
29 ottobre 2007
Giorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007)

30 ottobre - 9 novembre L'ARTE DI PETER GREENAWAY
26 ottobre 2007
Vasarely e il movimento immobile.

(1) Il Mondo come Volontà e Rappresentazione.
24 ottobre 2007
Angel (François Ozon, 2007)

(1). Quest’ultima frase ricorda casualmente il libro di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere
21 ottobre 2007
Stardust (Matthew Vaughn, 2007)

Stardust rispetta tutte le “regole” classiche della fiaba così come enucleate da Propp nel suo lavoro Morfologia della fiaba. Per Propp: “Gli elementi costanti, stabili della fiaba sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente da chi essi siano e in che modo le assolvano […]. Le funzioni sono perciò le componenti fondamentali della fiaba, gli elementi con cui viene costruito lo svolgimento dell’azione […]”. Queste funzioni sono 31 e si verificano seguendo sempre lo steso ordine . Non è mia intenzione eseguire un’analisi di tipo strutturale del film col cercare le funzioni, ma solo sostenere che Stardust è un film “strutturalmente” classico, nel senso che si rifà alle fiabe di magia e alle loro origini storiche negli antichi riti di iniziazione. Le fiabe inoltre presentano tutte, al di là dell’area geografica di appartenenza, una stessa struttura, con elementi e azioni costanti. E questa non fa eccezione. Ad esempio se prendiamo l’ultima funzione la 31: “L’eroe si sposa e sale al trono”: non è proprio il finale di Stardust? La 30 ad esempio cita: “Punizione dell’antagonista” (Infatti la strega Lamia viene sconfitta). Ancora una funzione presa a caso, la n. 2 “Divieto. All'eroe è imposta una proibizione o riceve un ordine”. Infatti è fatto divieto a Tristran di oltrepassare il muro che collega l’Inghilterra al villaggio fantastico di Stormhold. Nonostante ciò Stardust non è un film preciso e interessante perché si “allinea” alle regole strutturali della fiaba magica, ma perché qui le funzioni, così rigidamente allineate alla storia del racconto, lasciano spazio a dei buchi, a dei vuoti densi di senso che non sembrano minimamente intaccare il plot e l’avventura magica, ma che contribuiscono a perfezionare questo meccanismo funzionale. Questi spazi opachi, ogni tanto, prima relegati nello spazio angusto, affiorano sulla pellicola del film mostrandosi in tutta la loro evidenza. Ma invece di affermarsi come nuclei densi di significato svolgono il compito di annullare o per lo meno di deviare l’ingannevole trasparenza delle cose. Alcuni più importanti sono: la soglia e il limes, qui rappresentati da un muro che divide l’Inghilterra (il mondo) da Stormhold (la fiction, la fiaba), limes tra l’altro invalicabile per chi viene dalla “realtà” (c’è un guardiano che svolge quasi bene il suo ruolo), ma non altrettanto per chi proviene dalla fantasia (e stranamente nessuno vuole entrare nel mondo reale). Il discorso sulla soglia come collegamento di due spazi, punto di passaggio, luogo ove non si sosta ma si passa, luogo che forma, induce l’inizio del cambiamento, soglia come dinamica del sogno che si realizza, apertura verso il Fuori e tutto ciò che comporta, ossia soglia come dinamica del mistero, sarebbe complesso e non sarei nemmeno indicato a svolgerlo. Tanti filosofi (da Leibniz a Deleuze da Aristotele a Cacciari) ne hanno approfondito il mistero. Anche la Metamorfosi è un altro”vuoto” rispetto alla favola, ma non perché la fiaba non preveda metamorfosi (si pensi al lupo di Cappuccetto Rosso che si spaccia per sua nonna) ma perché questi cambiamenti vengono utilizzati per produrre gag niente male (es. le tette di Lamia che s’afflosciano improvvisamente, Capitan Shakespeare che si traveste da ragazza per dare sfogo al suo animo gentile). Il “vuoto strutturale” che mi ha più colpito è la duplice essenza della fanciulla stella: ciò che di là (nell’altrove) è una splendida creatura che sa amare e brillare, di qua (nell’hic) diventerebbe materia inerte, un blocco di metallo spento. E questo è proprio il pericolo peggiore. Non la strega che vuole il cuore di Yvaine per tornare giovane, non il principe Tertius che vuole il gioiello per avere la corona, ma il passaggio mentale tra l’altrove e il qui, il passaggio repentino e insensato dal sogno dove è tutto possibile, fin verso l’ininterpretabile, ossia verso la scelta del dolore insanabile del “male di vivere”; la scelta del mondo dove l’amore è convenienza, la violenza è un modo di vivere, dove non vi sono né buoni o cattivi, ma solo entità evanescenti. Insomma un salto verso l’hic et nunc, fossa biologica del dolore inesplicabile. E incredibilmente sarà proprio il Male (la strega Lamia) ad impedire la definitiva metamorfosi della stella: da sogno a pietra. Tutto il male non viene per nuocere? La polvere di stelle in fondo è il risultato del passaggio di una soglia da parte di una ciocca di capelli. Una ciocca è un sogno, noi accontentiamoci di sognare con la polvere delle stelle, almeno per viaggiare come avessimo nella bugia una candela accesa di Babilonia (per Propp funzione n. 15).
18 ottobre 2007
In questo mondo libero... (Ken Loach, 2007)

