nella stanza comunicando alla figliastra che sua madre non la vuole più vedere. In questa scena si vede solo il busto del patrigno, testa e braccia sono tagliate fuori dal quadro: non interessa mostrare l’espressione dura o ipocritamente compassionevole di un uomo che non è mai stato capace di amare la sua figliastra, interessa solo allontanare “il reale” dal mondo di Iris, mostrare l’isolamento interiore della donna, riducendo e sezionando l’esterno. Le parti anatomiche degli altri personaggi sono trattate e mostrate meno degli oggetti. Durante la sequenza del ballo, quando Iris è seduta accanto ad altre ragazze in attesa di essere invitata, vediamo solo alcune “parti” di figure maschili che si presentano alle donne per invitarle a ballare. Iris, sempre inquadrata, rimane sola sulla panca: questa semplice immagine trasferisce nel fuori l’angoscia e la sofferenza del dentro, coinvolgendo lo sguardo e trascinandolo in un abisso. Tutto questo reso attraverso catalisi, riempitivi, ossia oggetti, pezzi di figure, fuori campo, silenzio. Al contrario forse gli oggetti acquistano una sorta di superiorità sui personaggi. In fondo il film ha un solo vero, unico personaggio. Lo spazio si chiude sempre su di lei, lasciando ai margini e quasi abbandonando gli altri in un magma evanescente quasi de-realizzato. Gli oggetti della vita quotidiana invece sono mostrati con minuziosa attenzione, seguiti nel loro rapporto con le abitudini e i gesti della giovane donna. Il vestito nuovo, acquistato per essere indossato dalla donna allo scopo di essere più attraente e permetterle di essere portata sulla pista, diventa l’oggetto fondamentale del film, causa e conseguenza di tutti gli eventi che capiteranno. Il vestito rende Iris più attraente e invoglia Arne ad invitarla a ballare; per pagare il vestito Iris ha dovuto prendere i soldi dalla busta paga e siccome lo stipendio viene consegnato alla madre, l’acquisto non passerà inosservato. Anche la boccetta contenente il veleno per topi acquista una sua valenza ogni volta che viene usata da Iris. La sua vendetta personale non viene mostrata in maniera melodrammatica, ma simbolica, attraverso l’uso banale del veleno contenuto in una boccetta. Ogni volta che Iris travasa il liquido in un bicchiere di scotch o in una bottiglia d’acqua, sappiamo già cosa accadrà, lo sappiamo, lo intuiamo, ma Kaurismäki non ci mostrerà mai le conseguenze di quel semplice travaso si si esclude la sequenza dei due agenti in borghese che arrivano sul luogo di lavoro per prelevare Iris. Nel suo minimalismo spinto ai limiti della totale dissolvenza del film ( è possibile andare oltre, fino ad entrare nell’astrazione totale pur rilasciando “messaggi” realistici?) Kaurismäki concede largo spazio alla musica e alla tv, alle canzoni cantate nella sala come a quelle che fuoriescono da radioline o alla musica extradiegetica, e ai telegiornali ascoltati dalla madre e dal patrigno di Iris, da due mummie impassibili e irrecuperabili, due “oggetti” assenti e surreali. In particolare Kaurismäki intende mostrare il mondo attraverso la tv, confrontare un dramma sociale e “distante” (i fatti memorabili e spaventosi della Piazza Tien An Men a Pechino) con il dramma personale che contiene, come nella piazza cinese, già i germi della sua sconfitta. Questa particolare attenzione agli oggetti, questa “[…] capacità leggera di trasferire nel contesto cinematografico le idee migliori della pittura […]” si esplica nel juke-box e nel biliardo dell’appartamento del fratello di Iris. Dalla “[…] contraddizione tra questi oggetti e dalla stilizzazione a cui vengono sottoposti [..] nasce la tensione fantastica del film. Sono immagini in cui Kaurismäki si dimostra più che mai vicino all’universo di Edward Hopper”. (3)

