30 novembre 2008

La ronde (Max Ophuls, 1950)

Un film che fa assaporare per un attimo l’estinzione del tempo, trasformando il movimento-spazio in un giro inestricabile nei luoghi persi della quotidianità. In una delle sequenze più belle il “meneur de jeu” (probabilmente voce-in extradiegetica che rimane sulla soglia del film dialogando con personaggi e pubblico, ma che non entra a far parte della storia raccontata) (1), nell’introduzione dell’episodio “La cameriera e il giovane”, mentre sta camminando sul set dell’episodio precedente, rivolgendosi alla cameriera Marie, proferisce la seguente frase: “Passeggiamo nel tempo”. E Marie risponde: Due mesi… luglio è lontano”. Ma nel momento in cui la ragazza pronuncia queste parole, una dissolvenza incrociata ci mostra il nuovo abito da cameriera di Marie che sta per uscire dal precedente episodio per farsi accompagnare sulla soglia della sua storia (appunto “La cameriera e il giovane”). Ovviamente si tratta di un’ellissi, ma ritengo che ci troviamo di fronte alla formazione di un’assenza. Un’ellissi senza ellissi (ovvero il salto temporale c’è, ma poiché il tempo è annullato dai deittici presenti sulla scena, come ad esempio l’anticipazione dei fatti alla cameriera, l’ellissi evapora nel senso). Nel film Ophuls usa molti stratagemmi per coniugare le esigenze semantiche della storia (nel senso: “ascolta, ti racconto alcune storie interessanti e illuminanti sull’amore e il piacere”) con i presupposti irrinunciabili del filmico (ossia la presenza costante del set che Ophuls non disdegna di mostrarci in quasi tutte le sequenze). In altri termini: siamo nel regno della deissi e alle soglie del cinema moderno. Questi continui passaggi tra classicità della storia (ma nemmeno tanto) e modernità del meccanismo (il narratore che dialoga con personaggi e pubblico, e le marche enunciative come oggetti del set che vengono mostrati, quali lampade, macchine da presa, proiettori, ciak) sospendono il flusso del tempo, adottando una prospettiva atemporale e circolare dove il peso del racconto riesce a piegare la dimensione “ovattata” (la storia è immaginata agli inizi del secolo scorso) dello spazio-tempo. La ronde, la giostra, mostrata nell’incipit (da cui scende il primo personaggio, la prostituta Léocadie, subito accompagnata a recitare nel primo episodio), prende forma a vari livelli. Mi limito ad elencarne solo alcuni: metaforico, semantico, diegetico, strutturale.
La metafora del cerchio che connette e completa gli eventi, la giostra che gira, riportando ogni cosa al principio, senza arrivare da nessuna parte. Giostra come metafora della vita, delle passioni, del piacere che non portano a niente, perché nulla (se non un’improvvisa rottura della pellicola) può fermare il giro. Le coppie si formano e si disfanno. Il personaggio di un episodio, abbandonando l’amato o l’amata, prosegue il suo tour nell’episodio seguente, danzando con un altro amante, il quale a sua volta fugge in un’altra storia seguente con un altro ennesimo personaggio, fino a quando il cerchio si chiude riportando la storia al principio (il primo e ultimo personaggio è la bella Léocadie interpretata da una giovanissima Simone Signoret). A questo punto tutto può ricominciare a fluire per l’eternità davanti al nostro sguardo. Nessuno scende dalla giostra. Il cerchio è una sorta di girone infernale occupato da anime condannate a vivere le loro frivole storie, non melodrammatiche ma appunto “mortali”, perché l’odore della morte accompagna incredibilmente la “leggerezza” degli eventi che si ripetono senza soluzione di continuità. La metafora ultima in fondo è un ultimo valzer a Vienna (città dov’è ambientata la storia) cercando di dimenticare la chiusura del senso di ogni cosa. Nel vorticoso e “circolare” movimento dei personaggi che danzano (balli, camminate, scale scese e salite) l’attesa di una sconfitta in fondo aleggia lungo ogni sequenza.
Il valore del “messaggio” ci trascina nel gusto tipico di un’epoca “felice”, spensierata, l’inizio secolo di una Vienna dove la vita viene scandita dalle tematiche care alla Secessione viennese (2), ma è come se ci trovassimo invischiati nei lugubri meandri del Romanticismo francese (la donna sposata a letto legge Stendhal) dove l’happy ending è stilema sconosciuto. Gli eventi ci trascinano nelle speranze e nelle delusioni che vengono farcite da altre storie. Per dimenticare il fallimento di un matrimonio, senza nemmeno sapere perché accada tutto ciò, si cerca un’altra speranza o un’altra impossibile fedeltà. Nell’episodio “La donna sposata e suo marito”, il consorte, pur non essendo a conoscenza del tradimento della moglie, è teneramente consapevole della vuota convivenza e della perdita di una fedeltà mentale e frequenta un’amante “cocotte” che nutre nel separè di un ristorante alla moda richiedendo una impossibile fedeltà. Il cerchio non è soltanto una metafora della vita (e della morte) ma è anche un senso che non riusciamo a perdere (facciamoci comunque del male, direbbe Nanni Moretti).
L’aspetto diegetico in fondo scandisce ogni cosa, ogni movimento, ogni frase del film. Lo dice il presentatore nell’incipit. Una Vienna d’altri tempi. Una freschezza che non c’è più. Nostalgia per un passato che è l’unica certezza. Innanzi tutto perché è l’Accaduto e in quanto tale può essere ricordato come un mare immobile, congelato e quindi relativamente semplice da scandire, inoltre nel passato può innestarsi la nostra ricostruzione più o meno romantica, più o meno nostalgica, più o meno gradevole. Tutto viene stemperato perché non c’è timore per l’Imprevedibile e la speranza non ha alcuna forza o potere nei confronti della nostra fantasia. Non c’è timore e le storie possono connettersi senza drammi. Non melodramma ma regno del libertinaggio dove la menzogna e l’astuzia prendono il sopravvento. Allora il contatto tra personaggi e pubblico (3) già di per sé molto “patetico”, in quanto le storie apparentemente frivole scorrono nella mente come ricordi di un tempo perso e impossibile da ritrovare (4), si alimenta del “nostro” modo di vedere, conoscere e/o immaginare una Vienna del 1900. Ma la mimesi non prende il sopravvento (e non potrebbe) sia per la distanza dei mondi (l’inizio del XIX secolo viennese, il 1950 di Ophuls e il mondo post-Due Torri entrato in un immaginario culturalmente molto distante), sia per l’effetto di “straniamento” (5) procurato dalle intromissioni nella storia da parte del discorso. Ovvero, il discorso fatica a rimanere sepolto sotto la storia, mimetizzato nelle pieghe del plot e “inscatolato” nei corto-circuiti delle connessioni (montaggio ma non solo); deve uscire allo scoperto, mostrarsi per affermare l’importanza del dispositivo, mostrarsi perché l’arte “parla” prima di tutto di se stessa o al limite del suo rapporto politico con il mondo.
I movimenti di macchina sono quelli tipici di Ophuls: carrellate circolari, dolly, movimenti fluidi e leggeri (e si pensi che all’epoca non era semplice muovere la macchina da presa come oggi); inquadrature "dinamiche" in cui i personaggi si muovono sovente, correndo, ballando, camminando, salendo e scendendo scale, scomparendo dietro specchi, attraversando vetrate e porte per riapparire subito dopo sempre “inseguiti” dall’obiettivo attento e preciso di Ophuls. Praticamente lo scheletro, la struttura, il discorso (ognuno decida di definire come vuole il principio di costruzione di un film) esce allo scoperto, si fa esoscheletro, diventa esso stesso l’oggetto del discorso, diventa metacinema. Le storie d’amore e di desiderio a questo punto attraversano i vari set, si aprono e si chiudono seguendo la volontà del regista (un uomo qualunque, un montatore, una comparsa) che interrompe taglia, aggiunge, si intromette dialogando con i personaggi assumendo ogni volta una forma diversa. Questo tipo di cinema sarà recuperato dai “giovani turchi” che si ricorderanno di questo grande Maestro quando gireranno gli splendidi film della Nouvelle Vague. Eppure ritengo che La ronde ci invii messaggi diversi, come una strada nuova, mai praticata, se non da percorrere, almeno da conoscere topograficamente. Un esempio illuminate di ciò che intendo affermare riguarda una delle tante ellissi “atipiche” de La ronde: nell’episodio “L’attrice e il Conte”, Charlotte (l’attrice mirabilmente interpretata da Isa Miranda), mentre sta circuendo il suo caro Conte, allo scopo di tranquillizzarlo, dice: “Nessuno ci vedrà… se non noi soli”, ma la mdp con una lieve carrellata verticale inquadra uno specchio incastonato sul soffitto del baldacchino che sovrasta il letto di Charlotte, contraddicendo la frase appena pronunciata dall’attrice. Solo un’ellissi può riportare il film sulla “giusta” strada. Ma l’ellissi viene annullata non da un’assenza (che sarà ricostruita poi dalla nostra mente) ma da un deittico: in questo caso da una breve sequenza che mostra il regista, uomo qualunque, personaggio, adesso nelle vesti di montatore intento a tagliare la pellicola, con le immagini inopportune del rapporto amoroso, incollando le parti del film non compromesse dalla sequenza incriminata. La ronde ci regala questa capacità di “estrarre” la storia dalla sua “forma” prescelta, mostrando il meccanismo, ma soprattutto mostrando l’ineluttabilità dell’Accaduto, sia esso identificabile in un’epoca piena di fiducia e di spregiudicatezza, tra l’altro magnificamente ricostruita dal film, sia da interpretare come l’atto di un regista “apolide” che amava il cinema non solo come prodotto finito ma come principio di costruzione, lavoro, fatica.

(1) Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994, p. 83.
(2) Secessionisti furono pittori, architetti, designer, scenografi come Klimt, Wagner, Olbrich, Hoffmann, Moll, Moser, Roller. Per i “secessionisti” era anche molto importante tenere conto della presentazione delle opere da esporre oltre che della loro scelta; pertanto elaborarono un modello complessivo in cui, oltre alle opere d’arte esposte nelle mostre, si teneva conto dell’architettura d’interni, del decoro e delle arti applicate, allo scopo di creare un ambiente coeso (modo di esporre le opere, tappezzerie, colore delle pareti, fregi e ornamenti vari, forma delle sale, ecc.)
(3) Supponiamo un pubblico di oggi, di questa angosciante alba del III millennio, tanto per complicare le cose.
(4) Volendo prendere solo un vago spunto dalla Recherche.
(5) Victor Sklovskj, L'arte come procedimento in Teoria della prosa, Einaudi, Torino 1976, pp. 5-25

13 novembre 2008

Lola Montès (Max Ophuls, 1955)

