La disgregazione del senso e l’incapacità di una visione ortocentrica (o almeno la consapevolezza di questa assenza visiva) non hanno trovato degni sostituti. Intendo dire che la perdita del punto focale privilegiato (il punto di vista di Dio), non è stata rimpiazzata da una “nuova consapevolezza” o, meglio, da una asistematicità analitica del mondo. Prospettive (frontale, d’angolo ma anche razionale) ed egocentrismo rimangono come pezzi vaganti di materiale pericoloso sempre in rotta di collisione con uno sguardo “privilegiato”. Spesso le aspettative dello sguardo, residui dei valori schematici della vita quotidiana, si riferiscono a delle situazioni “senso-motorie tipiche dell’immagine-azione del vecchio realismo” (1). Come afferma Deleuze, nei film del “vecchio” realismo i personaggi reagivano a delle situazioni, interagivano con l’immagine azione (anche nel caso in cui si trovavano immobilizzati) e pertanto lo spettatore riusciva ad identificarsi. Gli oggetti e gli ambienti vivevano di una realtà propria, “[…] ma era una realtà funzionale, strettamente determinata dalle esigenze della situazione, anche se queste esigenze erano tanto poetiche quanto drammatiche […]” (2). Liberarsi da queste ancore risulta fondamentale davanti a molto cinema odierno (ma non solo) e secondo me anche per riuscire ad apprezzare un film quale
E venne il giorno, che altrimenti potrebbe dare l’impressione di essere un film “tirato via”. Ritengo al contrario che il film di Shyamalan sia molto più curato di quanto non possa sembrare a prima vista per almeno tre motivi che mi vengono alla mente en passant: è un film onirico, è un film in fieri, è un film puramente ottico. 1)
Onirico. I personaggi congelati in una sorta di frame-stop “fisico” in Central Park come nelle strade di Filadelfia o nella campagne della Pennsylvania sono affetti da un’incapacità senso-motoria. Non reagiscono più agli stimoli di una logica univoca di situazioni spazio-temporali apparentemente controllabili. In altri termini chi è colpito dal germe si addormenta e non muove più il corpo. Il suo corpo diventa un automa in attesa di un agghiacciante evento onirico. La fase psico-motoria, relegata al certo e al sicuro, al verosimile e al prospettico, all’univoco e al vero, svanisce nel sonno: il corpo immobile adesso sogna la sua distruzione, o meglio, la sua destrutturazione. Il suicidio del corpo è il tentativo di valorizzare un nuovo modo di appropriarsi del mondo, di incarnarsi nel mondo, ossia la morte del corpo come morte del visibile. Il sogno ha inizio. E, come in
Golconda di Magritte, gli uomini immobili per le strade e gli uomini che piovono dal cielo ci trascinano in un sogno; la visione prende il sopravvento, l’immagine esiste al di là dell’oggetto rappresentato, al di là delle apparenze senso motorie che ingannano l’occhio. Inoltre la prospettiva di queste immagini oniriche non è mai controllabile, strutturabile (campi contro campi, campi lunghi, ecc.) ma limitante. Le riprese di Shyamalan non appagano, non producono liberazione, ma inducono a ripiegare lo sguardo su di sé, in quanto non c’è, e non ci deve essere, identificazione, ma trasmissione. Si può dire che l’azione fluttua “nella situazione, più che compierla o rafforzarla” (3). Nel sogno non posso misurare spazio, controllare azioni, coordinare eventi, non posso insomma sperare di conoscere una persona e di ritrovarla nell’inquadratura che segue. Nel sogno posso solo “sapere” senza che nulla arrivi a confermare il mio sapere. Nella scena dell’altalena i presupposti sono senso-motori, ma i risultati onirici. La macchina da presa inquadra dall’alto il ramo su cui è stata fissata l’altalena, e più di una volta (non ricordo bene e per questo dovrei rivedere il film) quasi per suggerire che qualcosa accadrà. Nel cinema motorio qualcosa accade sempre, lo sguardo soffre nell’attesa, l’immedesimazione trasferisce le nostre ansie sulla bambina e sul mostro che giungerà a carpirla. Ma non accade niente: il sogno è già conosciuto ma non vi sono raccordi nel sogno, solo un punto di vista antiprospettico. 2)
