Hereafter è un film sul “male di vivere”(1), sul fardello portato da chi soffre e riesce a fatica a uscire da una spirale tragica. Ma la vita contiene, si appropria, del senso, del sapore della morte, del desiderio di conoscere l’altrove o consolarsi di una sua labile esistenza. Le tematiche sono molto profonde e sconvolgenti soprattutto perché Eastwood non concede consolazioni o risposte ai suoi personaggi, al loro desiderio di esorcizzare l’avvento del nulla (oppure di un’altra dimensione). Non ha importanza definire l’altrove o analizzarlo o scoprire i suoi evanescenti e simbolici messaggi, ma ha importanza la reazione di chi è rimasto, di chi ne è miracolosamente uscito vivo (Marie) o di chi si è salvato solo perché non ha fatto i compiti (il piccolo Marcus). Non è nemmeno un film sulla casualità della sopravvivenza, sulla frammentarietà del vivere quotidiano, perché in fondo ognuno definisce il cammino in base alle proprie convinzioni, alle proprie illusioni, alle proprie speranze. L’altrove è un mondo a due facce: consolatorio per chi non riesce a vederlo, ma una condanna (George e Marie) per chi deve sopportarlo ogni giorno di più. Anzi, il desiderio di non voler conoscere l’altrove, ma al contrario sperimentare il sapore della vita, giorno dopo giorno, è forse l’aspetto migliore del film. Il sapore della vita si materializza nella sequenza della scuola di cucina, quando l’erotismo della bendata Melanie, che sporge le labbra in avanti in attesa del cibo offerto da George, irrompe sulla scena e inonda l’immagine occultando per un attimo il “teorema” della morte. La sequenza è un inno alla vita, un omaggio ai cinque sensi del vivere quotidiano, una splendida dedica al senso più complicato (forse con l’olfatto) da usare se slegato dall’immagine: il gusto. In un mondo in cui siamo abituati persino a mangiare con gli occhi, non è semplice annullare lo sguardo per conoscere profondamente e alimentare il senso del gusto. Melanie infatti fatica a riconoscere il fagiolo messicano e deve compiere uno sforzo notevole per educare il senso più atrofizzato, in una società dove il cibo è diventato icona nel perdere la sua caratteristica essenziale: il sapore. Anzi, il sapore che avvolge palato e papille di Melanie si metaforizza nel sapore della vita quando trasforma il gusto in sentimento e il porgersi all’altro (Melanie attende con la bocca protesa il cucchiaino tenuto da George) in erotismo. D’altro canto la scoperta del mondo parallelo trasforma la curiosità e l’attrazione di Melanie in paura di affrontare un rapporto. Sapere di essere radiografati nel profondo, preoccuparsi che i propri segreti più reconditi, le proprie paure, gli oltraggi subiti, possano essere conosciuti dal sensitivo, induce a fuggire, a rifiutare un rapporto. Il sapore materializza il mistero, la conoscenza non è nella rivelazione di un segreto, ma nella ricerca del senso stesso della rivelazione: la scoperta di stare assaggiando il fagiolo dopo mille faticosi tentativi restituisce il valore dei tentativi falliti come percorso culturale. Motivi e temi interessanti degni del grande cinema di Eastwood, ma non espressi al meglio, non supportati forse da una sceneggiatura, ma anche da una regia che nel complesso risulta un po’ debole. Le criticità del film purtroppo sono molte ma mi limiterò a evidenziarne tre che mi sembrano distanti dal cinema asciutto e solido di Eastwood.
