Trascurando volutamente tutti gli encomi al film per lo stile, le inquadrature, i movimenti di macchina, gli equilibri interni (ossia simmetrie di recitazione, simboliche, triangoli amorosi classici e triangoli amorosi tra eroi) questo film mi ha impressionato per molti altri motivi che sarebbe complicato riassumere in poco spazio. Come al solito ne elenco due che chiariscono la mia “condizione psichica” alterata da questa visione. Più che motivi, spiegazioni, sono esperienze emotive, sensazioni, tentativi in fieri di esprimere una condizione. Primo aspetto: demolizione delle aspettative diegetiche; secondo aspetto: formulazione del male come rifugio/fuga dall’effetto “Rinoceronte”.
Quando si guarda un film bisogna sempre fare i conti con la diegesi. Per Aumont la diegesi è “[…] la storia compresa come pseudo-mondo, come universo fittizio i cui elementi si accordano per formare una globalità . […] è la finzione nel momento in cui non soltanto prende corpo, ma in cui anche fa corpo. La sua accezione è dunque più ampia di quella di storia, che essa finisce per inglobare: essa è anche tutto ciò che la storia evoca o provoca per lo spettatore” (1). Aumont suggerisce anche di considerare la diegesi come storia presa nella dinamica della lettura del racconto, ossia in quanto essa si forma nella mente, nell’anima dello spettatore mentre il film scorre. Questo interessante concetto viene affrontato in modo particolareggiato da Chateau il quale afferma che la diegesi è una condizione di lettura che la lettura costruisce. «Leggere è verificare, ad ogni passo, che la diegesi è conservata e accettare, ad ogni passo, di farla crescere con la storia […]. L’atto intellettuale della lettura narrativa risiede essenzialmente in un processo di anticipazione e di retroazione correlative che, mentre ci spinge in avanti, ci riconduce verso il focolaio diegetico» (2). Pertanto quando vediamo un film non facciamo altro che verificare, mentre la pellicola scorre, i presupposti del film, rapportandoli alle nostre aspettative, alla nostra cultura, alle nostre emozioni. Quando un elemento “disturbante” del film impedisce di “aderire alla diegesi” cominciamo ad opporre una certa resistenza, a non rimanere coinvolti, come speravamo, dalla visione del film. La storia non ci interessa più, la noia prende il sopravvento e lo pseudo-mondo mostrato sullo schermo, diventa “estraneo” alle nostre aspettative “mentali”. Il Cavaliere Oscuro riesce a produrre un’attrazione-repulsione che, pur scardinando il mio pseudo-mondo diegetico “interiore”, non mi allontana dalla visione. In altri termini Nolan riesce a disattendere le mie aspettative senza allontanarmi dal piacere della visione. Un piacere-dispiacere, un amore-odio, un mondo bifronte s’insinua nel mio “corpus mediatico”, nelle mie speranze e pseudo-certezze, in un primo momento ampliando il mio consenso per via di certi presupposti (Bene contro Male), poi rovesciando totalmente questi stessi presupposti. Se Nolan avesse mostrato un Batman buono che sconfigge un Joker, non dico pentito, ma almeno “giustificato”, le mie aspettative, verificate sequenza dopo sequenza, sarebbero state appagate. Invece la rottura delle regole è avvenuta sovvertendo completamente un certo tipo di ordine mentale che, nonostante i mie sforzi, mi trascino appresso. In pratica Nolan non ha giustificato il Male ma ha mostrato la sua necessità. Il male esiste perché altrimenti il Bene non potrebbe esistere. Mentalmente non posso accettare questo assunto perché il film potrebbe mettere a nudo le mie vaghe certezze, scombinando il mio mondo costruito in anni e anni di educazione, studio e vita vissuta. Potrei accettare di de-costruire il mio vissuto solo per un film? Potrei andare contro la mia personale ricostruzione diegetica di questo pseudo-mondo? In questo senso il film mi parla, il Joker entra nella mia aspirazione, s’insinua nell’intervallo tra un battito di ciglia e l'altro in cui per una volta il male non è il Male ma solo una distorsione, una frattura all’interno dell’apparente ordine costituito. Il Bene insomma, definito per legge, formulato dal potere come bene comune, ripudia qualsiasi disturbo, isola il virus creandogli un “bozzolo iconico”. Il Joker è la maschera tragico-comica di questo tentativo dell’arte di mostrare il lato oscuro del Bene (Batman? I soldi di Wayne?). Bisogna imparare a vedere un claudicante travestito da infermiera che nella sofferenza “scuce” il tessuto perché il vestito non è stato fatto sul suo modello, perché rifiuta i luoghi comuni, le regole astratte di un potere indecifrabile. A questo proposito mi viene in mente una frase di Bataille : “Io penso che l’uomo si erga necessariamente contro se stesso e che egli non possa riconoscersi, non possa amarsi fino in fondo, se non è oggetto di una condanna” (3). Il Joker mi ricorda il bambino che è libero perché non condizionato dalle convenzioni a cui è sottoposto l’adulto. Le convenzioni producono divieti e la loro trasgressione crea i presupposti del Male, ma questi divieti, afferma Bataille, sono ambigui e l’uomo sente il bisogno di violarli perché solo in questo modo l’uomo può sentirsi realizzato. La letteratura (aggiungerei il Cinema) è l’espressione