Into the wild, nelle terre selvagge del cinema, negli spazi ineluttabili delle immagini, nei fotogrammi sospesi e nei costrutti analitici del correlativo oggettivo; nel tempo dissolto e ricomposto, nell’attimo morente, nei sogni lasciati, nel viaggio urbano di un autobus dov’è stato sufficiente cancellare il dintorno. Questi erano i miei pensieri appena uscito dalla sala. Dovevo riordinarli, lasciare che il film si svolgesse e si consumasse nella mia mente, non più esterno ma interno. Difficile esprimere un’opinione appena dopo una sola visione. Il film andrebbe rivisto per mirare meglio, per riorganizzare il discorso. Innanzitutto la narrazione è divisa, spezzettata, articolata e dipendente dalle immagini, la narrazione è una sincope o meglio, un correlativo oggettivo, così come determinato da Eliot e ripreso nelle poesie da Montale, una serie di eventi, situazioni, oggetti, costrutti, dispiaceri, desideri trasformati in qualcosa che va oltre la metafora. Infatti mentre la metafora è un metasemema prodotto dalla soppressione e aggiunzione di semi, ove siamo davanti a due significanti identici ma due significati diversi (1), il correlativo oggettivo è una forma simbolica che implica una “assenza” dell’io narrante e presuppone un processo di oggettivazione narrativo(2), trasformando i sentimenti in oggetti concreti. Le immagini risentono molto di questa presenza pregnante: gli oggetti (paesaggi “incontaminati”, artefatti umani, volti, sguardi, incontri) sostituiscono il lirismo dell’io narrante oggettivando l’io narrante tormentato e sofferente. In sintesi: il lirismo lascia il posto all’immagine. L’immagine da sola deve sopportare il peso della significazione. Ma in che modo si sviluppa questo percorso analitico e immaginifico? Sean Penn utilizza vari sistemi (non semplici da analizzare dopo una sola visione). Per sintetizzare ne prenderei in esame almeno tre: a) voce over/off; b) scriptum/post scriptum; c) campi/controcampi dimensionali.
A) La voce over di Carine McCandless (3) e quella off di Christopher feriscono le immagini, amplificano l’oggettualità (ciò con cui ho relazione), sottolineano la forza espressiva della visione. Una semantica dell’immaginario. Ma tutto questo si amplifica perché va ad imprimere il proprio sigillo sul tempo. Innanzi tutto il sapere si sprigiona attraverso la voce over di Carine che “racconta”, spiega il passato, ciò che è successo prima della laurea e dell’Alaska; alla voce off di Christopher invece il compito di sottolineare il viaggio, le letture, le citazioni, di aprire il mondo non come se visto da una finestra (o attraverso una finestra – cinema) ma come se fosse visto dentro la finestra. Carine, quale narratore extradiegetico (potrebbe essere addirittura un narratore onnisciente) in realtà non conosce le regole del presente, non conosce gli eventi, può solo definire il passato. Ampliando il discorso: il cinema può solo ricostruire e riciclare? Può invece semplicemente sognare? La storia vista attraverso gli occhi di Carine è coniugata al passato, è incompleta, possiede una conoscenza parziale dei fatti e sono fatti che possono solo informare. Ma corrispondono al vero? Christopher ha veramente vissuto e provato ciò che veniamo a sapere da Carine? L’altra voce è quella di Christopher, ci informa dei suoi desideri: libertà, silenzio, solitudine, felicità, letture, il richiamo della foresta, London, Tolstoj, Thoreau; una voce che ci trascina, ci lascia senza respiro, s’inerpica in alto, attraversa fiumi, osserva il cielo. Il sapere di questa voce off è meno prosastico, più poetico, ma corrisponde al vero? Forse no, perché nell’epilogo la voce si spegne, si addormenta, muore. Ma rimane il segno, rimangono il diario e le frasi scritte, colate dallo schermo, colate dai paesaggi, dalla luce, persino dal cielo ferito. In realtà sorge il dubbio che questa voce possa anch’essa essere over (appartiene veramente a Christopher? O è la voce di un’istanza assoluta, innominabile?).
B) Scriptum/Post scriptum. In realtà ritengo che questo aspetto sia come una terza voce (una voce scritta), ossia un altro narratore. Questa voce scritta sono le parole che gocciolano dallo schermo, si soffermano sul diario, si accatastano sui libri, anche quando devono definire l’arrivo ineluttabile della morte. I nomi delle cose (bisogna dare un nome alle cose) possono anche essere velenosi. Il cinema è un veleno che va preso a piccole dosi. Ma questa voce scritta non è univoca: le pagine sui libri, le didascalie che scorrono sulla tela dello schermo sono integrate e contraddette da una voce del post-scriptum (il diario di Christopher, le sue parole scritte sui libri, il suo viaggio intarsiato sul cuoio della cintura, ecc.) che non fa da contraltare agli scripta ma è anche integrazione (aggiunge dati) e integrità (forma un’unione di parole). Il post-scriptum rappresenta il bisogno di annullare persino la storia per affermare il lirismo dell’io (reso magnificamente tramite il correlativo oggettivo).