Mentre la storia si ispira alla vita di Eliza Rosanna Gilbert (1821-1861), ballerina e attrice irlandese nonché amante del re di Baviera, il discorso ci trascina direttamente dentro la vita di Lola Montès; è come entrare in un caleidoscopio scintillante, circolare, spettacolare, dove sperimentare le emozioni lasciandosi trascinare nel gorgo caotico degli eventi per liberare la propria empatia nei confronti di una donna fatale come pure della routine tematica dell’eterno dilemma temporale: il movimento della vita che contiene la presenza e l’odore ancestrale della morte. A Ophuls interessa conoscere l’animo sofferente di Lola Montès, non vuole descrivere la sua vita, ma “entrare” nei suoi ricordi, riuscire a “denudare” il desiderio di vita, la forza d’animo di una donna che esprimeva la sua arte attraverso il proprio corpo. Per resuscitare la forza dirompente dell’arte di Lola (le sue folli danze in cui non si peritava di mostrare parti intime del corpo suscitando scandali in continuazione) sceglie la poesia delle immagini, ossia opera una scelta formale estrema. Opera in due sensi apparentemente opposti e incongruenti (infatti pubblico e censura decretarono il fallimento del film) ma in realtà perfettamente coesi (non giustapposti e/o montati ma “fusi”): pezzi di poesia strappati dal tessuto narrativo della diegesi (la storia, la vita, i flash-back) si compenetrano con la materia grezza degli eventi stessi (focalizzazione, sovrinquadrature, dominanza del barocco). Il circo come luogo presente del racconto, come luogo in cui si rappresenta la vita di Lola Montès, in cui l’impresario (narratore omodiegetico?) racconta, mostrandola come si può mostrare sulla pista di in un circo, la vita della contessa Maria Dolores de Lansfeld in arte Lola Montès. Il circo è un caleidoscopio di colori, di cambi di scena, di quinte e costruzioni che rievocano i luoghi e le città della vita della contessa ballerina. La stessa Lola li percorre apparentemente come un’abile acrobata che volteggia su corde rarefatte, che salta su cavalli accompagnata da altri acrobati, da nani, da mille personaggi che si muovono in continuazione, ballano, si esibiscono in salti e capriole, corrono. Il presente della narrazione, il narratore omodiegetico, la stessa Lola (fenomeno da baraccone sulla pista del circo, “mostruosità” appagante, donna fatale che ha oltrepassato il confine delle aspettative diegetiche del pubblico dell’epoca ), si mostrano nell’immagine “attuale” della rappresentazione circense non in quanto attanti incapsulati in un presente “miserabile” (1) che rievocano “l’immagine ricordo di antichi, magnifici, presenti”(2), ma come “corpi” che assorbono e riflettono la luce (i colori) di un passato “in fieri”, ossia che si è già svolto ma che si sta ancora sviluppando davanti ai nostri occhi. Come scrive Deleuze, ci troviamo di fronte a uno sdoppiamento del tempo “che fa passare tutti i presenti e li fa tendere verso il circo come verso il loro avvenire, ma che conserva anche tutti i passati e li mette nel circo come altrettanti immagini virtuali o ricordi puri” (3). Per Deleuze si tratta di un’oscillazione tra attuale e virtuale. Tutto riconduce al Circo. I flash-back che portano in scena il glorioso passato di Lola Montès, che attualizzano il virtuale, si confondono con le rutilanti evoluzioni narrativo-acrobatiche di saltimbanchi e cambiamenti incessanti e infiniti di scenografie che mostrano i luoghi deputati della vita della grande regina decaduta (4). Ma c’è anche di più. Allo sguardo non sfugge l’impatto violento (che in parte contribuisce insieme ad altri fattori a rendere meno intelligibile il film) tra il flash-back in cui si mostrano sequenze naturalistiche (paesaggi, strade, interni di teatri, di case) e la scena teatrale del circo. Nel circo inoltre Ophuls si sbizzarrisce con le sue famose carrellate circolari o con riprese di “giostre” in movimento (bellissima la vista sulla giostra che gira in senso antiorario intorno a Lola seduta su una pedana che gira in senso orario) . Movimenti di macchina che “circolano” nello spazio del circo dove ogni cosa si muove (scenografie, persone, pedane, mdp) ad esclusione di Lola che sembra immobile anche quando, acrobata goffa, cammina sulle corde o rimane distesa con la schiena posata sul garrese di un destriero: le sue acrobazie e il suo corpo seduto su pedane roteanti che lo muovono pur lasciandolo immobile (effetti accentuati dai movimenti contemporanei della mdp) mostrano la sconfitta e l’impossibilità di mantenere una certezza. “La vita è movimento” dice Lola Montès. Nei flash-back che presuppongono un’uscita dalla metafora e dalla rutilante chiusura del gorgo (circo, morte?) il naturalismo delle immagini viene “turbato” (una distorsione che è anche distrazione) dai labirinti di stanze e scale (il teatro e la reggia), dagli specchi e dalle innumerevoli cortine (paraventi, porte a vetri, balaustre, piante, oggetti di ogni tipo) che disturbano il tentativo di inquadrare una visione “pulita”. La ridondanza di oggetti relega spesso sullo sfondo l’immagine desolata di una vita che non riusciamo ad afferrare nel naturalismo del profilmico, perché il filmico è distratto da un mondo rutilante che soffia, arde, annienta ogni ricostruzione. Lola Montès ha già attraversato il suo orizzonte degli eventi (5), luogo da cui non potrà uscire, senza alcuna possibilità di modificare gli eventi che avvengono fuori dall’orizzonte stesso. Il circo è buco nero e rappresentazione di un vissuto collassato e i ricordi di Lola Montes sono segni disturbati da un caotico e imprevedibile universo. Come afferma Aumont (6) il film di Ophuls è composto da innumerevoli sovrinquadrature (inquadratura nell’inquadratura come ad esempio una finestra, una porta o un’architettura quadrata) che servono a confondere, disgregare ma allo stesso tempo a rafforzare la superficie:

“[…] l’acrobatica macchina da presa di Ophuls produce solo una sovrincorniciatura effimera e rutilante. In tutti i casi tuttavia si ottiene lo stesso effetto, nel contempo sconcertante e rassicurante, di una mise en abîme visiva, diegetica e retorica, in cui la cornice «seconda» perfora e nello stesso tempo rafforza la superficie. (7)

Lola Montès è un film di vedute, di quadri nel quadro, di volti e corpi visti in lontananza, seguiti da carrellate e da dolly che esaltano e rafforzano il continuo movimento. Più che mostrare l’immagine di un evento, Ophuls ci mostra il ricordo di un’immagine persa che solo la pittura riesce a rievocare e a rafforzare sulla superficie dei quadri. Un cinema che ha influenzato tanti registi, che ha proposto un altro modo di vedere, un altro modo di sentire.


(1) Gilles Deleuze, L’imamgine movimento, Ubulibri, Milan o 1993, p. 99
(2) p. 99
(3) Ibidem
(4) Nel senso di ex amante del re di Baviera.
(5) L’orizzonte degli eventi è una superficie che circonda una singolarità, ossia una piccola regione dello spazio in cui la materia è talmente compressa da non lasciare uscire neppure la luce. Mi scuso per questa banale spiegazione, ma l’argomento è molto complesso. Una spiegazione semplice e chiara si trova su Wikipedia.
(6) Jaques Aumont, L’occhio interminabile, Marsilio, Venezia 1998 (2) p. 88.
(7) p. 88.

2 novembre 2008

Wall-e (Andrew Stanton, 2008)

La digitalizzazione del mondo si scontra con l’esigenza antropomorfica, il bisogno ulteriore di ritrovare un’umanità smarrita da 700 anni presuppone una scelta che ricorda una logica booleana (ossia Vero o Falso) che è (od è stata) alla base della ricerca e dello sviluppo relativo all’intelligenza artificiale. Adesso con questo non intendo addentrarmi nel complesso e per me ostico campo della logica, ma ritengo che Wall-e sia un film particolarmente affascinante proprio per gli stimoli relativi al rapporto mente umana/intelligenza artificiale che lasciano spazio ad una riflessione senza soluzione di continuità. Wall-e è un film divertente, disarmante per la sua (mi si scusi l’ossimoro) “complessa semplicità”, emozionante per la sua originale e allo stesso tempo tenera storia d’amore fra due forme di intelligenza artificiale: una obsoleta e relegata in un mondo “distopico”, l’altra altamente tecnologica e inviata in quello stesso mondo alla ricerca di una forma di vita organica. Le scelte stilistiche della Pixar non sono mai banali o ridondanti in modo da lasciare in dote allo spettatore una mirabile ed emozionante storia d’amore che in fondo è tutta “artificiale” (anche se i robot sono antropomorfizzati). L’umanità (o quello che è diventata) è relegata ad un ruolo di secondo piano, una comparsa che è causa e mezzo dello sviluppo del plot ma che non è al centro della focalizzazione del nostro sguardo. La legge che sembra dominare nel mondo di Wall-e è l’obbligo di eseguire una direttiva, il dovere irrinunciabile di scegliere un insieme “α” in cui ogni cosa che rientra in “α” entra a far parte della direttiva e ogni cosa che sia fuori da “α” non è contemplata dalla direttiva. Il problema (e qui per me sta il fascino del film) consiste nel fatto che ognuno ha le sue direttive da seguire. Eve deve ricercare materiale organico o testimonianze di una trasformazione sostanziale delle condizioni di vita di un pianeta “infettato” dall’uomo e non più abitabile; Wall-e esegue (unico rimasto tra tanti sui simili ormai “esauriti”) un’altra direttiva che gli impone di compattare i rifiuti e accatastarli fino a formare altissime strutture più elevate persino dei vecchi grattacieli rimasti ancora in piedi; la nave spaziale in cui si è rifugiata un’umanità ormai divenuta “inutile”, e relegata a “mero sguardo della superficie”, ha il compito di rimanere in attesa “tra le stelle” fin quando non sarà possibile rientrare sulla Terra; l’Hal-9000 di Wall-e esegue la direttiva primaria (anzi una segreta direttiva post-primaria): impedire l’esecuzione delle altre direttive, perché non sarà “mai” più possibile tornare sulla Terra. Questi aspetti “semantici” sarebbero di ordinario interesse se non intervenisse un altro aspetto fondamentale e degno di attenzione: mentre gli umani sono grossi neonati incapsulati nel loro alveo e dalla mente “digitalizzata” in scelte manichee, organizzate da una “volontà automatica” (il monitor che osservano continuamente è la loro unica realtà che offre solo scelte “booleane”), le intelligenze artificiali (e in particolar modo Wall-e) riescono (nonostante le direttive) a scegliere seguendo canoni e principi che oserei definire (scusatemi l’accostamento estremo) fuzzy (nel senso di pertinenza della logica fuzzy). La scelta non è più tra “0” e “1”, tra VERO e FALSO, in quanto non è più possibile determinare e immaginare un Universo coerente e sistematico formato da “pezzi giustapposti coerenti e strutturati”. La logica fuzzy (1) prevede la possibilità di considerare un insieme sfumato nel senso che un dato oggetto può non essere completamente nell'insieme né completamente fuori. Questo modo di ragionare (ormai da tempo applicato in molte discipline e soprattutto nella ricerca scientifica) si adatta benissimo all’ambiguità e imprecisione del linguaggio umano o meglio (riferendomi a Wall-e) del linguaggio dell’intelligenza artificiale antropomorfizzata. E mentre i simpatici droni ci coinvolgono nella loro appassionante storia (l’amore organizza questa storia inondando poeticamente le bellissime immagini) e si relazionano agli eventi in base ai sentimenti provati (riuscendo comunque a coniugare l’universo fuzzy con le direttive binarie che hanno ricevuto), gli esseri umani, ormai ridotti a grossi grassi neonati incasellati nella propria distanza dal mondo, hanno percorso una via diametralmente opposta, finendo con l’allontanarsi da quella sfera dell’imprecisione dove non esistono frontiere ben definite ma occasioni e possibilità di conoscenza incommensurabili. E l’amore è la forma di conoscenza più profonda, più imprevedibile, più emozionante. Questa capacità trasferita sui prodotti dell’uomo (l’inventore dei robot) è stata persa dall’uomo stesso. Il mistero della vita e della forza interiore di un’umanità primitiva che lancia il suo osso-navicella nello spazio (2) è stato perso, anche se nasce improvvisa una speranza d’amore infusa dall’esempio di due “menti” che si amano danzando nello spazio liberi da bit e direttive. L’uomo incapace di camminare si solleva con uno sforzo incontenibile per acquisire una nuova posizione eretta (nuovo uomo primitivo) al suono di Così parlò Zarathustra (ricollegandoci mirabilmente all’uomo primitivo di Kubrick). La nuova Eva potrà dare così una nuova mela, non più intatta e prevedibile (3), ma vaga, imprecisa, morsicata (quando una mela da intatta a “mangiata” smette di essere mela?), insomma una mela fuzzy. (4)

(1) Bart Kosko, Il fuzzy-pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Baldini & Castoldi, 2002.
(2) Incipit di 2001: Odissea nello spazio in cui vediamo l’osso lanciato in aria dal troglodita trasformarsi in navicella spaziale.
(3) Una mela che Picasso non ha mai dipinto
(4) Per un po’ di giorni Cinemasema diventa Cinemarema.