Tre storie una storia. La sceneggiatura prevede tre storie parallele che si connettono nell’epilogo durante la fiera del libro di Londra. Tre storie temporali e spaziali differenti. La prima è ambientata a Parigi (a parte un prologo in Indonesia durante la tragedia dello Tsunami), la seconda a San Francisco e la terza a Londra. Londra è la città che raccoglie i cocci di tre perdite: 1) Marie, cambiata dopo essere stata sul punto di morire causa Tsunami, perde la sua vita professionale, il suo successo, suo marito; 2) George con il suo dono-condanna perde o rischia di perdere ogni contatto con i piaceri della vita quotidiana, perde un rapporto con una donna ancor prima che questo abbia tempo di nascere; 3) Marcus perde il fratello gemello e poi la madre. Le tre perdite possono consumarsi solo per una svolta nell’epilogo, nel momento in cui i tre personaggi si incontrano alla fiera del libro. La cultura dunque fa incontrare e unire i tre destini imprimendo loro una svolta che conduce inevitabilmente all’happy-end, o meglio a una proiezione didascalica che fa leva sull’inconscio di ognuno: la classica lezione moraleggiante sulle piccole cose quotidiane, la forza di proseguire la propria vita nonostante un doloroso passato, la capacità di ricominciare rispettando valori apparentemente insignificanti, quali amore, famiglia, semplicità, ecc,.ecc. Definirei questa fase come un’etica dell’inconscio collettivo, accresciuta negli ultimi decenni anche grazie a tanto cinema didascalico-moraleggiante. Non è comunque mia intenzione criticare questi presupposti, anzi, proprio perché tali presupposti tendenzialmente conducono al cliché, hanno bisogno di essere lavorati da una regia forte e robusta e impressi in una sceneggiatura altrettanto collaudata. Purtroppo questo non accade: solo dopo pochi minuti di visione si capisce subito che prima o poi le tre storie si unificheranno e i tre personaggi finiranno con l’incontrarsi come nei luoghi comuni più consumati. L’usura dei buoni propositi e della sofferenza in offerta speciale sarebbe alle porte se non fosse che per fortuna Eastwood è pur sempre un maestro della regia, ma il dubbio rimane. Forse (questa è solo opinione di osservatore profano e inesperto di regia) sarebbe stata preferibile una sceneggiature con tre storie separate, tre film che si concludono davanti all’entrata della fiera del libro di Londra, con un breve epilogo che lascia all’immaginario dello spettatore se i tre poi avranno o no la possibilità di fare la propria conoscenza.
Gli aspetti onirici come credenza extra-mondo sono purtroppo un momento debole del film. Va benissimo che Marie in fin di vita veda quelle ombre, quella foschia, dando adito a una certezza (un altrove esiste davvero) ma poiché mi sembra che il film sia propenso a analizzare lo sviluppo dei sensi, l’aspetto onirico (che può essere considerato una sorta di sesto senso), o l’esperienza pre-morte fungono da forza centripeta che aggiungono dati secondo me superflui poi per fortuna non analizzati da Eastwood. In altri termini le esperienze pre-morte di Marie come la veggenza di George forse avrebbero avuto maggiore impatto se mostrate dall’esterno, lasciate sedimentare attraverso il punto di vista dello spettatore, una sorta di focalizzazione esterna, senza “entrare” nell’inconscio dei protagonisti. Voglio dire che Marie e George avrebbero potuto vedere un altrove, ma il non mostrare questo altrove avrebbe lasciato lo sguardo nel dubbio. Il film comunque resiste alla deriva estetica perché questi momenti sono rari e non approfonditi. Ovviamente non sono contrario a certi stilemi (mostrare l’al di là) nel cinema, ma Hereafter sarebbe stato un altro film , magari anche migliore, ma non un film di Clint Eastwood.