C) Campi e controcampi dimensionali. Anche le immagini si dividono, lo schermo potrebbe non contenerle (split screen?), si spezzettano, si velocizzano, rallentano, vanno a scatti. Le immagini sono simmetria: C1) esseri umani spesso in primo piano o addirittura primissimo piano, mentre nient’altro o poco altro riesce ad entrare nel quadro. Queste immagini mostrano i dettagli, il sudore, la sofferenza, gli sguardi, la falsità che solo una lente d’ingrandimento può scavare nei pori trovandovi una caterva di acari galleggianti. Sono immagini che inquietano: l’uomo è sull’orlo della catastrofe, sia che apra attività, si laurei, faccia cinture di cuoio, mieta il grano, si tuffi nelle rapide, parli danese o mangi una mela biologica come quella di Eva. C2) La natura, il mondo, i cieli sono in campo lunghissimo, gli insetti ad esempio appaiono solo per corrompere la carne, i vermi fluttuano nel rosso succo sotto il fogliame per corrompere la speranza (la carne macellata dell’alce). Per il resto campi lunghi, lunghissimi, vedute dall’alto, quasi cartine topografiche e vedute dell’alto, vedute del cielo. Un discorso particolare sui cieli nuvolosi o aperti, azzurri, azzurro grigio. Sono cieli impuri, feriti, cieli che neppure l’Alaska può salvare, cieli che ho conosciuto in Godard perché spesso solcati dalle scie abbandonate dagli aerei. Cieli feriti dall’uomo, ovunque: nelle terre selvagge (In the wild) e non nei cieli selvaggi. L’aereo (nato quasi insieme al cinema) contamina e ferisce il cielo (divide anche l’immagine di un cielo ed è uno split screen interno o una sutura che lega due porzioni di cielo), deprime la vista. Christopher vedrà cieli impuri. Due strutture, due punti di vista: il vicino e il distante;l’immensamente vicino (ma non tanto perché non si arriva a vedere il micron) e l’immensamente distante (ma non tanto perché non si arriva a vedere la distanza coperta dalla velocissima luce). Le immagini sono perturbanti, si scoprono e si coprono per fuggire. Cercano di non farsi prendere. Il cinema non può riprendere la purezza perché, nel momento stesso che una mdp lo fa, ha già violato la sacralità dei luoghi e il cielo ferito piange e allaga, l’acqua diventa neve o si scioglie ingigantendo i fiumi. Le rapide non sono un gioco ma un confine invalicabile. Quando si è giunti al termine del viaggio, quando l’autobus è al capolinea, si scende e viene voglia di tornare indietro e, non avendo superato confini lo facciamo mestamente. Torneremo a casa e racconteremo degli sguardi incrociati, silenziosi, e della debolezza dei sogni. Ma se dovessimo superare il confine non potremmo tornare più. Christopher supera un confine senza saperlo. Potevamo immaginarlo, ma chi l’avrebbe detto che un innocuo rigagnolo sarebbe diventato un fiume arrabbiato? Nessuna voce, nessun cielo, nessun luogo può cancellare il confine. Uscire dal fotogramma è vietato e Christopher, pur con i limiti e con gli errori e con l’incompetenza e l’ingenuità del neofita, non può trovare comprensione. Perché c’è un altro tipo di immagine: inquadrare la scrittura. Non è una novità, molti registi lo hanno fatto. Ma qui accade spesso: l’immagine della scrittura è un dettaglio, d’altronde per leggere bisogna mettere occhiali che ingrandiscano o usare una lente. Le parole, i nomi delle cose (4), vanno visti ingigantiti, ancora non si vedono gli acari ma ci manca poco. La scrittura definisce il mondo, limita il reale, innalza steccati, doma il cavallo selvaggio. Definire un paesaggio è già limitarlo. Rimane solo il silenzio. Ma il cinema è una scrittura che limita il suo paesaggio, limita perché sceglie ed effettua una selezione della realtà, prende il suo profilmico, eliminando e scartando tutto il resto. E dov’è allora il silenzio delle parole, degli sguardi, delle immagini. Into the wild? No. Non in to the wild, ma nell’atto stesso di provarci, sbagliando per mostrare i limiti intrinseci dell’uomo, ma anche della scrittura (in particolare del cinema). Into the wild è anche un film sulle terre selvagge del senso. L’Alaska è il senso che non può nutrire chi non ha fatto una scuola di macelleria, ma può farsi afferrare (anche se per pochi attimi) da chi proprio non ha fatto una scuola di macelleria.
