Le mie annotazioni saranno pregiudizi, le mie
critiche potrebbero basarsi su preconcetti, eppure, nonostante la buona volontà
di vedere un film per me faticoso da seguire, non sono riuscito a trovare
niente di interessante se non rari spunti, illusioni di inizi, abbrivi di una
ricerca sospesa prima ancora di ramificarsi nel plot per cercare di scavare in
profondità. A parte il solito procedimento di Tornatore, per cui dopo un po’ lo
spettatore si sente anche quasi veggente nel riuscire ad azzeccare la
prosecuzione della storia e il suo epilogo, le immagini patinate e i movimenti
di macchina a tratti interessanti, nonché la grande recitazione di Geoffrey Rush,
non sono sufficienti a tenere a galla un film che non aggiunge niente di nuovo
al panorama contemporaneo del cinema italiano, nonostante tutti i premi vinti
(in patria) e l’indubbia capacità di coinvolgere lo spettatore. Per sintetizzare
vorrei indicare almeno tre fra i tanti aspetti che il regista avrebbe potuto
sviluppare e approfondire. Dispiace che una storia simile (in effetti pregna di
spunti) sia stata abbandonata sulla superficie della visione a uso e consumo di
un cinema prevedibile e convenzionale.
Equazione irrisolta. Interessante l’idea della nana
del bar capace di effettuare calcoli strabilianti e di conoscere il numero
delle volte che una persona è entrata nel locale o nella villa di Claire, di
stabilire con precisione il numero delle volte in cui sono stai portati i
mobili nella villa e le volte in cui sono stati ripresi. Ma questo rimane un
episodio. Stabilire una linea obliqua che attraversi il plot, accompagnandolo o
al limite cercando di eliderlo, avrebbe reso il film più godibile. I “numeri”
avrebbero potuto risiedere nell’arte, ad esempio nelle cifre delle migliori
offerte dichiarate nelle aste gestite da Virgil. Invece Tornatore si è limitato
a illustrarci le aste solo per evidenziare le capacità truffaldine di Virgil e
del suo amico Billy, pronti ad accordarsi per “soffiare” le opere bandite a un
prezzo minore di quello del mercato. I valori delle offerte avrebbero potuto trovare
corrispondenze con i numeri della nana, sommandosi o sottraendosi, allo scopo
di comporre un’equazione di valori medi oppure di valori moda; formare numeri
in progressione per creare medie coincidenti o allusive (la storia della nana,
la “vera” Claire, poteva essere accostata ai quadri del caveau segreto nella
casa di Virgil); oppure numeri reiterati con maggiore frequenza di altri, utili
per trovare la moda (il numero più ricorrente). In altri termini la matematica
poteva essere espansa legando il discorso alla storia, fondendoli in un unicum
narrativo di notevole impatto. Ma le “cifre” dell’epilogo chiarite dalla nana
servono solo a rendere più suggestiva la rivelazione, la ”verità” tanto
enunciata nel film (opposizione vero-falso) senza entrare nel merito del concetto
latente e instabile di una verità degli oggetti e degli esistenti. Gli oggetti
in altri termini esistono nel film solo per accompagnare gli eventi, ridotti al
rango di suppellettili (anche di grande pregio) non riescono mai a emergere per
catturare l’attenzione dello spettatore. Oggetti pertanto automatizzati, parti
di un arredamento che scivola davanti ai nostri occhi lasciando la mente
dispersa sulla superficie del plot prodotto unicamente per accattivare certezze
immutabili (l’amore vero, il falso come capacità e la verità nascosta) che non accrescono
il sapere. Tornatore ci racconta fatti ed enuclea una morale già contenuta nel
dna dei nostri tempi, morale incrostata nel risaputo e probabile innesto dei
soliti luoghi comuni.