27 ottobre 2008

Mamma mia! (Phyllida Lloyd, 2008)

Una settimana è trascorsa prima di scrivere qualcosa su Mamma Mia. Quando un film non mi piace per niente non riesco a stilare un elenco di difetti, né riesco a stroncarlo. In questo anno avrei potuto pubblicare molti altri post (tanti quanti sono i film che ho visto e non sono riuscito ad apprezzare). A volte mi è sufficiente una sequenza, altre un’unica scena per farmi decidere a “trovare” qualcosa di positivo da esprimere. Così è capitato per Mamma Mia. La sala era gremita da un pubblico composto da adulti e ragazzi. E tutti quanti erano letteralmente trascinati dal rock disimpegnato e kitsch degli Abba (370 milioni di dischi venduti negli anni 70), una musica coinvolgente con tutte le migliori canzoni dei dodici anni di vita della band. Alcune ragazze commentavano ad alta voce gli episodi del film, cantando all’unisono con i personaggi, anche se non ero infastidito perché il volume era talmente alto da riecheggiare con forza nella sala. Non vedevo da anni una simile partecipazione; le persone si lasciavano andare al ritmo incalzante, a quella magia mista di musica e “storia” (in fondo una “commedia brillante”) a cui era impossibile sottrarsi. Ma non per tutti. A me il film infastidiva, nonostante gli ammiccamenti continui della Streep, nonostante la bellezza da vicina di casa di Amanda Seyfried. Gli ingredienti c’erano tutti, ma io avevo già deciso di mettere Mamma mia nella soffitta dei miei ricordi sbiaditi o rimossi. Non ne avrei “parlato” con nessuno. Ma col passare dei giorni mi sono in parte ricreduto anche se i difetti (evidenti e allo stesso tempo talmente banali da infastidire) non sono pochi: fotografia da cartolina, coreografie semplici e confusionarie, personaggi poco approfonditi, movimenti di macchina troppo “teatrali”, le “misere” case che sanno di falso, ecc.ecc. Però il musical è un genere che presuppone una perfetta sinergia delle sue componenti. Poiché Mamma Mia non presenta e non sviluppa situazioni “atipiche” (tipo i “recuperi” di tragedie “alla” Romeo e Giulietta come capita in West Side Story, o la prorompente carica “eversiva” dello splendido e per me insuperabile musical-happening The Rocky Horror Picture Show) ritengo sia da considerare un film paragonabile ai cari vecchi musical hollywoodiani anteriori agli anni cinquanta (ossia prima che West Side Story, film del 1961, riformasse il genere). Ma paragonato a questi film Mamma Mia denota palesemente i suoi limiti, tenendo conto che ormai il musical classico (quello che si produce anche in teatro) presuppone capacità poliedriche degli interpreti che devono essere allo stesso tempo attori, ballerini, atleti, acrobati. Nonostante la bravura degli interpreti non è possibile affermare (a parte la superna recitazione della Streep) che i grandi e pur bravissimi attori di Mamma mia possiedano queste peculiari capacità. A parte questo, se si guarda Mamma mia con gli occhi clementi di chi cerca un happening (e non è poco perché in fondo il futuro del cinema dovrebbe risiedere nel tentativo di trascinare il pubblico dentro lo schermo), il film non è un “oggetto” da accantonare. Se questo “oggetto” imperversa da nove anni sulle scene di tutto il mondo (purtroppo non ho visto la versione teatrale), se le musiche degli Abba coinvolgono oggi come trenta anni fa, qualcosa nel musical funziona. I difetti del film sono evidenti, ma non ne compromettono la freschezza e vengono presto dimenticati a tutto vantaggio dell’azione e del coinvolgimento. Mamma mia va visto pensando di essere sul molo di Kalokairi intenti a ballare accanto a Maryl Streep e agli altri simpatici interpreti. D’altronde le melodie sono orecchiabili, l’happy ending viene rispettato, la poetica è senz’altro d’evasione, e un certo tipo di atmosfera magica è riscontrabile in ogni sequenza (la magia dei tre padri come tre re magi che portano il dono al nuovo che sta per nascere; la fonte di Afrodite; una certa “aria” e un certo “profumo” emanato dagli oggetti che fa ad esempio somigliare la falsa soffitta di Villa Donna alla magica abitazione di Cenerentola). Se dovessi paragonare “tecnicamente” il film a Sette spose per sette fratelli (ballerini acrobati, danza, coordinamento, ecc.) decreterei la mesta inferiorità di Mamma mia, ma, tenendo conto che il film non vuole essere un oggetto perfetto, non vuole aspirare a funzionare come un orologio svizzero, ma soltanto organizzare un mondo immaginifico e “orientato” per un pubblico che “vuole” danzare in sala, posso senz’altro considerare questo musical una buona performance visiva, grazie anche alle conosciute musiche degli Abba i cui testi sono stati utilizzati per “costruire” la storia a lieto fine di questo gradevole film.

17 ottobre 2008

Un invito a casa Alexander

La quinta sequenza è una delle più complesse, più elaborate, più contraddittorie e contravvenienti sequenze della storia del cinema: una sequenza in altre parole disturbante perché trascina la gioia nell’incubo, la “polarizzazione” dell’evento nella contraddizione di inquadrature apparentemente confusionarie e antitetiche. L’effetto teatrale tipico delle sequenze precedenti si alterna all’effetto reportage, il grandangolare che deforma lo spazio (in questo caso le stanze e l’ingresso di casa Alexander) si avvicina ai due protagonisti trasformando il volto di Alexander in una maschera tragica e il naso posticcio di Alex in uno strumento fallico che preannuncia l’epilogo. L’apparente calma della casa è mostrata nella tranquillità di una posa teatrale con due quinte: un muro con porta alla sinistra di chi osserva e una libreria posta dietro il Sig. Alexander colto nell’atto di scrivere seduto a un tavolo (ma questa prospettiva sarà smentita da una seguente inquadratura che riallinea, restringendolo, lo spazio). Questa staticità viene accentuata da una carrellata laterale (con abbrivo dopo il suono di un campanello simile all’incipit della quinta sinfonia di Beethoven) che scorre a mostrare il fuori campo, inquadrando il soggiorno in cui vediamo una donna intenta a leggere seduta in una poltrona-astronave. La donna si alza e si allontana uscendo dalla porta posta sul fondale. L’inquadratura seguente (un corridoio con specchi), pur assimilando e riprendendo la staticità della scena precedente, preannuncia già un cambiamento, in quanto lo spazio viene amplificato (effetto Droste) a causa degli specchi posti ai lati delle pareti, illudendoci (il pavimento-scacchiera e la donna in rosso si moltiplicano all’infinito) di percorrere il labirinto degli specchi dei Luna Park. Il gioco inizia e con esso la separazione semantica dell’ultraviolenza nelle sue componenti manichee e drammaticamente inconciliabili. I Drughi, che imperversano tra gli specchi moltiplicandosi in un esercito bianco e gioioso, si proiettano “liberi” verso il loro abisso morale ove alternanza di inquadrature “statiche” (nel senso di inquadrature più teatrali con camera ferma o carrellate laterali) si alternano ad inquadrature “dinamiche” (che trascinano nel centro dell’azione con camera a mano). Superlativa la nona inquadratura con il primo piano di Dim che rotea il corpo della donna tenuta sulle spalle in senso orario, movimento accentuato dalla camera a mano (magistralmente impugnata da Kubrick stesso) che rotea in senso antiorario intorno ai due personaggi, poi interrotto dal primo piano del volto del sig. Alexander tenuto forzatamente a terra da un drugo. Quando giunge il fischio-ciak di Alex per riposizionare i personaggi, seguono le inquadrature più sconvolgenti e “belle” (sì, oso dirlo) della storia del cinema: campo totale di Alex che accenna un passo di danza canticchiando Singin’ in the Rain. La canzone diventa così “musica” diegetica che accompagna la violenza subita dai due malcapitati, mentre nel campo totale il ritmo dei calci e degli schiaffi, che Alex propina all’uomo ancora per terra e alla donna che si trova sempre sulla spalla di Dim, diventa accompagnamento sinfonico della voce. La gioia dei calci dati al marciapiede inzuppato dalla pioggia, che Gene Kelly distribuisce saltellando sulle pozzanghere, si trasferisce in un ritmo infernale nella gioia dei Drughi, nel gusto irrinunciabile alla violenza. Ma l’angoscia di questo apparente caos, questo rimescolamento di metodi diversi nel muovere la macchina da presa, questi contrasti tra riprese teatrali (campi medi e totali) e reportage (primi piani e rotazione della macchina a mano) creano simmetrie ed asimmetrie che oserei definire interne/esterne allo spazio scenico. In fondo davanti a noi quello che tecnicamente sembra lo sguardo in macchina di Alex e che diegeticamente è l’incontro deformato dei due Alex(ander) (il drugo e lo scrittore), nell’immagine in sé, avulsa da ogni raccordo sintagmatico, diventa una penetrazione mediatica. Nell’asimmetria e nella convulsione delle inquadrature (solo apparentemente casuali ma in realtà giustapposte senza lasciar spazio a dubbi e incertezze), dove dominano ritmo delle immagini, equilibrio della prospettiva spaziale e della sua deformazione, si amalgamano due punti di vista allo stesso tempo distanti e (con)fusi: la gioia espressa da una canzone-simbolo del cinema classico, oltraggiata da un uso “moderno”, si spegne nello sguardo del “fratellino” che ricorderà la lacerazione di quella musica. L’immedesimazione che si realizza in un’incontro di sguardi e in una richiesta (“Guarda bene, fratellino, guarda bene!”) e che non persiste (a causa di continue fughe dai personaggi e “uscite” dal pathos della narrazione), tornerà a galla in un’altra sequenza a causa di una canzone che, mentre per Alex il drugo è la gioia incontenibile di Gene Kelly, per Alex(ander) lo scrittore è l’orrore di un momento. Una simmetria che si stabilisce tra sequenze (la stessa canzone) ma anche una asimmetria (il ricordo di quella canzone) che stabilisce un punto di vista. Questo scambio in effetti procura un dolore fastidioso, trascina dentro e fuori la gioia di Alex, fuori e dentro la sofferenza di Alex(ander). Immedesimazione e distanza, coinvolgimento e sguardo asettico, teatro e pubblico separati da un diaframma ma anche coinvolgimento “violento” del reportage che trascina dentro l’azione, dentro e fuori allo stesso tempo, gioia e dolore (vite e morte) temi domina(n)ti dall’ultraviolenza, fusi e confusi nell’estremo suono (gioia-dolore di Alex) dell’Inno alla gioia.