Il doppio fallito. Interessante lo sviluppo del doppio nel film che crea tensione e “disturba” la visione aprendo la porta sul bisogno del contatto con l’altro e l’angoscia della perdita. Identificarsi come doppio e scoprire di essere soli ci trascina dentro una delle più angoscianti e drammatiche emozioni: il senso della perdita. E l’uomo , animale sociale ed economico, soffre molto per qualsiasi tipo di perdita, figuriamoci poi per la peggiore di tutte: la morte o l’allontanamento dalla persona amata (padre, madre, marito, moglie, fratello, sorella, ecc.). Ma la ricerca e l’analisi del doppio in Hereafter non arriva alla conclusione, sembra svanire nel nulla ancor prima di giungere alla sequenza della fiera del libro di Londra. Il doppio sono Marcus e Jason, è la loro simbiosi, il loro affetto che li aiuta a sopportare anche una difficile situazione familiare, e la storia di Marcus si dipana nella ricerca di un contatto col fratello perduto; per George invece il doppio è lo sdoppiamento della sua vita, ciò che vorrebbe essere (libero di toccare l’altro senza vedere) e ciò che è (la sua condanna/dono); per Marie il bisogno di proiettare la sua esperienza di sopravvissuta (la donna che era prima e quella che è diventata dopo l’esperienza pre-morte). Ma il doppio non si realizza soltanto mostrando i personaggi, bensì lasciandoli sedimentare sulla pellicola. Così i due ragazzi non hanno il tempo di raccontarci le loro differenze, le loro invidie (in effetti c’è un abbozzo quando in una sequenza si viene a sapere che Marcus non è altrettanto bravo a scuola quanto il suo gemello); il bellissimo rapporto tra George e Melanie poi non va oltre la sequenza nella scuola di cucina, il rapporto viene subito troncato causa la veggenza di George e niente ne esce se non una voluta dimostrazione del fatto che George non possiede un dono ma una dannazione. Sarebbe stato interessante inoltre vedere sviluppata la ricerca di Marie verso una sua nuova identità sorta in occasione della sua esperienza, una Marie cambiata, offuscata, più emotiva, insomma il doppio della vecchia Marie.
(1) Spesso il male di vivere ho incontrato è una poesia di Eugenio Montale della raccolta Ossi di seppia (1925):Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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Tre storie una storia. La sceneggiatura prevede tre storie parallele che si connettono nell’epilogo durante la fiera del libro di Londra. Tre storie temporali e spaziali differenti. La prima è ambientata a Parigi (a parte un prologo in Indonesia durante la tragedia dello Tsunami), la seconda a San Francisco e la terza a Londra. Londra è la città che raccoglie i cocci di tre perdite: 1) Marie, cambiata dopo essere stata sul punto di morire causa Tsunami, perde la sua vita professionale, il suo successo, suo marito; 2) George con il suo dono-condanna perde o rischia di perdere ogni contatto con i piaceri della vita quotidiana, perde un rapporto con una donna ancor prima che questo abbia tempo di nascere; 3) Marcus perde il fratello gemello e poi la madre. Le tre perdite possono consumarsi solo per una svolta nell’epilogo, nel momento in cui i tre personaggi si incontrano alla fiera del libro. La cultura dunque fa incontrare e unire i tre destini imprimendo loro una svolta che conduce inevitabilmente all’happy-end, o meglio a una proiezione didascalica che fa leva sull’inconscio di ognuno: la classica lezione moraleggiante sulle piccole cose quotidiane, la forza di proseguire la propria vita nonostante un doloroso passato, la capacità di ricominciare rispettando valori apparentemente insignificanti, quali amore, famiglia, semplicità, ecc,.ecc. Definirei questa fase come un’etica dell’inconscio collettivo, accresciuta negli ultimi decenni anche grazie a tanto cinema didascalico-moraleggiante. Non è comunque mia intenzione criticare questi presupposti, anzi, proprio perché tali presupposti tendenzialmente conducono al cliché, hanno bisogno di essere lavorati da una regia forte e robusta e impressi in una sceneggiatura altrettanto collaudata. Purtroppo questo non accade: solo dopo pochi minuti di visione si capisce subito che prima o poi le tre storie si unificheranno e i tre personaggi finiranno con l’incontrarsi come nei luoghi comuni più consumati. L’usura dei buoni propositi e della sofferenza in offerta speciale sarebbe alle porte se non fosse che per fortuna Eastwood è pur sempre un maestro della regia, ma il dubbio rimane. Forse (questa è solo opinione di osservatore profano e inesperto di regia) sarebbe stata preferibile una sceneggiature con tre storie separate, tre film che si concludono davanti all’entrata della fiera del libro di Londra, con un breve epilogo che lascia all’immaginario dello spettatore se i tre poi avranno o no la possibilità di fare la propria conoscenza.