A) La voce over di Carine McCandless (3) e quella off di Christopher feriscono le immagini, amplificano l’oggettualità (ciò con cui ho relazione), sottolineano la forza espressiva della visione. Una semantica dell’immaginario. Ma tutto questo si amplifica perché va ad imprimere il proprio sigillo sul tempo. Innanzi tutto il sapere si sprigiona attraverso la voce over di Carine che “racconta”, spiega il passato, ciò che è successo prima della laurea e dell’Alaska; alla voce off di Christopher invece il compito di sottolineare il viaggio, le letture, le citazioni, di aprire il mondo non come se visto da una finestra (o attraverso una finestra – cinema) ma come se fosse visto dentro la finestra. Carine, quale narratore extradiegetico (potrebbe essere addirittura un narratore onnisciente) in realtà non conosce le regole del presente, non conosce gli eventi, può solo definire il passato. Ampliando il discorso: il cinema può solo ricostruire e riciclare? Può invece semplicemente sognare? La storia vista attraverso gli occhi di Carine è coniugata al passato, è incompleta, possiede una conoscenza parziale dei fatti e sono fatti che possono solo informare. Ma corrispondono al vero? Christopher ha veramente vissuto e provato ciò che veniamo a sapere da Carine? L’altra voce è quella di Christopher, ci informa dei suoi desideri: libertà, silenzio, solitudine, felicità, letture, il richiamo della foresta, London, Tolstoj, Thoreau; una voce che ci trascina, ci lascia senza respiro, s’inerpica in alto, attraversa fiumi, osserva il cielo. Il sapere di questa voce off è meno prosastico, più poetico, ma corrisponde al vero? Forse no, perché nell’epilogo la voce si spegne, si addormenta, muore. Ma rimane il segno, rimangono il diario e le frasi scritte, colate dallo schermo, colate dai paesaggi, dalla luce, persino dal cielo ferito. In realtà sorge il dubbio che questa voce possa anch’essa essere over (appartiene veramente a Christopher? O è la voce di un’istanza assoluta, innominabile?).
B) Scriptum/Post scriptum. In realtà ritengo che questo aspetto sia come una terza voce (una voce scritta), ossia un altro narratore. Questa voce scritta sono le parole che gocciolano dallo schermo, si soffermano sul diario, si accatastano sui libri, anche quando devono definire l’arrivo ineluttabile della morte. I nomi delle cose (bisogna dare un nome alle cose) possono anche essere velenosi. Il cinema è un veleno che va preso a piccole dosi. Ma questa voce scritta non è univoca: le pagine sui libri, le didascalie che scorrono sulla tela dello schermo sono integrate e contraddette da una voce del post-scriptum (il diario di Christopher, le sue parole scritte sui libri, il suo viaggio intarsiato sul cuoio della cintura, ecc.) che non fa da contraltare agli scripta ma è anche integrazione (aggiunge dati) e integrità (forma un’unione di parole). Il post-scriptum rappresenta il bisogno di annullare persino la storia per affermare il lirismo dell’io (reso magnificamente tramite il correlativo oggettivo).
C) Campi e controcampi dimensionali. Anche le immagini si dividono, lo schermo potrebbe non contenerle (split screen?), si spezzettano, si velocizzano, rallentano, vanno a scatti. Le immagini sono simmetria: C1) esseri umani spesso in primo piano o addirittura primissimo piano, mentre nient’altro o poco altro riesce ad entrare nel quadro. Queste immagini mostrano i dettagli, il sudore, la sofferenza, gli sguardi, la falsità che solo una lente d’ingrandimento può scavare nei pori trovandovi una caterva di acari galleggianti. Sono immagini che inquietano: l’uomo è sull’orlo della catastrofe, sia che apra attività, si laurei, faccia cinture di cuoio, mieta il grano, si tuffi nelle rapide, parli danese o mangi una mela biologica come quella di Eva. C2) La natura, il mondo, i cieli sono in campo lunghissimo, gli insetti ad esempio appaiono solo per corrompere la carne, i vermi fluttuano nel rosso succo sotto il fogliame per corrompere la speranza (la carne macellata dell’alce). Per il resto campi lunghi, lunghissimi, vedute dall’alto, quasi cartine topografiche e vedute dell’alto, vedute del cielo. Un discorso particolare sui cieli nuvolosi o aperti, azzurri, azzurro grigio. Sono cieli impuri, feriti, cieli che neppure l’Alaska può salvare, cieli che ho conosciuto in Godard perché spesso solcati dalle scie abbandonate dagli aerei. Cieli feriti dall’uomo, ovunque: nelle terre selvagge (In the wild) e non nei cieli selvaggi. L’aereo (nato quasi insieme al cinema) contamina e ferisce il cielo (divide anche l’immagine di un cielo ed è uno split