 

10 ottobre 2008

Pranzo di ferragosto (Gianni Di Gregorio, 2008)

Pranzo di ferragosto è un viaggio nelle pieghe di un mondo troppo spesso evitato, abbandonato ai margini di una bellezza standardizzata e allineata ai canoni medi decretati da una sub-cultura che sta sempre più abbassando il livello del gusto. La vecchiaia è vista come una nuova bellezza, non tanto come un’affermazione del Brutto in quanto antitesi del Bello, ma come un voler conoscere e analizzare un’altra forma del Bello. In tal modo la macchina da presa di Gianni Di Gregorio fluttua davanti ai volti di quattro signore che per motivi “casuali” si ritrovano a trascorre insieme il giorno di ferragosto e che insegnano a vedere oltre le apparenze del “bello” inteso come armonia e simmetria prospettica. In particolare la macchina da pressa si avvicina alla madre di Giovanni (interpretato da Di Gregorio stesso) evidenziando in un primissimo piano la pelle del suo volto ormai annientato dalle macchie e dalle rughe profonde che il tempo ha impietosamente disegnato. Ma in questo volto devastato, su questa pelle da tartaruga, splendono due magnifici occhi che ci sorridono gridando l’amore per una vita non certo eccelsa. Questa donna che conduce una grama esistenza in una Roma finalmente viva, (una Roma che noi tutti vediamo e conosciamo e che non troviamo mai in molti film e in tanta pessima tv) ci prende per mano conducendoci lungo una strada difficile ma necessaria: una ricerca costante e interminabile di conoscenza. Impariamo a conoscere il mondo di questa donna, la sua miseria, e la necessità di ospitare per danaro altre anziane signore, il rapporto anche conflittuale (guarda caso per un vecchio televisore), ma soprattutto un rapporto che presuppone un confronto costante. La macchina da presa si muove nell’appartamento come uno sguardo indiscreto, ma ravvicinato, perché qui dobbiamo avvicinarci per respirare sulla pelle della vecchiaia non essendo più abituati a guardare in faccia la senescenza del corpo. Costretti a subire un’immagine imposta come rappresentazione di vitalità (bellezza = gioventù = erotismo = corpo immortale che non invecchia) abbiamo perso il contatto con il nostro futuro dimenticando una metamorfosi in atto: saremo tutti tartarughe. Questa realtà, che è anche una speranza, viene spesso negata, relegata, ridotta a canone da archiviare. Quando un volto vecchio appare in un’immagine è spesso il volto di un altro ossia di un personaggio minore (padre, nonno, amico) costruito spesso per definire e integrare la psicologia di un giovane e bel personaggio principale. Ma qui il primo piano è anche l’avvento di un nuovo modo di guardare. Queste simpatiche vecchiette, che imparano a conoscersi e (nonostante tutto) a divertirsi a modo loro, sono una speranza per il cinema nostrano (ma questa speranza sarà coltivata?) ma anche un invito a riflettere sull’importanza di imparare a guardare meglio (anche dentro le pieghe profonde della pelle) per scoprire che il cinema nasconde molte altre cose spesso occultate allo sguardo.

4 ottobre 2008

Machan (Uberto Pasolini, 2008)

Machan viene presentato come la storia vera di una falsa squadra di pallamano ma potrebbe essere una storia falsa di una vera squadra di pallamano. In effetti quando a Manoj e Stanley viene in mente, leggendo un depliant su cui è pubblicizzato un torneo che sarà disputato in Germania, di costituire una squadra singalese di pallamano allo scopo di poter eludere i controlli del governo per raggiungere l’agognata Europa, dove “tutte le cose sono più belle” (1), non fanno altro che incidere sullo stato “abituale” del loro mondo mettendo in discussione una norma. Per una serie di circostanze “casuali” (nel rispetto dei meccanismi che regolano il comico) il numero dei candidati-giocatori (e pertanto dei futuri clandestini) aumenta di sequenza in sequenza. In questa prima parte del film la mdp mostra gli slum di Colombo e la grama vita che vi si conduce, ma mostra anche un albergo di lusso frequentato da turisti tedeschi e per contrasto mostra la dignità dei poveri abitanti che non rinunciano alla loro umanità affrontando a testa alta le avversità quotidiane. Non è semplice ambientare una commedia in un contesto di miseria forse più adatto a una trasposizione melodrammatica, perché “ridere” sulla disperazione presuppone allineare l’empatia dello spettatore alle condizioni sociali e psichiche dei personaggi. Intendo affermare che per ottenere un risultato che non trascini il plot narrativo nel grottesco Pasolini ha creato un equilibrio tra i caratteri di questi personaggi (sempre simpatici e divertenti tanto quanto li vorrebbe ad esempio un turista) e i loro tentativi “illegali” per ottenere l’oggetto del desiderio (l’espatrio nella ricca e bella Europa). Non deve essere stato semplice anche se il risultato a volte potrebbe ricordare gli slogan di una qualsiasi agenzia di viaggio. Anche se condizionati dalle esigenze del découpage gli “allegri” abitanti degli slum rischiano di somigliare troppo ai desiderata di qualsiasi occidentale in procinto di partire per Ceylon, ma il limite della commedia coordina un’incognita che dovrebbe rappresentare il risultato matematico del genere comico. Eppure nonostante alcuni difetti intrinseci al genere (e questi tipi di film non aiutano certo a far decollare il comico senza cadere nel grottesco o nel patetico) Machan presenta alcuni aspetti interessati legati soprattutto al senso in più (2) che riesce a trasmettere. Innanzitutto la Bugia che qui non è coerente e congruente come nella commedia degli equivoci, ma mostra comunque la sua importanza in un contesto in cui ogni mezzo è lecito per aggirare le “assurde” regole della significanza burocratica. Per burocrazia intendo una chiusura a tutto ciò che non rientra nei canoni classici della sicurezza, una chiusura alla trasgressione, alla prova stessa, che porta al peccato incurabile, alla perdita del connotato di “indigeno attendibile”. Altro aspetto è la stessa Trasgressione, il voler aggirare le regole senza peraltro trasgredirle veramente, trasgressione inattendibile proprio perché costretta nelle forme canoniche di una comicità a tratti troppo leggera: Manoj, Stanley e i loro amici giocano soltanto ma in fondo accettano il substrato profondo di quelle stesse regole mostrando così di omologare con il loro assenso la forma più retriva del potere: la burocrazia.
Trovo molto più interessante la progressione costante del Falso che non trascina nel gorgo della punizione prima e della redenzione poi, ma conduce all’acquisizione di una libertà (terzo aspetto) che è sempre stata nella mente dei singalesi (e nostra). La libertà non è il fine, il punto di arrivo (Europa), anzi il film si conclude proprio ai margini del vero dramma (e non poteva essere altrimenti per una commedia) innestandosi in aspettative melodrammatiche dovute allo status di clandestini. L’impossibilità (o le difficoltà) di rendere l’aspetto comico (e solamente quello) della disperazione obbliga Pasolini a fermarsi prima del confine. Questo perché la storia è solo una premessa, rappresenta l’antecedente dell’arrivo, e in questa storia la comicità è possibile (ma come abbiamo visto entro certi limiti molto rigidi) soltanto al di qua della raya; mentre il dopo, l’al di là, rientra nella nostra convinzione (una sorta di sostanza magmatica che può e deve essere accesa). Pertanto il Falso come anelito di libertà (almeno quella mentale dei protagonisti), gli oggetti come forme del falso (timbri contraffatti, carta intestata ricostruita al computer, ecc.) oppure come cause efficienti del bene e del male (il tetto di lamiera che viene venduto e l’asciugamani automatico che causa il licenziamento di un inserviente dell’Hotel), ma soprattutto il Vero come ombra costante di una promessa/premessa (la squadra falsa ma in fondo vera). La vera storia di una falsa squadra.
(1) Questa frase viene spesso citata nel film. Cito a memoria perché, avendolo visto una sola volta al cinema, non ricordo i termini precisi.
(2) Edoardo Bruno, Il senso in più, Bulzoni

27 settembre 2008

L'isola (Kim Ki-duk, 2000)

Vedendo questo film ho provato un dolore intenso. Ma la causa non è da imputare alla macelleria dei corpi, alle torture inflitte ai pesci o agli ami ingoiati, ai morti inabissati nel lago. La causa risiede nell’impossibilità di allineare la ricerca di un sostanziale consenso (di pubblico) con la necessità di consumare quel consenso attraverso la “fuga” da uno spazio geometrico e da un tempo scientifico (le coordinate della prospettiva). Intendo dire che il dolore è stato procurato dalla costruzione di uno spazio pittorico in cui lo sguardo si muove con difficoltà, obbligato a sopportare lacerazioni e ferite profonde. Per disconnettere il senso dal legame con una prosa ormai consumata (il racconto sempre identico a se stesso), Kim Ki-duk ha scelto di raccontare uno spazio astratto ossia svincolato dal banale obbligo di definire una lista di situazioni, ma comunque legato ai prodromi profondi di ogni storia: l’amore e la morte. Lo sviluppo narrativo (per altro molto labile) che mostra il rapporto tra Hee-jin e Hyun-Shik, non è una storia di amanti disperati, almeno non solo, ma è soprattutto un procedimento di formazione, un’esperienza mentale. Intendo affermare che le lacerazioni della carne (gli ami ingoiati), il sesso violento (il morso di Heen-jin sul labbro di Hyun-Shik e come corrispettivo i calci di Hyun-Shik sulla vagina di Heen Jin), le torture (il pesce mutilato, la gabbia nell’acqua, gli ami in gola e nella vagina), sono crudi colori presi da una tavolozza non ancora amalgamati e distesi sulla tela. Prima di scardinare le illusioni di un’immagine ingannevole (in quanto scelta arbitraria di chi la propone) bisogna mostrare i pezzi dolorosi di questa immagine, mostrare come questa immagine viene costruita. Dietro una storia romantica c’è sempre una materia (un corpo) che prova dolore. Pertanto il risultato (il film) è la somma di tanti corpi straziati, la giustapposizione di tanti pezzi sanguinanti. Poi, se vedremo anche la superficie confortante, riprodotta contro gli interessi di un rapporto reciproco (spettatore-regista), se la significanza risulterà o meno un rapporto duro, inevitabile, un incontro-scontro tra due anime dannate, questi effetti non rientrano (per mancanza di spazio) nel punto di vista assunto. In particolare ciò che mi interessa sono due aspetti del film: la pittura come sostanza, materia, costruzione delle linee semantiche del plot, la durezza come icona imprescindibile della durata. L’isola è un quadro. La vista d’insieme in campo lungo delle casette galleggianti, “sfumate” dalla bruma che esala dalle acque mattutine, potrebbe essere la sosta, la penetrazione dello sguardo in un dipinto appeso alla parete. Queste pennellate kimmiane iniziano con i colori nitidi, definiti, iniziano con immagini che a guardare bene non sono, nonostante il bellissimo paesaggio equoreo, naturalistiche. L’impatto duro col mondo si trascina attraverso la costruzione delle azioni, dei movimenti, degli eventi visti sempre attraverso una deformazione: campi lunghi o riprese effettuate “dall’acqua”, punti di vista di un altrove situato al di là della lente (vetro, acqua). C’è insomma nel film una sorta di magia oscura, inquietante, che va al di là del perturbante freudiano (1). L’Unheimlich (il Perturbante), per Freud è ciò che porta angoscia, una cosa che si avvicina al nostro ambiente quotidiano (quindi confortante) ma che in realtà nasconde in sé il mistero, l’enigma, la paura dello straniero. L’arte possiede la capacità di rompere l’illusione di una realtà manipolata (dal potere, dalla paura, dal bisogno di non sentirsi soli), di infrangere l’illusione del familiare, al fine di mostrarci almeno la deformazione impalpabile e crudele del reale. L’arte, attraverso l’Unheimlich mette in scena i mostri dell’oggi. Ma nell’Isola il familiare è spezzato sin dall’incipit. Non si tratta più di rompere le catene di un’apparente familiarità delle cose, perché la macchina da presa non mostra il mondo, bensì la pittura. Siamo in una fase ulteriore in cui dobbiamo fare i conti con l’incubo stesso; non l’incubo del mostro materializzatosi davanti ai nostri occhi, ma l’incubo del procedimento che mostra il lato astratto delle cose. L’incubo mostra ad esempio l’invasione della “strega del lago” (2), la “guardiana” delle casette galleggianti e allo stesso tempo la barista che porta caffè e tè ai pescatori; mostra la prostituta che dona il corpo a pagamento, la “sirena” che nuota sottacqua per colpire chi l’ha umiliata e per guardare, sbirciando da sotto la botola dei bisogni corporei, Hyun-Shik intento a fare l’amore con una ragazza. L’incubo mostra la silente Heen Jin che estrae gli ami conficcati nella gola di Hyun-Shik , salvandolo; infine mostra sempre Hyn-Shik mentre s’infila gli ami nella vagina e tira la lenza strappandosi le carni, mostra la “strega” salvata da Hyun-Shik ritornato nella “loro” casetta per togliere gli ami dalla sua vagina. La sofferenza dei corpi non è più la lesione narrativa della carne (causa effetto) anch’essa, nonostante l’orrore, riconducibile al familiare, ma è la durata stessa che s’incarna nella durezza “consustanziale” del mondo. In altri termini il tempo è un prodotto illusorio della speranza, un rimandare la disperazione a una futura consolatoria riparazione. Nell’Isola il tempo ha lacerato le carni, fossilizzandosi nella morte dello sguardo. È come una pennellata più grassa che definisce l’impossibilità di un ritorno. Hyun-Shik rimarrà nel quadro, camminando nella palude, addentrandosi in un canneto, che poi risulterà essere, dopo un reverse-zoom, il pube del corpo nudo di Hee-jin , distesa sotto una coltre d’acqua che ha allagato la sua barca semiaffondata. La donna adesso riposa supina nel suo sarcofago (barca) allo stesso modo dell’Ofelia di Millais distesa dal pittore preraffaellita in una coltre avvolgente di piante acquatiche (3).