Meccanica incompleta. Quando ho visto i primi
ingranaggi trovati da Virgil nella villa di Claire, ho avuto un sussulto. Mi
sono chiesto se Tornatore avesse ritrovato la vena artistica dei suoi primi
film. L’ingranaggio sembrava l’inizio di un percorso e già immaginavo un dedalo
di stanze, soffitte, luoghi (anche esterni all’edificio) in cui ritrovare
rotellina dopo rotellina per montare l’automa. L’automa, il robot, il golem, è
la rappresentazione della creazione, riporta su scala umana la storia di un Dio
che forgia l’uomo. L’automa meccanico del settecento, creato per strabiliare,
ma anche per ingannare, è l’uomo stesso che segue vie spesso regolamentate e
scelte dal modo in cui girano e operano i suoi ingranaggi interni. Qui il film
avrebbe potuto prendere una piega interessante nel suscitare riflessioni e
deduzioni di notevole impatto. Interessante sarebbe stata la “ricerca” di Virgil,
il suo viaggio al fine di scovare tutti gli oggetti che, presi uno per uno, non
sono nemmeno valutabili o stranianti, ma una volta collegati l’uno all’altro,
nel momento culminate in cui riescono a formare un tutto, acquisiscono nuove
valenze. L’oggetto nuovo, finalmente creato, prende vita per definire un nuovo
modello di visione. Questa ricerca poteva essere collegata alla scoperta della
finta Claire, crescere con essa, invilupparsi con essa al fine di creare ad
esempio un altro modo di vedere la “verità” (non vero-falso ma vero-altro
vero). Invece poche sequenze dopo la delusione: gli ingranaggi servono a
trattenere Virgil nella villa allo scopo di fargli accettare di vendere
all’asta masserizie di poco valore (quadri, statuine, mobili) e dare in tal
modo il tempo a Claire di poterlo circuire. Il solito gioco. Unico momento
interessante, ma purtroppo solo nell’epilogo, il bar di Praga con gli
ingranaggi dell’orologio che girano dietro le pareti, indubbiamente utili a
collegare l’oggetto della truffa (l’automa) con quello della speranza (il
locale arredato con grossi ingranaggi di un orologio, il “Night and Day”di
Praga, dove Virgil spera prima o poi di incontrare Claire).
Occhi senza sguardo. Gli occhi del film (quelli dei
quadri, quelli di Claire visti dietro il buco della serratura da Virgil) sono
spenti. Non sembrano osservarmi. Ripenso a tanti film (Un cane andaluso, La
scala a chiocciola, Io ti salverò) in cui gli occhi (di uno sguardo tagliato,
di un maniaco, o quelli surreali di un sogno) non osservano solo la preda o un
altro personaggio, ma anche noi stessi che guardiamo. È il cinema che penetra nella
mente e ti dice che sta dialogando con te, e che tra te e lui si è creata una
connessione magica per cui tu hai cominciato ad abbandonare il tuo corpo seduto
sulla poltrona e stai navigando con la mente nella sequenza. Nel film in
oggetto invece non si sente il peso dello sguardo. Gli occhi sono mostrati poche
volte e servono soltanto a dimostrare (secondo la logica del plot) il motivo
per cui Virgil si innamora di Claire. Gli occhi di Claire isolati dal suo
corpo, visti da dietro il buco della serratura, sembrano a Virgil quegli stessi
occhi dei tanti ritratti che ha raccolto durante le sue aste e messi nel caveau
dove può finalmente rilassarsi e compensare il suo bisogno d’amore mai
realizzato. Non servono ad altro. Per questo non vengono ripresi quasi mai.
Invece un viaggio dentro i tanti ritratti (tra cui un dipinto di Modigliani, la
Lucrezia Panciatichi del Bronzino e La Fornarina di Raffaello), magari connesso
con altri motivi (appunto gli ingranaggi e la matematica), un percorso negli
occhi che ti guardano, avrebbe potuto far uscire infine l’ “io” narrante
dall’interno del punto di vista di Claire (né approfondito, né analizzato).
Molte sono inoltre le sequenze deboli del film come
quella dell’aggressione a Virgil in una notte
di pioggia che da il là alla “guarigione” di Claire poi “costretta” ad uscire
per chiedere soccorsi. In effetti la pioggia mi ha disturbato molto perché non
ho visto altri temporali nella Migliore
offerta e sembra incredibile che il tempo, così sbilanciato verso il sereno,
abbia deciso di aiutare il clan dei truffatori (Tornatore avrebbe potuto inserire
alcune inquadrature con un po’ di pioggia); ma lo scopo era probabilmente di dar vita a
una sequenza di grande impatto vetero-romantico ancora in grado di accattivare
la benevolenza dello spettatore. Altro momento debole la scelta di mostrarci un
grande esperto d’arte (non solo di quadri ma di oggetti di ogni tipo) allo
stesso tempo incapace di dare un valore a degli ingranaggi probabilmente
costruiti ex novo a imitazione di quelli veri. Un po’ riduttivo per uno che
“vede” le “v” dell’immaginaria Veliante negli occhi di un ritratto.