(1) Gianni Vattimo, Il pensiero debole. Per Vattimo oggi non è più possibile che il pensiero abbia possibilità di affermare qualsiasi verità definitiva, pertanto l'unica verità possibile è che esiste una molteplicità di verità (non esiste una verità assoluta, ma solo una pluralità di verità relative). Il pensiero forte invece si fonda come forma di violenza sulle altre forme di pensiero.
15 ottobre 2007
Koyaanisqatsi (Godfrey Reggio, 1983)


13 ottobre 2007
Che cosa sono le nuvole? (Pier Paolo Pasolini, 1967)


10 ottobre 2007
Il cinema della mente. Alcune osservazioni su Las Meninas di Velázquez (1656)
Sull’opera di Velázquez vi sono molte interpretazioni di storici dell’arte ma anche di filosofi e di esperti della fotografia. Le più interessanti sono state raccolte in un volume a cura di Alessandro Nova “Las Meninas. Velázquez, Foucault e l’enigma della rappresentazione”. Non starò adesso a riassumere tutte le interpretazioni e le speculazioni e analisi dei vari esperti d’arte. Piuttosto mi interessa sottolineare che questo dipinto rappresenta la volontà dell’autore di mostrare il momento artistico come momento ontologico che va oltre l’apparenza della rappresentazione di una qualsiasi giornata della vita di corte. Sulla tela vediamo Velázquez intento a guardare l’oggetto del suo quadro (di cui vediamo da dietro la parte grezza) mentre il centro del dipinto è occupato dall’Infanta Margarita. Alla sua destra è inginocchiata doña Marìa Augustina immortalata nel gesto di offrirle un bucchero rosso su un vassoio d’argento. Alla sua sinistra vediamo un’altra damigella: doña Isabella de Velasco. Ancora più a sinistra troviamo la nana di corte Mari-Bárbola, vicino a lei un altro nano, Nicolasito Pertusato, che tiene un piede sul dorso del cane. Dietro doña Isabel si trova una donna vestita da monaca: si tratta di doña Marcella de Ulloa accompagnata da un guardadamas. In fondo alla stanza nel vano della porta vediamo José Nieto Velázquez, maresciallo di palazzo della regina. Alla sua destra, appeso alla parete opposta al punto di vista, uno specchio riflette l’immagine del Re Filippo IV e della sua seconda moglie, la regina Marianna d’Austria. Il quadro, tipicamente dipinto secondo la prospettiva centrale (un solo punto di fuga), è interessante per innumerevoli motivi, ma quello che mi interessa (e ha interessato innanzitutto lo storico e filosofo Michel Foucault, ma anche molti critici ed esperti d’arte come Leo Steinberg e Svletana Alpers, filosofi come John R. Searle e Ted Cohen, nonché Joel Snyder, professore di storia e teoria della fotografia) è rispondere alla seguente domanda: chi o che cosa stanno guardando Velázquez e gli altri personaggi? Unanime la risposta: i reali di Spagna, perché si vede la loro immagine riflessa nello specchio e pertanto rappresentano il punto di vista che coincide con quello dell’osservatore, cioè con noi stessi. Noi siamo i reali e godiamo del privilegio di guardare la scena dall’esterno del quadro dominandola nell’insieme. Una visione tout court onnisciente, simile, molto simile a quella dello spettatore che al cinema se ne sta comodamente sprofondato nella sua poltrona. Foucault e Searle in effetti (con argomentazioni molto interessanti e complesse) confermano questa sensazione (lo specchio riflette il Re e hanno fatto notare, applicando