(1) Cfr. Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino, 1980.
(2) La definizione “strega del lago”, riferita a Heen Jin, è ripresa da: Andra Bellavista, Kim Ki-duk, Il Castoro, Milano, 2006, p.72.
(3) John Everett Millais nel suo dipinto (Ofelia, 1852) [fig. in basso a destra] riprende dall’Amleto di Shakespeare la tragedia di Ofelia annegata nel fiume. Ma è attraverso le parole della Regina Gertrude che veniamo a sapere dell’annegamento, pertanto la tragedia si consuma come assenza:
Amleto (IV,7)
LA REGINA GERTRUDE
… Le vesti
le si gonfiarono intorno, e come una sirena
la sorressero un poco, che cantava
brani di laudi antiche, come una che non sa
quale rischio la tenga, o come una creatura
nata e formata per quell'elemento.
Ma non poté durare molto: le vesti
pesanti ora dal bere
trassero l'infelice dalle sue melodie
a una morte fangosa.

21 settembre 2008

Soffio (Kim Ki-duk, 2007)

Soffio è la dimostrazione che il cinema di Kim Ki-duk si dipana lungo un percorso di conoscenza essenziale. Ma ciò che conta non è la ricerca di un traguardo (ma esiste nel “mondo” un traguardo?) bensì lo sviluppo stesso del percorso (la mappa), la sua consistenza e materia (di cosa è fatto, è una strada di molliche? è un lungo interminabile cantiere che non rispetterà mai i termini del capitolato?) e soprattutto chi lo percorre (pregiudizi? scansioni di altre storie da cercare proprio qui, in questo cantiere? affabulazioni evanescenti?). Guardando i suoi film è possibile temere una certa “maniera” (1) che affiora sulle ultime pellicole kimmiane. Ma la maniera, intesa come ripetizione di un discorso già affrontato, di un certo standard dell’iconico già assimilato e già registrato, non ha senso lungo un percorso che si deforma passo dopo passo. Caso mai la maniera si attesta in altri fortilizi, in altre strutture, in luoghi dove non conta la conoscenza, ma la media statistica del consenso. Secondo me, cercando di abitare dentro i film kimmiani, si percepisce che per un grande autore, un artista, non si tratta di maniera o cliché ma di idioletto(2). Per Eco l’idioletto è un “sistema di relazioni omologo”(3).

“Cosa significa l’affermazione estetica dell’unità di contenuto e forma in un’opera riuscita, se non che lo stesso diagramma strutturale presiede ai vari livelli di organizzazione? Si stabilisce come un rete di forme omologhe che costituisce come il codice particolare di quell’opera, e che ci appare come misura calibratissima delle operazioni che procedono a distruggere il codice preesistente per rendere ambigui i livelli di messaggio”(4).

Caso mai è l’idioletto (regola e codice dell’opera) che potrebbe generare “imitazione, maniera, consuetudine stilistica”. L’idioletto è la legge che governa l’opera, “[…] il diagramma strutturale che presiede a tutte le sue parti” (5). Soffio definisce un punto importante del diagramma. L’idioletto di Kim ki-duk, attraverso le sue opere, attinge forme diverse da identici enunciati. In altre parole l’icona scivola via leggera, si incolla alle pareti trasportando ogni volta le stesse stagioni, l’icona viene strappata e mangiata o trasferita dalla foto al muro della cella, ma non può essere contenuta in una forma perché differisce, ossia rimanda sempre ad altre forme, rinvia la sua entità (6). Questo film è costellato di situazioni limite e contiene innumerevoli riferimenti ai film precedenti. È l’affermazione dell’enunciato, la presentazione ufficiale dell’idioletto, questo diagramma strutturale che per Eco fa sì che un’opera, anche mancante di molti suoi pezzi perduti (esempio un affresco), possa essere assemblata poiché si tratta di “[…] dedurre, dalle parti di messaggio esistenti, quelle che vanno ricostituite” (7). In effetti Soffio contiene citazioni di precedenti film di Kim Ki-duk, ma contiene anche la possibilità per lo spettatore di ricomporre i pezzi mancanti attraverso il riconoscimento di uno stile emergente. Ad esempio in Soffio le stagioni ritornano sotto forma di parodia degenerata. I manifesti incollati al muro da Yeon con tanta precisione danno vita, in quanto scenografie che mostrano la natura, alla rappresentazione teatrale che si enuclea soprattutto attraverso le canzoni da lei interpretate; e mentre gli spettatori “interni” (la guardia e il prigioniero Jang Ji) interagiscono come in un happening, la regia muove le sue macchine da presa (le telecamere di sorveglianza) lasciando scorrere la rappresentazione fino al momento desiderato. Il regista-sorvegliante (lo stesso Kim Ki-duk visibile solo attraverso il riflesso del monitor) monta le sue sequenze interrompendole nel momento più alto dello Spannung proprio come nei serial tv. Queste stagioni di un musical a puntate, attaccate ai muri di un parlatorio (sotto forma di manifesti che mostrano paesaggi bucolici e silvani) sono posticce e false ma non meno di quelle diegetiche “attaccate” sulla celluloide. In altri termini la palese falsificazione del tempo ridotto a rappresentazione teatrale è solo una convenzione valida quanto e forse più delle convenzioni che accettiamo nel momento in cui ci adagiamo su una poltroncina della sesta, settima fila, preferibilmente centrale. Pertanto i brevi musical di Yeon sono sintesi e analisi di un vissuto (ad esempio lo psicodramma di Yeon che rivive il momento in cui da bimba stava per annegare), ma anche “canzoni” composte da stanze(8) sempre uguali e sempre diverse (la struttura della stanza con le sue regole identiche come ritorno di settenari ed endecasillabi e alternanza di rime, ma anche la differenza, nell’ambito dello stesso componimento, con cui ogni volta queste stesse stanze vengono “addobbate”). Il silenzio è un altro stilema tipico di questo cinema, ma stavolta è un silenzio indeducibile, irrinunciabile, che non si interseca e non si esprime attraverso un contatto oserei dire telepatico fra personaggi (Ferro3) ma è un silenzio che diventa cifra stilistica di un linguaggio, in altri termini è un silenzio “rumoroso”, e in parte gestuale (solo Jang Ji e il suo compagno di cella non parlano, mentre Yeon si esprime sia attraverso il silenzio, sia con la parola e il canto). Il silenzio comincia, lungo il suo percorso, a trovare degli ostacoli, a inciampare negli oggetti (il compagno di Jang Ji urla terrorizzato alla vista del sangue che esce dalla gola di Jang Ji). Questi ostacoli rappresentano una delle numerose variazioni nel linguaggio kimmiano. Il suo idioletto, il suo linguaggio personale e singolare, si deforma per adattarsi alla conformità geologica dello spazio e all’entropia temporale. Tutto fluisce. Ad esempio (e sarebbe interessante analizzare il film o la filmografia di Kim Ki-duk da un punto di vista tematico) anche il concetto kimmiano di acqua (9) subisce una deformazione. Nei suoi film (e soprattutto in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera) l’acqua ricopre un ruolo importante, fonte di vita spirituale e passione (Primavera estate...), “bara di freschezza” in cui si immerge il già accaduto (Bad Guy), qui è come un gelido cristallo, un’acqua invernale (il ghiaccio e la neve) che definisce e blocca nel mondo ogni possibilità di riforma (ricomporre un matrimonio, alleviare gli ultimi giorni di vita di un condannato a morte), ma che nel soffio caldo di un fiato che si condensa sul vetro divisorio di un parlatorio diventa un supporto sul quale sigillare una speranza.

(1) Riprendo da De Mauro il senso che intendo per maniera: “Arte, pratica artistica che si fonda sull’imitazione cristallizzata e sulla ripetizione di formule e modi ormai scontati denunciando carenza di ispirazione, di naturalezza, di invenzione”.
(2) Dal Glossario di retorica, metrica e narratologia di Claudia Bussolino (Alpha Test 2006): “È lo stile individuale che caratterizza la scrittura di un autore come voce singolare e personale, l’insieme dei mezzi linguistici di un particolare parlante. È un repertorio linguistico considerato individualmente e non collettivamente”.
(3) Umberto Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 2002, p. 67
(4) Ivi, p.67.
(5) p.68.
(6) Intesa nel senso di insieme delle qualità costitutive dell’ente (cfr. Scolastica)
(7) La struttura assente, p.68.
(7) Mi riferisco in particolare alla stanza come gruppo di strofe e parte fondamentale di un canzone. In questo senso mi riferisco soprattutto alla canzone petrarchesca. Ma mi riferisco anche alla “stanza vuota” ogni volta addobbata in modo diverso.
(9) L’acqua per un ricercatore è composta da due molecole di idrogeno e una di ossigeno e questa è la sua realtà, la sua obiettività che però lo sguardo non percepisce notando solo la sua manifestazione sensibile. A sua volta la mente assimila questa esperienza visiva (ma non solo) in base alla proprie esperienza e/o aspettative. L’acqua assume la sua valenza solo attraverso una mediazione mentale, una ricostruzione. In poesia l’acqua è invece non solo il significante di un liquido ma anche una connotazione simbolica, un segnale che scuote l’animo e rinforza il corpo. È più vera l’acqua del chimico o l’acqua del poeta?