screen interno o una sutura che lega due porzioni di cielo), deprime la vista. Christopher vedrà cieli impuri. Due strutture, due punti di vista: il vicino e il distante;l’immensamente vicino (ma non tanto perché non si arriva a vedere il micron) e l’immensamente distante (ma non tanto perché non si arriva a vedere la distanza coperta dalla velocissima luce). Le immagini sono perturbanti, si scoprono e si coprono per fuggire. Cercano di non farsi prendere. Il cinema non può riprendere la purezza perché, nel momento stesso che una mdp lo fa, ha già violato la sacralità dei luoghi e il cielo ferito piange e allaga, l’acqua diventa neve o si scioglie ingigantendo i fiumi. Le rapide non sono un gioco ma un confine invalicabile. Quando si è giunti al termine del viaggio, quando l’autobus è al capolinea, si scende e viene voglia di tornare indietro e, non avendo superato confini lo facciamo mestamente. Torneremo a casa e racconteremo degli sguardi incrociati, silenziosi, e della debolezza dei sogni. Ma se dovessimo superare il confine non potremmo tornare più. Christopher supera un confine senza saperlo. Potevamo immaginarlo, ma chi l’avrebbe detto che un innocuo rigagnolo sarebbe diventato un fiume arrabbiato? Nessuna voce, nessun cielo, nessun luogo può cancellare il confine. Uscire dal fotogramma è vietato e Christopher, pur con i limiti e con gli errori e con l’incompetenza e l’ingenuità del neofita, non può trovare comprensione. Perché c’è un altro tipo di immagine: inquadrare la scrittura. Non è una novità, molti registi lo hanno fatto. Ma qui accade spesso: l’immagine della scrittura è un dettaglio, d’altronde per leggere bisogna mettere occhiali che ingrandiscano o usare una lente. Le parole, i nomi delle cose (4), vanno visti ingigantiti, ancora non si vedono gli acari ma ci manca poco. La scrittura definisce il mondo, limita il reale, innalza steccati, doma il cavallo selvaggio. Definire un paesaggio è già limitarlo. Rimane solo il silenzio. Ma il cinema è una scrittura che limita il suo paesaggio, limita perché sceglie ed effettua una selezione della realtà, prende il suo profilmico, eliminando e scartando tutto il resto. E dov’è allora il silenzio delle parole, degli sguardi, delle immagini. Into the wild? No. Non in to the wild, ma nell’atto stesso di provarci, sbagliando per mostrare i limiti intrinseci dell’uomo, ma anche della scrittura (in particolare del cinema). Into the wild è anche un film sulle terre selvagge del senso. L’Alaska è il senso che non può nutrire chi non ha fatto una scuola di macelleria, ma può farsi afferrare (anche se per pochi attimi) da chi proprio non ha fatto una scuola di macelleria.
(1)La metafora è una figura retorica prodotta dalla soppressione e aggiunta di semi. È grazie alla parte non comune che si manifesta l'originalità della figura. Per esempio, nella celebre affermazione di Pascal "l'uomo è una canna pensante" i sememi "uomo" e "canna" hanno in comune il sema della fragilità e non in comune il sema del pensiero. (http://www.bolognadue.it/angelorizzi)
(2) Nel correlativo oggettivo l'io empirico del poeta tende a scomparire dal testo, per lasciar posto a personaggi e oggetti, la cui natura costituisce un equivalente simbolico della condizione interiore del poeta, della sua concezione del mondo. Un esempio da una poesia di Eliot: “La nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri, / Il fumo giallo che strofina il suo muso contro i vetri / Lambì con la sua lingua gli angoli della sera, / Indugiò sulle pozze stagnanti negli scoli, / Lasciò che gli cadesse sulla schiena la fuliggine che cade dai camini, (Da Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock (1917), Thomas Stearns Eliot)
(3) La voce over di Carine McCandless è tale solo se ammettiamo che Carine è al di sopra della vicenda. Ma Carine appare nella diegesi all’inizio del film. Solo nell’incipit o nei flash-back peraltro commentati dalla stessa Carine. Questa voce narrante mostra pertanto tutta la sua ambiguità. Voce over (extradiegetica) o voce off (diegetica)? Concordo di considerare per la vicenda in corso la voce di Carine come extradiegetica e pertanto voce over, ma rimane il dubbio.
(4) “Si trattava di immagini false anche per un’altra ragione: perché erano, per forza di cose, molto semplificate; certamente, ciò a cui tendeva la mia immaginazione e che, nel presente, i miei sensi percepivano in forma incompleta e senza piacere, io l’avevo racchiuso nel rifugio dei nomi […] ma i nomi non sono molti capienti”. Marcel Proust, Dalla parte di Swan, Oscar Mondatori, 1987 p. 470.