le regole della prospettiva, che il punto di fuga non è situato nello specchio, ma appena sopra il gomito di José Nieto, pertanto, coincidendo il punto di vista con il centro della visione (quindi avendo assunto i Reali di Spagna, che noi non vediamo, la posizione di modelli della rappresentazione), non è possibile che Filippo IV e Marianna d’Austria vedano la loro immagine riflessa dallo specchio. Se ne deduce che l’immagine dello specchio è un’immagine di un’immagine, perché lo specchio riflette l’immagine del dipinto. Questa "rivelazione" (provata con disegni e ragionamenti secondo me ineccepibili) implica conseguenze impensabili per un osservatore distratto. Innanzi tutto i reali potrebbero essere giunti sul momento e quindi all’inizio di una “sessione” di lavoro, o durante una pausa (infatti Velázquez è distante dal quadro) oppure potrebbero essere in procinto di andarsene. Ma nessuno ci garantisce che il re e la regina assenti siano il soggetto della visione, poiché potrebbero essere altrove e la loro presenza potrebbe essere solo intuita attraverso un’immagine che non riflette la realtà e il mondo, ma che riflette molto di più. In fondo il tema più significativo del dipinto è l’atto stesso del guardare (il punto di vista) e dell’essere guardati (gli attanti del quadro compreso lo specchio), il dentro e il fuori, ma rappresenta anche un invito ad entrare nel quadro. Come affermano Joel Snyder e Ted Cohen, nel loro saggio raccolto nel volume da me prima citato, il dipinto “[…] è un’audace celebrazione della padronanza della propria arte da parte del pittore. Un pittore dotato rivaleggia con la natura; un grande pittore costringe la natura a rivaleggiare con l’arte”. Andando oltre la pittura, queste osservazioni potrebbero essere prese in considerazione anche discorrendo di cinema. Il cinema classico (soprattutto quello dei grandi autori) non sempre rivaleggia con la natura, nel senso che non solo riporta le storie e i fatti e la psicologia dei personaggi e le loro relazioni, ma costringe la natura a rivaleggiare con la sua stessa ontologia, obbliga il mondo a piegarsi al senso che si forma e deforma in ogni immagine, in ogni sequenza, filtra il profilmico nella sua stessa struttura restituendoci il mistero dell’arte e il suo fascino. Quando assistiamo ad un film apparentemente “decifrabile” bisogna sempre domandarsi perché rimaniamo affascinati dallo “sguardo” che ci restituisce. Forse perché noi non vediamo il riflesso del reale, ma vediamo molto, molto di più, vediamo il riflesso dell’arte, vediamo il segno che s’incarna nello stesso sguardo, ma è uno sguardo che ritorna a noi pregno di senso pronto ad esplodere sulla superficie dei nostri occhi, abbagliandoli. Penetrare la luce per afferrarne il senso è quindi uno dei presupposti per una “visione consapevole”. Non si tratta pertanto di rimanere sulla superficie dei significati, ma, come affermano sempre Snyder e Cohen, guardando Las Meninas bisogna sempre tener presente che Velázquez consiglia ai reali “[…]di non cercare la rivelazione della loro immagine nel riflesso naturale di uno specchio, ma piuttosto nella visione penetrante del loro grande pittore”.
8 ottobre 2007
Pierrot le fou (Jean-Luc Godard, 1965)


5 ottobre 2007
Vinyl (Andy Warhol, 1965)

2 ottobre 2007
Funeral Party (Frank Oz, 2007)