16 settembre 2008

L'arco (Kim Ki-duk, 2005)

Fuori dal tempo e dal mondo, vivendo in un peschereccio ancorato al largo un vecchio e una ragazza conducono la loro vita permettendo a saltuari pescatori di lanciare a pagamento la propria esca in mare aperto. Un estremo avamposto del tempo, un luogo circondato dal mare, dove lo scorrere dei giorni viene mostrato non tanto dalle brevi sequenze notturne (vista del barcone in campo lungo e nuvole oscure con o senza soli che tramontano, sguardi notturni distanti su un rapporto che solo il cinema può strappare alla sfera della pedofilia), ma soprattutto dai giorni di un calendario che il vecchio sbarra con una croce: mancano pochi mesi al giorno del matrimonio in cui potrà avere la ragazza tutta per sé. Ma quando il tempo si dimentica e lo spazio implode (l’immenso spazio del mare annullato dall’angusto spazio del barcone) si può anche bluffare ingannando Kronos con un atto di scrittura, anzi di contro-scrittura, ossia con lo strappo urgente e disperato dei pochi mesi rimasti sul calendario per arrivare al giorno desiderato. Qui (a parte simbolismi vari, allegorie, immagini religiose, sessuali, ecc.) prende campo, destruttura il silenzio, combatte col nostro bisogno di colmare la noia (come se la noia fosse una lacuna da riempire), l’arco multifunzionale, il feticcio universale che in questa assenza temporale mi ricorda l’aleph borgesiano (ossia il Tutto, il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega) senza esserlo. L’arco è solo la metamorfosi continua di un oggetto che cambia destinazione d’uso in base al sentimento del vecchio (e in parte della ragazza): l’arco che scocca le frecce per proteggere la “promessa” sposa importunata dai pescatori; l’arco che diventa strumento musicale per corteggiare l’amore e il desiderio, rallegrare la vita rarefatta della bambina adottata che non ha ancora conosciuto il mondo; infine l’arco che legge il futuro scoccando le sue frecce contro il Buddha dipinto sulla murata della barca, badando di non colpire l’adolescente intenta a dondolarsi sull’altalena davanti all’immagine di Siddharta. In questo estremo eremo, in questa “isola” galleggiante, si consuma il rapporto nel silenzio ininterrotto dei due personaggi principali (anche qui come in Ferro3 udiamo solo le voci del ragazzo e dei pescatori). In un luogo dove ogni cosa non è quella che crediamo anche la musica ci inganna, mentre le voci dei due protagonisti si annullano diventando una sinestesia (i due sussurrano nelle orecchie). L’inganno dell’arco (oltre a non colpire le presunte vittime e a non colpire la bambina sull’altalena) si definisce quando diventa strumento musicale nell’emettere una musica che sembra diegetica (il vecchio che suona l’arco) ma che poi potrebbe diventare extradiegetica (vediamo che il vecchio ha smesso di suonare) sennonché, quando il vecchio strappa le cuffie del walkman poco prima donato dal ragazzo alla graziosa Yeo-reum Han (1), la musica cessa. Allora si trattava di una musica diegetica? Noi spettatori non avremmo potuto udirla perché relegata nel canale sonoro, tutto privato, della ragazza. Cosa ha ascoltato la ragazza? Appena notiamo che le cuffie non erano collegate al walkman scopriamo con sgomento (o con iperestesia) che la ragazza stava ascoltando una musica extradiegetica, la stessa emessa dall’arco non più suonato dal vecchio. Il mondo qui non ha ancora fatto breccia e il ragazzo venuto da Seoul (il mondo che prima o poi arriva per riappropriarsi del tempo) non ha ancora potuto “mostrare” la sua falsa musica. E in questo set imploso solo l’arco può costruire un intreccio doloroso quanto simbolico, colpire, predire, corteggiare ma anche deflorare. Non sono i personaggi a raccontare (sono muti), né gli eventi a dipanarsi (non accade nulla) ma le forme a catturare e irretire il nostro bisogno di narrazione.

(1) L’attrice che interpreta la ragazza.

11 settembre 2008

Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (Kim Ki-duk, 2003)

Questo è un film che non si fa afferrare tanti sono i simbolismi religiosi e no, riferiti al buddismo o a improvvise trovate che non possono ricondurre immediatamente a significati o metafore legate alla religione. Certamente la religione nel film è importante (ambientato in un tempio buddista galleggiante su un laghetto incastonato tra i monti). La ricerca dell’equilibrio interiore, il ciclo della vita che si ripete, l’insegnamento dell’autodisciplina, ecc. Certamente. Le letture sono infinite, come le emozioni suscitate dal film. Il film che ho visto io non è solo un “contenitore” di significanza (fondamentale, importante, liberatoria, positiva) o di immagini estetizzanti (formali, equilibrate, contemplative, implementabili), ma è anche una struttura che si devolve, si offre alla percezione di un ritmo che non trascina ma macina (abbandonato ai margini, vacuo, saturabile, espositivo), è una miscela instabile di immagini-sutura (pittoriche, squilibrate, distratte, non collegabili). Sulla riva le ante di una porta che non unisce, come apertura o soglia, nessuna muraglia, nessuna barriera, si aprono, come un sipario, mostrando cinque atti di una pièce teatrale. Una rappresentazione teatrale con scenografia costituita da un tempio e una quinta dove sono disegnati i monti. Il palco è il lago della platea che osserva immobile gli eventi appena sussurrati, che accoglie i corpi e le anime di personaggi colti nell’atto di entrare e uscire attraversando la sala fino alla riva. Questo mondo appare in un perfetto equilibrio dove il senso delle cose non è riposto nella volontà umana o in un disegno divino che ha previsto questa assenza di mondo, ma è soprattutto il tentativo di costituire un fragile ritmo (tra l’altro occultabile) allo stesso modo di una poesia che deve “violentare una norma” (1). Questi equilibri instabili, questo ritmo sempre sul punto di collassare, trascinano l’animo attraverso la sorte di un bambino educato da un maestro nella solitudine di una vallata immersa nella natura, attraverso un percorso di purificazione che non approda in nessuna soluzione consolatoria. “Considerando che la frammentazione propria del montaggio […] è interruzione del flusso visivo da una parte (lo stacco) e designazione dall’altra (l’inquadratura), bisogna ricollocare queste qualità nell’ottica di una «poetica» del cinema allo stato puro, vale a dire una creazione di forme che fa sentire al tempo stesso il mondo e la sua distanza. Si impongono allora due termini: ritmo e rime” (2). Il ritmo impone la sua presenza soprattutto attraverso la partizione in cinque atti del film (le quattro stagioni più una), un’ellissi scandita dai battenti del portone che si apre sul lago mostrando l’isola-tempio galleggiante sulle acque. E ogni atto, ogni stagione, non è solo un salto temporale da un evento all’altro (o meglio, visivamente, da una stagione all’altra) ma soprattutto un salto nel vuoto che “mostra” l’accaduto (il tempo trascorso) attraverso indizi (oggetti o personaggi o animali) che rimandano a un passato occluso, incastrato nel battito-apertura della porta. Per citare un esempio il monaco, quando in autunno vede sul giornale la foto del suo ex-allievo e legge della sua fuga dal carcere dov’era stato rinchiuso per omicidio, viene a conoscenza di un passato scandito in un altrove sconosciuto, affiorato nel tempo “presente” tramite un frammento, un pezzo di giornale. Il tempo è il soggetto del film. Un tempo che si sposta e si mostra anche tramite brevi sequenze, lievi dissolvenze che servono a monitorare l’evento principale dell’attesa inestinguibile. Quando l’allievo omicida incide sul legname della zattera-tempio le frasi scritte dal suo maestro e i due poliziotti passano i colori con dei pennelli sulle incisioni, il tempo restituisce il senso della mortalità e dell’impossibilità di evitare una nuova alba. Il passato e le sue conseguenze proiettate nell’adesso (e gli echi del male che giungono sotto forma di “indizi”) sono macigni pesanti, un fardello che bisogna portarsi appresso al fine di espiare errori passati, presenti e futuri. Quelle che Amiel definisce rime, ossia “ripetizioni sporadiche, similitudini approssimative, sensazioni che aprono alla memoria uno spazio differente e proiettano in altri luoghi sentimenti che tornano a palpitare […]” (3), si innestano nel tessuto filmico come immagini o suoni dirompenti, capaci di “deformare” il senso delle informazioni senza soluzione di continuità. Così, ad esempio, la serpe che ritorna durante le stagioni o il tocco del corpo della donna da parte del giovane allievo durante l’estate e da parte del neo-maestro durante il gelido inverno, o ancora il sasso che il bambino lega in primavera al corpo di un pesce, di una rana e di una serpe così come il sasso che l’altro bambino mette in bocca nei menzionati animali durante la seconda primavera, (oppure anche la donna, morta nell’ellissi, che ritorna – ma è la stessa? – con un fazzoletto sul volto e muore scivolando nel buco del ghiaccio scavato dal monaco per lavarsi le mani), ebbene questi “ritorni” sono rime che restituiscono alla pellicola una struttura armonica (naturalmente le rime in questo film sono moltissime e tutte quante notevoli). Pertanto il tempo come soggetto, il ritmo come scansione del tempo stesso e le rime come “sfogliatura” delle immagini, inducono a leggere Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera come si legge una poesia. In questo modo il senso di questo splendido film, il senso profondo che entra nell’animo e scuote, che violenta la “norma”(4), è la disperazione per un male irrimediabilmente costituitosi (più o meno volontariamente, più o meno casualmente) e per un tempo che trascina gli echi di questo ciclico, ineffabile continuo ritorno (degli eventi che ricompongono errori incolmabili). La preghiera come purezza e (consentitemi questo brutto termine) “ripulitura” dalle scorie velenose, ma anche la natura che assorbe ogni cosa (compreso il male e compresa la preghiera) non aiutano a salvare l’anima. Questo compito spetta alla poesia. Forse non proprio una salvazione, né una redenzione, piuttosto una fioritura di sensazioni, sapori, profumi, ritegni, un percorso di conoscenza che non può e non deve essere abbandonato, ma seguito nelle sue più difficoltose biforcazioni allo scopo di scegliere non tra un gesto o l’altro tra una credenza o l’altra, tra un dolore o l’altro, bensì allo scopo di porre in evidenza l’atto stesso della scelta. In fondo il film è una poesia di scelte e di conseguenze che determinano altre scelte e altre conseguenze.

(1) Jan Mukarovskj, La funzione,la norma e il valore estetico come fatti sociali, Einaudi, 1971
(2) Vincent Amiel, Estetica del montaggio, Lindau, Torino 2006, p.130.
(3) Ivi, p. 132-133.
(4) In questo caso intendo “norma” come standard precipuo e ormai etichettato: lacrime, risa e altri sentimenti già confezionati, presi da vari profilmici e incollati sul supporto.