Gli aspetti onirici come credenza extra-mondo sono purtroppo un momento debole del film. Va benissimo che Marie in fin di vita veda quelle ombre, quella foschia, dando adito a una certezza (un altrove esiste davvero) ma poiché mi sembra che il film sia propenso a analizzare lo sviluppo dei sensi, l’aspetto onirico (che può essere considerato una sorta di sesto senso), o l’esperienza pre-morte fungono da forza centripeta che aggiungono dati secondo me superflui poi per fortuna non analizzati da Eastwood. In altri termini le esperienze pre-morte di Marie come la veggenza di George forse avrebbero avuto maggiore impatto se mostrate dall’esterno, lasciate sedimentare attraverso il punto di vista dello spettatore, una sorta di focalizzazione esterna, senza “entrare” nell’inconscio dei protagonisti. Voglio dire che Marie e George avrebbero potuto vedere un altrove, ma il non mostrare questo altrove avrebbe lasciato lo sguardo nel dubbio. Il film comunque resiste alla deriva estetica perché questi momenti sono rari e non approfonditi. Ovviamente non sono contrario a certi stilemi (mostrare l’al di là) nel cinema, ma Hereafter sarebbe stato un altro film , magari anche migliore, ma non un film di Clint Eastwood.
Il doppio fallito. Interessante lo sviluppo del doppio nel film che crea tensione e “disturba” la visione aprendo la porta sul bisogno del contatto con l’altro e l’angoscia della perdita. Identificarsi come doppio e scoprire di essere soli ci trascina dentro una delle più angoscianti e drammatiche emozioni: il senso della perdita. E l’uomo , animale sociale ed economico, soffre molto per qualsiasi tipo di perdita, figuriamoci poi per la peggiore di tutte: la morte o l’allontanamento dalla persona amata (padre, madre, marito, moglie, fratello, sorella, ecc.). Ma la ricerca e l’analisi del doppio in Hereafter non arriva alla conclusione, sembra svanire nel nulla ancor prima di giungere alla sequenza della fiera del libro di Londra. Il doppio sono Marcus e Jason, è la loro simbiosi, il loro affetto che li aiuta a sopportare anche una difficile situazione familiare, e la storia di Marcus si dipana nella ricerca di un contatto col fratello perduto; per George invece il doppio è lo sdoppiamento della sua vita, ciò che vorrebbe essere (libero di toccare l’altro senza vedere) e ciò che è (la sua condanna/dono); per Marie il bisogno di proiettare la sua esperienza di sopravvissuta (la donna che era prima e quella che è diventata dopo l’esperienza pre-morte). Ma il doppio non si realizza soltanto mostrando i personaggi, bensì lasciandoli sedimentare sulla pellicola. Così i due ragazzi non hanno il tempo di raccontarci le loro differenze, le loro invidie (in effetti c’è un abbozzo quando in una sequenza si viene a sapere che Marcus non è altrettanto bravo a scuola quanto il suo gemello); il bellissimo rapporto tra George e Melanie poi non va oltre la sequenza nella scuola di cucina, il rapporto viene subito troncato causa la veggenza di George e niente ne esce se non una voluta dimostrazione del fatto che George non possiede un dono ma una dannazione. Sarebbe stato interessante inoltre vedere sviluppata la ricerca di Marie verso una sua nuova identità sorta in occasione della sua esperienza, una Marie cambiata, offuscata, più emotiva, insomma il doppio della vecchia Marie.
(1) Spesso il male di vivere ho incontrato è una poesia di Eugenio Montale della raccolta Ossi di seppia (1925):Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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