più “acuta e consapevole” di questa trasgressione. L’artista, lo scrittore, è consapevole della propria colpevolezza, perché la sua trasgressione alle regole è scelta autentica. Il Joker è un poeta, è l’artista che tenta di sovvertire l’ordine costituito distruggendo tutto quello che tocca. Bataille afferma “[…] La poesia, in un primo avvio, distrugge gli oggetti che afferra, li conduce con una specie di distruzione nell’inafferrabile fluidità dell’esistenza del poeta, e a questo prezzo spera di trovare l’identità del mondo con l’uomo”(4). E ancora: “C’è veramente, all’origine del destino del poeta, una certezza di unicità, di elezione, senza la quale l’impresa di ridurre il mondo a se stesso, o di perdersi nel mondo, non avrebbe il significato che ha” (5). Solo che l’unicità del Poeta-Joker si completa accogliendo la sua nemesi, un cavaliere oscuro che lotta a modo suo per disgregare un altro ordine (quello delle Mafia legata anch’essa in qualche modo all’ordine del potere costituito). Ambedue cercano nuovi equilibri ergendosi contro la linearità costituita del discorso-potere. Per farlo bisogna aderire completamente alla propria solitudine (il Joker “usa” i suoi complici, ma non crea alleanze, Batman vuole che siano gli altri a farle). Questo gioco a interrompere le mie aspettative, assemblandole in un altro livello narrativo, porta il mio sguardo giudicante (odio) dalla maschera tragica dell’uomo barcollante e “debole” allo stesso sviluppo del film, ossia al suo discorso. In altri termini: in un primo momento la verifica delle mie aspettative diegetiche formula un assenso e un desiderio di vedere, assistere, alla vendetta con conseguente cattura/morte del bandito-Joker (uomo potente e feroce), ma poi il film si sgretola, mostrando l’atto stesso della violenza, la sua forza dirompente e la sua solitudine. Rimanendo sospeso come atto narrativo, come esempio “classico” di aspettativa, il plot fugge dalla narrazione mostrando, scoprendo, il nervo dolorante del mio stesso isolamento. La narrazione (diegesi) mi ha trascinato nel gorgo dell’odio in nome di una vacua e invalidante superiorità semantica, quindi mi ha abbandonato nel mondo mostrando il discorso “mutante”, mutevole, della sua follia. Il Joker è il simbolo di questa follia, è il poeta che uccide un mondo per me. Mi viene in mente (discutendo del secondo aspetto) una bellissima commedia di Ionesco, Rhinocéros. La storia è ambientata in una tranquilla cittadina di provincia, in estate. D’improvviso fa la sua apparizione un rinoceronte, poi un secondo, infine molti rinoceronti. Gli abitanti del paese si trasformano a poco a poco tutti quanti in rinoceronti, escluso uno, Bèrenger: unico essere umano a non desiderare la sua trasformazione in rinoceronte, a ripudiare il conformismo e a non soccombere al fascino e alla magia di un’isteria collettiva che si nasconde sotto una falsa ragione e false idee (Ionesco con Il rinoceronte volle puntare il dito contro le ideologie totalitarie). Un solo uomo resiste, rimanendo uomo. Di seguito la parte finale della commedia. Le ultime battute del terzo atto poco prima che il sipario concluda la rappresentazione:
[…] Hèlas, jamais je ne deviendrai rhinocéros, jamais, jamais! Je ne peux plus changer. Je voudrais bien, je voudrais tellement, mais je ne peux pas. Je ne peux plus me voir. J’ai trop honte! Comme je suis laid! Malheur à celui qui veut conserver son originalité! Eh bien tant pis! Je me défendrai contre tout le monde! Ma carabine, ma carabine! Contre tout le monde, je me défendrai, contre tout le monde, je me défendrai! Je suis le dernier homme, je le resterai jusqu’au bout! Je ne capitule pas! (6)
Je suis le dernier homme. Un eroe solitario che lotta nonostante tutto e tutti o uno psicopatico che odia il mondo perché non appagato dalla sue aspettative diegetiche? Sicuramente dal punto di vista del rinoceronte Bèrenger rappresenta il male, almeno solo per la presunzione di non adattarsi a perdere la propria umanità. Questo dolore per un cinema troppo spesso “colluso” col suo spettatore porta il Joker verso la sua solitudine e Batman a trasformarsi in antieroe che si nasconde nell’ombra. Dopotutto il suo emblema è il pipistrello, da sempre animale temuto e icona del Vampiro. La grandezza di questo film è tutta nella capacità di disattendere le mie aspettative, contraddire le mie convinzioni, mettendo a nudo la mia ipocrisia. Adesso non posso più nascondere il mio vero io, adottato da convenzioni ipocrite e richieste illusorie di uno status impossibile (uomo d’onore?), perché il mio sguardo ha bruciato metà del volto trasformandomi in Due Facce.
(1) Jaques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie, Marc Fernet, Estetica del film, Lindau, Torino 1995 p. 79.
(2) Dominique Chateau, Diegesi ed enunciazione, in Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione. A cura di L. Cuccu e A. Sainati, Napoli-Roma, Edizioni Scientifiche Italiane 1987 pp. 142-143.
(3) Georges Bataille, La letteratura e il male, SE Milano, 1997 p. 37.
(4) Ibidem, p.41.
(5) p. 42. Queste frasi che ho citato sono rivolte all’analisi della poesia di Baudelaire.
(6) Eugène Ionesco, Rhinocéros, Società Editrice Internazionale, Torino, 1972, p.133.