Il
ritrovamento del “manoscritto” come nell’ Ivanhoe
di Walter Scott è il classico espediente per rendere credibile la propria opera (in questo
caso il diario di Amy) e pertanto far
scivolare “naturalmente” la storia fino al proprio epilogo; racconto come
percorso-gioco, affabulazione, dalla superficie trasparente e quindi racconto realistico,
obiettivo. Nel caso in questione si tratta di catturare l’interesse dello
spettatore nel seguire la struttura narrativa ideata da Amy Elliott-Dunn.
Ossia racconto fine a se stesso, diario come resoconto ideale di sintesi
narrativa, espressione sintomatica di verosimiglianza . Il ritrovamento del “diario”,
inoltre, permette di indicare la strada da seguire per scoprire il colpevole o
per lo meno per indirizzare i sospetti su suo marito Nick Dunne. Si
apre pertanto un percorso narrativo coinvolgente con indizi, indovinelli (i bigliettini
nascosti da Amy prima di scomparire con rompicapi da decifrare),
indagini. L’abbrivo sembra coinvolgere lo sguardo nel più classico dei topoi narrativi: film incentrato sulla denotazione
come unica possibilità per coinvolgere lo spettatore, classico film del genere
thriller. Eppure quello che sembra un banale imprevisto (Amy viene derubata nel
Motel) risulta a posteriori un interessante espediente narrativo per uscire
dallo stallo che sembrava contenere il film nel flusso di tanto cinema di
genere infarcito di luoghi comuni. Il thriller scorre lentamente dalla
denotazione alla connotazione, coagulando ipotesi, sensazioni, emozioni che
tracimano dall’alveo del risaputo. Il ripensamento di Amy sembra disorientare il
costrutto mentale, il gioco mostrato nella prima parte del lungometraggio. I
bigliettini con indovinelli si sono arenati, in realtà non conducono da nessuna
parte, la perfetta messa in scena di Amy riguardo alla sua scomparsa comincia a
vacillare, la stessa detective
Rhonda Boney
evidenzia le incongruità degli alibi mostrati da Amy. La verità, finalmente
proposta da Nick (ha un’amante, non ama Amy ed Amy stessa è un’assassina), pur
rimanendo relegata nel privato (Nick, sua sorella Margo, l’avvocato Tanner Bolt, Rhonda),
non serve a niente. La fiction deve prendere il sopravvento affinché il
pubblico possa rimanere coinvolto, intrappolato in una personale diegesi
cosparsa di aspettative e convinzioni indeclinabili: Amy è dalla parte dei
buoni e ogni cosa deve gravitare intorno a lei; suo marito, nelle vesti di
traditore pentito, può rientrare nel piano in quanto per troppo tempo
sospettato ingiustamente di avere ucciso Amy. Il perdono come massima altezza
della parabola narrativa già compresa nel mondo diegetico dello spettatore
(simboleggiato non a caso dall’inarrestabile condizionamento dei media), nonché
la redenzione come grande aspettativa per far esplodere le proprie emozioni
latenti (seppur ricercate e non spontanee), possono pertanto trascinare la
storia verso il proprio esito positivo (anche e soprattutto commerciale). Ritengo
che la peculiarità del lavoro svolto da Fincher sia soprattutto mirata a smontare
un percorso lineare apparentemente già espresso nell’incipit: quando Nick gioca
nel bar a Business insieme a sua sorella,
ho pensato di collegare questo indizio
ai vari indizi (bigliettini lasciati da Amy) seguiti da Rhonda e da Nick, senza
pensare al fatto che Business non è un
meccanismo matematico ma dipende dal caso: numeri estratti che conducono la pedina fortuitamente in
caselle con esiti positivi o negativi. Nel film i dadi vengono gettati spesso:
dal diario artefatto rimasto semi-bruciato nel forno (leggibile eppure fin troppo
realistico persino nei lembi delle pagine bruciacchiate), al furto subito da
Amy (evento non previsto dal topos
perché Amy, capace di sovrastare persone intelligenti non può sottomettersi a
due balordi), al suo improvviso ripensamento causato dall’intervista tv di Duck
che la induce a seguire nuove linee narrative. Da qui in poi il plot lascia
cadere nel vuoto tutti gli indizi (tanto non servono a niente poiché il
pubblico ha scelto sin dall’incipit) e il percorso logico con i suoi segni è
stato fagocitato dalla facoltà della tv di condizionare il mondo. Non ha
nessuna importanza seguire la strada dei bigliettini lasciati da Amy perché lei
stessa entra in scena, ritorna con la potenza del Falso per indicare la via ad
una umanità che proclama unica verità quella indicata da Amy. Tutto fallisce: i
segni, i suoi stessi bigliettini, il diario. La narrazione è un falso e la
ricerca della verità non rientra nei piani di chi ha già scelto. Il cinema non
può che registrare gli eventi, cercando di ricostruire ogni momento degli
accadimenti. La narrazione pertanto si
rifugia nell’extradiegetico, nelle scritte che appaiono sullo schermo non tanto
per organizzare cronologicamente una storia (il film è già strutturato in modo
da essere seguito anche senza le didascalie che scandiscono il tempo), quanto
per ancorare la forza dell’arte al suo stesso script che emerge allo scoperto
come unico momento di verità. Il
percorso seguito infatti dall’incipit (5 luglio: quel mattino; un giorno dopo;
due giorni dopo; tre giorni dopo; ecc.) registra il tempo che scorre (quello
diegetico) mentre le didascalie si mostrano sia come ulteriori chiarimenti di
ellissi evidenti (ma in senso narrativo non ce ne sarebbe stato bisogno) quanto
come affermazione dello script stesso sulla storia quasi ad attestare che il
cinema non può raccontare storie vere (sebbene Gone girl riprenda una storia realmente accaduta) ma solo mostrare
la propria interiore autenticità come ricerca incessante e mai sazia di
conoscenza.
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