6 settembre 2008

Bad Guy (Kim Ki-duk, 2001)

Il film è già scritto, segue il suo destino. Ogni volta che vediamo e rivediamo una sequenza ci illudiamo di vederla in un eterno adesso, di osservare eventi e personaggi come curiosi che si soffermano, distratti dai propri affari, per assistere a un litigio. Come finirà, cosa succederà? Ma un litigio (o altri eventi) incontrato lungo la strada non possiede un inizio e un epilogo perché è “solo” un flash insignificante fra tanti altri eventi “insensati” in cui ci caliamo contemporaneamente, eventi senza storia e senza morale perché sono “solo” eventi, sono “solo” la vita. Ma il cinema è il cinema e anche se ci illude della freschezza del suo mostrato o della purezza della sua luce è “solo” un testo. È già accaduto, o meglio, ha bisogno del nostro vissuto per accadere in fieri anche se è già tramontato nel suo passato. Così la storia di Han-ki e Sun-hwa e del loro casuale incontro, in realtà è già accaduta. La studentessa che attende il fidanzato su una panchina di una strada affollata, credendo di vivere un altro giorno qualsiasi, non dovrebbe sapere cosa sta per diventare a causa del protettore Han-ki appena sedutosi accanto a lei su quella stessa panchina. Il luogo comune della panchina come contenitore di amore (ossia ragazzo + ragazza + panchina = amore) diventa l’orrore della panchina come “vetrina” con il proprio contenuto di giovane carne esposta allo sguardo della libidine (ossia ragazza + panchina – amore = – ragazzo). Il senso apparente, estrapolato dal desiderio comune di un evento che sopravvive sulle scatole dei cioccolatini, diventa (scambiando i termini) l’orrore del tempo che non riesce a mostrare i suoi perché. E il cinema sta lì, davanti a noi, a indicarci che è sempre stato così, che Han-ki e Sun-hwa nella diegesi sono carnefice e vittima (o viceversa?), sfruttatore e studentessa costretta con l’inganno a prostituirsi, ma nell’iconico sono sempre stati, ancora prima che lo sguardo se ne renda conto, due corpi condannati ad essere amanti. E mentre nel plot Sun-hwa disprezza il suo carnefice, sputandogli in faccia, esigendo le scuse, non sa che nella fotografia (in un frammento di story board strappato e perduto in una spiaggia) è sempre stata al suo fianco come una arcaica rassegnata concubina. Il mondo però ci invia segnali apparentemente indecifrabili, che non siamo in grado di capire, e che il cinema tenta di rendere intelligibili attraverso la formazione di simboli. E spesso questi simboli sono oggetti qualsiasi (1) o riflessi vaghi ed evanescenti o certi momenti onirici che stanno lì non per essere decifrati ma per essere amati. Quando Han-ki si trova sulla spiaggia accanto a Sun-hwa vede una ragazza di spalle che cammina verso il mare immergendosi e scomparendo sotto la calma coltre equorea. Ma chi è quella ragazza? È la stessa che Sun-hwa incontra lungo la strada della sua fuga e che le mette una maglietta sulle spalle come per proteggerla dal gelido pianeta ostile? O è lei stessa, il fantasma di una “brava” ragazza che non esiste più? La foto strappata assemblata da Sun-hwa manca di una tessera e non può mostrare un volto. Sun-hwa non sa ancora di chi è quel volto, conosce il contorno (o crede di conoscerlo) ma se attacca quella foto ricostruita allo specchio della sua cameretta, dove ogni sera dona il proprio corpo, il posto della parte mancante sarà di volta in volta occupato da un riflesso: il suo stesso volto che si pone sul corpo della ragazza della fotografia, il volto di Han-ki? Il cinema scivola in un riflesso assumendo una forma incorniciato da un testo (o da quel che ne rimane) che non è mai stato (il testo) ciò che avrebbe “voluto” essere. Difficile muoversi in questo film, tanti sono gli spunti e i motivi per riflettere. Ad esempio, può un volantino in quanto arma fronteggiare un coltello? O un vetro, portato sottobraccio come lo farebbe un vetraio mentre si reca a sostituirlo, può colpire e ferire? Nel cinema si può. Eco tre aspetti che mi hanno incuriosito:

1. Origami come piega dell’extra spazio/tempo. In una sequenza Han-ki fronteggia un avversario piegando un volantino pubblicitario in modo da dargli una forma simile a un cono appuntito che poi infilerà nella gola del suo rivale. Un origami contro un coltello non ha possibilità nel reale, un foglio contro la lama d’acciaio, qualcosa che non sembra nato per essere oggetto del male contro qualcosa che spesso simboleggia (grazie anche a tanto cinema classico) l’evento principale della ballata di un guappo: il duello all’ultimo sangue con un coltello in mano e tanto romantico coraggio. Ma nel cinema l’origami è la piega che cela il senso o l’assunto che si camuffa in arma per rimandare (almeno fino all’epilogo) lo scioglimento catartico. In questa arma c’è un condensato di immagine e scrittura, c’è il bisogno di nascondere, velare, ripiegare il mistero per tagliare un altro fotogramma, per esorcizzare la morte senza guardarla in faccia (un po’ come lo scudo di Atena usato da Perseo per sconfiggere Medusa) (2). La carta del cinema può anche (tra le pieghe di un’ellissi o di una panoramica che mette fuori campo un personaggio, o di una zoomata che butta fuori dal quadro il contorno) sconfiggere un finto acciaio o il passato di un altro cinema che non c’è più. La carta (dove potrebbe trovarsi la sceneggiatura del film), tagliando il corpo, forma l’immagine come contenitore di una proiezione, come raccordo tra uno spazio-tempo che sta per lasciarci e un’attesa dell’imprevisto che sta per essere vista. Insomma il fuisse viene determinato dal futurum esse.
2. La trasparenza come arma (il vetro che ferisce). Un vetro sottobraccio, anche se appuntito, non è un modo per uccidere. Quasi impossibile muoversi nello spazio per sperare di colpire il nemico. L’arma è piuttosto il sogno di determinare una trasparenza filmica che lasci “parlare” gli oggetti e gli eventi, come se la pellicola non esistesse, il cast non esistesse. Quel vetro diventa una sorta di deissi che torna ogni volta ad annullare la sua stessa trasparenza (del vetro). Ossia un tal vetro come arma diventa di un’opacità inaudita, una trasparenza opaca.

3. La luce dentro lo specchio. Han-ki spia Sun-hwa da dietro lo specchio, soffrendo nel vederla prostituirsi, soffrendo nel vederla piangere ma anche nel vederla trasformarsi in una puttana desiderata da tutti. Vede non visto, ma il desiderio di fondersi col riflesso di lei adagiato sullo specchio trascina l’opacità speculare, che riflette l’immagine di Sun-hwa, a ridosso della trasparenza (dell’attraverso). Per creare una simile rappresentazione ci vuole una luce (in questo caso un accendino). Per trascinare il mondo riflesso dallo “specchio di Atena” (3) oltre lo specchio stesso ci vuole la luce che solo il cinema può ricostruire. La fusione può sembrare totale, ma ha un costo alto: la possibilità di rivelare il trucco e l’alienazione dell’ego nell’abisso di una credenza (appagamento?).



(1) Oggetti qualsiasi come un portafoglio (tra l’altro un oggetto fondamentale per la storia del film), ma anche accendini, parrucche colorate, vetri, coltelli, ma soprattutto il catalogo delle opere di Schiele , un pittore espressionista. I pittori espressionisti non considerano le leggi della prospettiva e né l'illusione del volume e della profondità. Le linee e il colore sono utilizzati per evidenziare la visione drammatica e pessimistica sul mondo e la società.
(2) Kracauer afferma (cito a memoria) che nel mito la decapitazione di Medusa non significa ancora la fine del suo regno. Infatti Atena fissò la terribile testa sul suo scudo per gettare il terrore tra i nemici. Perseo, che ne aveva vista l’immagine, non riuscì a distruggerne completamente lo spettro (Krakauer, Film: ritorno alla realtà fisica (1960) Milano, Il Saggiatore 1962)
(3) In realtà si tratta dello scudo di Atena e non dello specchio, ma lo scudo nel mito di Perseo e Medusa viene usato come uno specchio.

31 agosto 2008

La Samaritana (Kim Ki-duk, 2004)