In fieri. Stiamo assistendo alla “formazione” di un film. Supponiamo che “qualcuno” giri una storia di formazione di un film. Inquadro il regista, i personaggi, i luoghi. Gli attori sono ancora insicuri, fuggono dal set senza sapere dove andare, pezzi di découpage cadono per terra strappati dai problemi esecutivi che spesso “obbligano” a non seguire lo scritto, l’immobile. I luoghi chiusi sono palesemente falsi: una scuola dove non si insegna null’altro che ad avere terrore del tempo (sì, i terroristi, la fine del mondo, ma in realtà il ragazzo pensa al naso, ognuno pensa al suo naso deforme, la paura è qui e l’altrove è un luogo a perdere), poi una stazione perduta come punto di arrivo ( e il personale delle ferrovie dove va?), un bar da dove tutti fuggono (ma lì non è successo niente). Una casa-set dove tutto è finto ma nonostante questo, più vero delle cose reali. Gli oggetti hanno acquistato una loro autonomia, non sono più oggetti funzionali ad una situazione senso-motoria, ma esistono di per sé, sono oggetti, anzi immagini di oggetti che non hanno niente da spiegare, niente da chiarire, ma sono lì per essere “investiti” dai sensi. Gli attori, in queste condizioni, non sono nella parte, perché stanno ancora per affinare la loro arte, le loro capacità, sono in procinto di trasformarsi in personaggi che non reagiscono ma che “registrano”. Il personaggio più “che essere impegnato in un’azione, è consegnato a una visione, che insegue o da cui è inseguito” (4). Anche l’aperto è un set, forse meglio di un set: è la luce che cambia ad ogni istante con il passaggio delle nuvole, una luce casualmente minacciosa, ma non sapremo mai perché deve essere così minacciosa. E il vento è un evento affascinante. Portatore di tossine? Un vento atomico di tanti film Horror? Lo respiriamo attraverso lo sguardo e l’udito, è il vento che muove le foglie in un film dei Fratelli Lumiére, Le Déjeuner de Bébé, che emozionò gli spettatori più del bambino imboccato amorevolmente dai genitori. 3)
Ottico. Adesso riprendo da Deleuze un altro concetto: l’intollerabile.
E venne il giorno è la messa in scena dell’intollerabile. Con questo non intendo visione di un orrore intollerabile, visione del mostro (veleni, terrorismo, Cia, ecc.) che arriverà, prenderà, fagociterà, distruggerà. La situazione senso-motoria ha lasciato spazio ad una situazione ottica e sonora. Questa concerne uno spazio diverso, uno spazio qualsiasi, sconnesso, svuotato, uno spazio non prospettico ma incerto, incoerente. Queste situazioni possono riguardare anche la banalità del quotidiano, possono essere semplici frasi o un cellulare che suona lasciando sul display il nome di un possibile amante. E poi? Nulla. Solo questo. Non ne nasce una “logica” conseguenza, perché non c’è uno schema predefinito nel reale, ma solo un gesto, un paio di bellissimi occhi azzurri sgranati sul mondo e sulle preoccupazioni che neppure sconvolgono. La stessa paura è una constatazione banale, proprio perché non ci può essere paura per un mostro che non è senso-motorio. “Anche la distinzione tra soggettivo e oggettivo tende a perdere d’importanza man mano che la situazione ottica e la descrizione visiva sostituiscono l’azione motoria. Si ricade infatti in un principio di indeterminabilità, di indiscernibilità: non si sa più quel che nella situazione è immaginario o reale, fisico o mentale, non perché li si confonde, ma perché non si deve saperlo e non è più nemmeno il caso di domandarlo” (5). L’intollerabile per Deleuze è qualcosa di troppo ingiusto o troppo potente o troppo bello, è un’illuminazione, una veggenza; è il riconoscimento di una banalità che nella vita reale spesso trascuriamo. È il passare accanto a un incidente, magari con morto, di cui non sopportiamo la vista: tiriamo diritto perché non è tollerabile. La visione ci abitua a vedere qualsiasi mostro, ma la veggenza fa conoscere l’intollerabile della nostra inabilità diegetica in cui “[…] vediamo, più o meno subiamo una potente organizzazione della miseria e dell’oppressione” (6). L’immagine-cliché è sempre in agguato, dietro ogni chiusura di senso. Shyamalan lo sa e tenta, attraverso una luce naturale ma impossibile (pare che abbia trascurato recitazione ed effetti speciali per dedicarsi alla ricerca di una luce naturale legata al formarsi delle nuvole), di bucare il cliché, lasciando sempre aperto il senso di ogni immagine. I personaggi si muovono in questo paesaggio sospeso nel senso come nuovi inquilini smarriti che non conoscono il condominio. Non sanno dove andranno. Non sanno se tradiranno o hanno già tradito. E non sanno nemmeno perché il mondo è impazzito. Anche la salvezza non è nella folla, ma non servirà neppure fuggire dalla città. La salvezza non è neppure nei piccoli numeri, neppure in chi ha scelto di rifugiarsi da sempre in mezzo alla natura. Il frame-stop con perdita della corporeità senso-motoria colpirà anche gli ultimi eremiti. A questo punto rimangono solo gli occhioni azzurri di Alma come simbolo di un nuovo modo di vedere. L’immagine tempo ha subordinato il movimento (7).
(1) Gille deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1993(2), pp. 12-13
(2) Ibidem, p. 13.
(3) cit. p. 15.
(4) cit. p. 13.
(5) cit. pp. 17-18.
(6) cit. p. 31.
(7) cit. p. 34.