(1) Roland Barthes, L’effet de réel, « Communications », n. 11, Paris 1968, pp.84 e sgg. Il saggio, tradotto in italiano, si trova in: R.Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi 1988, pp.151-159. Da segnalare un’attenta ed esauriente spiegazione del termine inventato da Barthes in S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Parma, Pratiche Editrice 1990, pp 174-176
(2) Victor Šklovskij, L’arte come procedimento (1917), in Luigi Rosiello, Letteratura e strutturalismo, Zanichelli, Bologna 1983, p. 51.
(3) Peter von Bagh, Aki Kaurismäki, Isbn Edizioni, Milano 2007 p. 93.
(4) Nella foto di destra: Edward Hopper, Nighthawks (1942)

13 commenti:

Noodles ha detto...

Erano secoli che volevo vedere qualcosa di Kaurismaki, ma non ero proprio... come dire, in vero sprint. Poi vidi Le luci della sera e mi chiedo ancora com'è che non mi sia procurato tutti i suoi film. Un'atmosfera personalissima, malinconica.

Luciano ha detto...

@Noodles. Le luci della sera è un altro film indimenticabile dalle atmosfere malinconiche, come giustamente scrivi. La filmografia di Kaurismaki in generale è molto interessante. A chi piace il suo stile consiglio una visione di tutti (o quasi) i suoi film.

Ale55andra ha detto...

Mi stai convincendo sempre più a recuperare questo regisa!! Ovviamente quando partirò, partirò con questi due film da te splendidamente analizzati.

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Guardi film anche in vacanza? Benissimo! Se vedi qualche Kaurismaki sicuramente lo recensirai con mia grande soddisfazione^^

monia ha detto...

molto belle queste due recensioni, kaurismaki è un regista che vorrei recuperare da tempo, forse questa è la volta buona^^. un saluto!

Ale55andra ha detto...

Luciano, io guardo film sempre!! ^^

Anonimo ha detto...

Un regista di cui conosco troppo poco...Consigli su cosa cominciare a vedere??^^

MrDavis

Luciano ha detto...

@Monia. Questo mi fa piacere. Sono curioso di leggere una tua recensione su un film di questo regista.

@Ale55andra. Mi devo complimentare. Una vera cinefila^^

Luciano ha detto...

@Mr.Davis. @MrDavis. E' difficile dare una precedenza quando si tratta di Kaurismaki. Posso citarti i film che preferisco. Oltre ai due recensiti aggiungerei senz'altro "L'uomo senza passato", quindi "Vita da Boème" e "Leningrad Cowboys Go America". Secondo me un suo altro film interesasnte è "Juha". Grazie per la vista. A presto^^

simonebocchetta ha detto...

lode a kaurismaki, ne ho visto troppo poco.
è il classico regista che sai che è bravo ma che ogni tanto dimentichi, ottimo il fatto di riproporlo. e in maniera così completa, poi...

Luciano ha detto...

@Grazie Simone! E' un regista secondo me molto interessante, quasi (ma lo dico come lo direi tra amici seduti in un bar)da Nouvelle Vague. Non so perché ma i suoi film mi ramemntano il Godard anni '60 (anche K. ammette del resto di essersi ispirato alla NV). Un regista da non sottovalutare. Grazie per il passaggio. A presto^^

Roberto Junior Fusco ha detto...

Sono felice che tu stia affrontando un autore importante come Kaurismaki. Questo qui ho avuto la fortuna di vederlo. E sono d'accordo con te quando dici ,per esempio, che La fiammiferaia è un melodramma che non decolla, o quando sottolinei l'importanza degli oggetti. Un filmone, non c'è che dire.

Luciano ha detto...

@Roberto. Senza dubbio un grande film e uno stile, quello di Kaurismaki, originale e notevole. Mi fa piacere che su questo film siamo in sintonia. Kaurismaki è un regista "difficile" e pertanto fa abbastanza discutere. A presto^^