Edgar Morin in un suo saggio di molti anni fa (1), ma sempre interessante e attuale, citando Sartre (2) afferma che l’immagine mentale è una struttura essenziale della coscienza, una funzione psicologica. “Non è possibile dissociarla dalla presenza del mondo nell’uomo, dalla presenza dell’uomo nel mondo. […] Ma nello stesso tempo l’immagine non è che un doppio, un riflesso, cioè un’assenza. […] L’immagine è una presenza vissuta e una assenza reale, una presenza-assenza” (3). Per Morin una rappresentazione oggettiva può dar luogo a una maggiorazione soggettiva poiché un medesimo movimento accrescerebbe “[…] il valore soggettivo e la verità oggettiva dell’immagine fino a una “oggettività-soggettività” estrema, o allucinazione . […] Questo movimento che valorizza l’immagine la spinge […] verso l’esterno e tende a darle corpo, rilievo, autonomia. È questo un aspetto particolare di un processo umano fondamentale: la proiezione o l’alienazione” (4). Morin continua il ragionamento affermando che “[…] nell’incontro allucinatorio della più grande soggettività e della più grande obiettività, nel luogo geometrico della più grande alienazione e del più grande bisogno, c’è il doppio, immagine-spettro dell’uomo” (5). Il doppio concentra tutti i bisogni individuali e soprattutto il “[…] suo bisogno più follemente soggettivo: l’immortalità”. Ovviamente il discorso di Morin è molto più complesso poiché nel suo libro affronta vari problema legati soprattutto alla fotografia e al cinema, pertanto mi scuso di utilizzare in maniera riduttiva alcune sue affermazioni che mi servono per delineare tre aspetti: 1) Vasumitra o l’implosione del doppio; 2) Samaria o de-proiezione virtuale; 3) Sonata o perdita della propria ombra.
(Attenzione spoiler!) Vasumitra è un falso. Jae-yong nel film dice che una prostituta di nome Vasumitra era in grado di convertire al buddismo coloro che avevano giaciuto con lei. Ma Vasumitra fu un patriarca del buddismo e non vi è nessuna traccia nei Canoni di una donna che si prostituisce per convertire gli uomini. Ma Vasumitra è anche una verità perché Jae-yong prostituendosi insegna la compassione agli uomini che incontra, insegna cioè la prima virtù morale del buddismo, ossia percepire dentro di sé la gioia e il dolore dell’altro. Vasumitra è il medium (con facoltà medianiche o mediatiche?) che definisce l’atto proiettivo dello spettatore. E’ un doppio in quanto “nostra” proiezione nel senso di trasposizione della nostra vita “reale” (identificazione con la vita della prostituta redentrice Jae-yong), ma è anche il doppio poiché ci troviamo di fronte non solo a una proiezione mentale (alienazione) ma anche ad una iper-identificazione (siamo nei panni di una ragazza che decide di “identificarsi” con l’altro, ossia in questo caso di percepire dentro di sé la gioia dell’altro). Potremmo definire Vasumitra come il riflesso del doppio? (E poiché per Morin nel riflesso si trova il doppio allora potremmo affermare che Vasumitra è il doppio del doppio?). Il tema del doppio in questo film si sviluppa non solo metaforicamente ma anche visivamente. Jae-yong in fondo é il doppio (o meglio solo un riflesso) di Yeo-jin: ci troviamo davanti ad uno yin e yang in fieri? In fondo le due ragazze sono contrapposte. Una si prostituisce, l’altra no (almeno nel tempo di Vasumitra), una sorride sempre e mostra gioia e soddisfazione nel donare felicità, l’altra è nervosa, vive con sofferenza e senso di colpa la sua “purezza”, Jae-yong si lava con gioia e gode del momento catartico, Yeo-jin lava l’amica per purificarla (“Ma è una cosa lurida. Che ne sai tu dove sono stati quei tipi” le dice). E come yin e yang, l’una non può esistere senza l’altra (quando ciò accadrà l’implosione sarà avvenuta). Ambedue le ragazze sono complementari, si sostengono a vicenda, si aiutano, l’una vive per l’altra, l’una non può vivere senza l’altra. Infine, una volta eclissatasi Vasumitra, Samaria prende il suo posto. Lo yin e lo yang si sono trasformati e i complementi hanno compiuto la loro metamorfosi. Vasumitra come proiezione di Samaria, come compassione si è esaurita. Non eravamo davanti alla nostra identificazione proiettiva perché la bambina-prostituta era il sogno di un’altra bambina. La Samaritana sorge per purificare il dolore. In fondo ci troviamo di fronte all’allegoria di un’immagine (“allegoria” nel senso di figura relativa suscettibile di discussione critica, “immagine” nel senso di Vasumitra come “simbolo” dell’immagine). Rischio di essere criptico. Intendo dire che Vasumitra non è il simbolo dell’immagine filmica (perché non lo è, non la rappresenta, non ne è un canone definito e rigoroso), ma l’allegoria (l’allegoria è legata al contesto ed è discutibile). Questa immagine in fondo è contestuale e opposta all’immagine di Samaria, altra contraddizione allegorica. Samaria, la Samaritana, non solo come riscoperta del perdono; infatti Yeo-jin ripercorre inversamente la strada di Vasumitra prostituendosi soprattutto per de-costruire l’intreccio perso con la morte dell’amica, restituendo i soldi guadagnati da Jae-yong e custoditi gelosamente da Yeo-jin. Ricucire lo strappo montando altre possibilità proiettive. Ma la Samaritana è soprattutto quella del Vangelo di Giovanni:. “Una samaritana venne ad attinger l’acqua. Gesù le disse: Dammi da bere”.(Gv 4,7). “Ma la donna samaritana gli disse: Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? Infatti i Giudei non hanno relazioni con i Samaritani”. (Gv 4,9). La donna si stupisce crede in Gesù. Samaria crede nella redenzione, nella possibilità di ricucire, di rimontare il vissuto. La sua proiezione adesso non è più nello sguardo rivolto verso Vasumitra, ma nella pace e nell’appagamento dell’io interiore. Tutto quello che era frutto del suo punto di vista (l’amica che la saluta dalla finestra dell’appartamento alcova, i soldi che le affidava, gli uomini-mostro che “osavano” rendere impura la sua visione) adesso è imploso in lei. Il suo sguardo non è più un punto di vista onnisciente e schematico, coerente e astratto (nel senso di astrazione di alcune linee spaziali come fulcri della rappresentazione e del successivo giudizio) ma imploso nel Dentro, nel suo “sacrificio” diventando esso stesso proiezione di un altro sguardo, quello altrettanto codificato e limitato di Yeong-ki, il padre poliziotto pronto a scrutarla e seguirla per vendicarla. Mentre la prima parte (circa un terzo del film) si sviluppa e si scioglie come alienazione della piccola Yeo-jin, la seconda (circa la stessa durata della prima parte) trascina Yeong-ki nella vendetta. Le due istanze attanziali però sono complementari e funzionali allo scioglimento della seconda parte. Mentre nell’episodio di Vasumitra erano yin e yang, qui non c’è più posto per gli opposti. Il padre non è immagine speculare della figlia ma degli altri clienti, Yeong-ki ama la figlia come padre ma anche come potenziale amante geloso. Le sue proiezioni sono misteriose e solo vagamente accennate. Le immagini si scuotono, diventano sempre più rappresentazioni di uno scacco. La proiezione si allenta, si svuota, si decompone in mille rivoli. Il pedinamento della figlia porta il padre a “conoscere” i clienti , a minacciarli, a malmenarli. Due le immagini che allentano l’identificazione: il primo piano del selciato prima della caduta del suicida che mostra soltanto, dopo la caduta, il rivolo di sangue che scorre nelle fenditure della pavimentazione; la lotta in una melma di sangue e urina tra Yeong-ki e un cliente ripresa in campo medio. La Sonata è un’auto, quell’auto che conduce fuori da Seoul padre e figlia, portandoli in fondo a un percorso, dentro il ricordo (la tomba della madre) e dentro l’acqua bassa di un fiume. La macchina rimane nel mondo con le ruote affondate nell’acqua, adagiate su un fondale ghiaioso. La proiezione mentale sta perdendo il suo spettro (i personaggi) e la certezza di un significato ulteriore, un’altra potentissima proiezione: il sogno di Samaria (o forse di Yeong-ki o forse di un’istanza astratta) che viene uccisa dal padre e sepolta lungo la sponda del fiume. Ma la sequenza onirica è anch’essa filmica non potendo che essere rappresentazione del sogno. Tra sogno e film vi sono molte analogie (dilatazione e contrazione del tempo, suddivisione dello spazio, ecc.), ma il sogno presenta degli errori, dei “passaggi” imperscrutabili, il sogno è preconfezionato e la sua sceneggiatura viene scritta solo al risveglio, non essendo possibile prevedere a priori la sua precisa rappresentazione. Questi errori sono ripresi da Kim Ki-duk nella Samaritana. In particolare un “errore” del sogno diventa un raccordo corretto nelle riprese oniriche ma “sbagliato” nella sequenza “reale” dell’epilogo. L’auto si trova nell’acqua del fiume e nel suo sogno Samaria esce dall’auto mettendo i piedi nell’acqua, mentre nel substrato filmico delle proiezioni mette i piedi sulla ghiaia. Come a dire: tutto questo è meno di un sogno perché è stato previsto. Infatti potrebbe essere una mia proiezione “sbagliata” o personalizzata, perché tra il risveglio di Yeo-jin e l’inquadratura dell’auto sulla ghiaia del letto fluviale c’è stata una ellissi. Insomma il cinema siamo noi.

(1) Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli UE, 1982.
(2) Jean Paul Sartre, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1968.
(3) Edgar Morin, Il cinema…, p. 41.
(4) Ivi, p. 42.
(5) p. 43.

27 agosto 2008

Ferro3 - La casa vuota (Kim Ki-duk, 2004)

In un’intervista Kim ki-duk ha detto che non gli piace giocare con la macchina da presa o con il montaggio perché “durante la ripresa il massimo sforzo deve essere dedicato alla recitazione e alla costruzione dello scenario”(1). Quindi movimento dei personaggi e cura del quadro, cura della scena come luogo pittorico e differenziazione degli oggetti in quanto componenti fondamentali della storia, ma anche del tratto come percorso obbligato per comporre il disegno. In Ferro3 gli attanti si sviluppano attraverso l’inesauribile ricorso al silenzio. Nel film non si sente il bisogno della parola o almeno il dialogo non determina e non influenza il travaso del sapere dal mittente al referente, in quanto il sapere (la particolare storia d’amore tra Tae-Suk e Sun-hwa) è già “contenuto” nell’immagine in sé (non nelle sequenze ma in un’immagine). Il fantasma che “occupa” gli appartamenti e ripara gli oggetti è la sutura interna di un montaggio in fieri che Kim ki-duk “cuce” davanti all’obbiettivo attraverso la cura dell’immagine e il récit. In questo senso gli oggetti prendono il sopravvento, acquistano valenza di personaggi tout court non in quanto rappresentazioni di un agire che segue la linea temporale degli eventi, bensì in quanto forme del mondo catalogate e ricomposte seguendo altre coordinate. L’oggetto diventa la causa e allo stesso tempo il porta voce silente di un rapporto e, in quanto concreta durezza del vissuto, materia e colore di un ricordo, deforma i corpi intesi come essenze evanescenti in balia degli eventi. Poiché il parlato è pressoché assente, le relazioni tra i due personaggi sono sensoriali, sensibili, tattili; i corpi comunicano senza uso della parola o della ragione. Condividere sensazioni e “situazioni” corporee conduce verso la fusione di due differenti soggetti, fusione delle percezioni e dei sensi in un unico corpo (estesia). Il sapere (il racconto) è già inscritto nel cerchio formato dalla pallina colpita dal ferro, in quanto pallina bucata e legata al suo baricentro. Il cerchio che forma (o che tenta di formare) non aggiunge niente alla sua ricerca di una fuga. La forza centrifuga che produce riesce talvolta a rompere la corda procurando solo indebolimenti del senso (la donna colpita in auto sopravviverà?). La scomposizione interna al quadro, la ricerca di una forma ulteriore che sottolinei il rapporto con le cose, conduce a una ridefinizione dello spazio dove “i pezzi” non stanno al loro posto (i cuscini spostati, la foto di Sun-hwa tagliata e ricomposta senza seguire una “logica” formale, i non-occhi dell’immagine del pugile, la cornice senza il suo “contenuto”). Il tratto (fluida leggerezza dei movimenti che accarezzano l’aria) e il colore (gli oggetti, i lividi di Sun-hwa che svaniscono di sequenza in sequenza e il sangue della donna colpita o quello del labbro rotto di Tae-Suk) si attenuano, quasi evaporano davanti al nostro sguardo; perdendo la propria consistenza abbandonano gli eventi in un substrato mentale che ognuno potrebbe ricucire a piacere. Tae-Suk è morto in carcere e quello che vediamo è il suo fantasma? La donna è impazzita e vive in un'altra dimensione immaginando l’amore per Tae-Suk mentre in realtà subisce i duri effetti del Reale? Ma questa attenuazione dei significati evidenzia la forza del segno e del materiale che invade la scena, affiora sulla tela, colpendola nel cercare di coprirla, mostrandola sperando di celarla. Tae-Suk tenta di dare una forma alla materia (ripara oggetti, lava, si lava, cucina) occupando altri spazi al fine di vedere e sostenere altre storie, altri racconti che non sono i suoi. L’esperienza visiva (ma anche invasiva come furto di una visione intima) si compensa nella formazione in atto di una funzione poetica, ossia nella possibilità che abbiamo di vedere la nascita di una poesia. Infatti il protagonista maschile Tae Suk e la sua amante Sun-hwa vivono nel silenzio per tacere di fronte alla durezza e all’ostilità del mondo (espressa dalla parola degli altri personaggi), cercando di esprimersi con il proprio corpo, dialogando tra loro con gesti e sguardi, ma anche con una sorta di magnetismo telepatico che scivola oltre l’immagine (spesso nei riflessi dello specchio o in un alone di sfocato). Questa valenza informale che taglia e brucia la tela, che sgocciola il colore sui corpi, rappresenta per lo sguardo il momento stesso, il principio di costruzione dell’opera. Assistiamo all’amore non come sentimento che sublima l’accadimento ma come momento di nascita e crescita dell’opera, afferriamo il senso della funzione che si sviluppa davanti ai nostri occhi, quella funzione rappresentata dal peso zero del suo corpo. L’immagine della bilancia che indica lo zero (occupata dai corpi dei due amanti), sul piano metafisico potrebbe essere la misura della morte (i due amanti non esistono nel mondo) o l’ectoplasma degli spettatori che invadono la scena con lo sguardo. Oppure potrebbe essere il risultato di un’equazione determinata dai segni in via di formazione (esempio x+a =0). Insomma stiamo assistendo alla nascita della poesia, un momento emozionante che rapisce la mente privandola di ogni appiglio (durante la visione ho scelto liberamente il mio fantasma personale, abbandonando ideologie e luoghi comuni, anche se per pochi attimi). Come afferma Coletti analizzando il lavoro di Jakobson, Linguistica e poetica (2), “[…] «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione». Vale a dire, nella concreta esecuzione del linguaggio “poetico”, l’equivalenza, la similarità degli (tra gli) elementi (parole, sintagmi, ecc.) prevalgono sulla loro contiguità e cioè sulle regole stesse della successione: «in poesia l’equazione serve a costruire la successione». La linearità (temporale) del discorso si dissolve o si attenua in un’organizzazione che sottomette le leggi della conseguenza, della contiguità a quelle dell’equivalenza, impone continuo richiamo e anticipazioni di quello che è già stato e che deve ancora essere, imbriglia il tempo nello spazio […]” (3). Ho visto la creazione, la gestazione in fieri di un amore attraversato dalla forza immane della poesia, la capacità di svilupparsi in rievocazione e manifestazione artistica, ho assistito al bacio plurimo (bacio-abbraccio) che sceglie il sogno o la forza di vedere l’invisibile, oltre ogni ragionevole limite.
(1) Andrea Bellavista, Kim Ki-duk, Il castoro cinema, Milano 2005, p.8.
(2) Roman Jakobson “Linguistica e poetica” in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 181-218.
(3) Vittorio Coletti, Il linguaggio letterario, Zanichelli, Bologna 1983, pp 30-31.