Edgar Morin in un suo saggio di molti anni fa (1), ma sempre interessante e attuale, citando Sartre (2) afferma che l’immagine mentale è una struttura essenziale della coscienza, una funzione psicologica. “Non è possibile dissociarla dalla presenza del mondo nell’uomo, dalla presenza dell’uomo nel mondo. […] Ma nello stesso tempo l’immagine non è che un doppio, un riflesso, cioè un’assenza. […] L’immagine è una presenza vissuta e una assenza reale, una presenza-assenza” (3). Per Morin una rappresentazione oggettiva può dar luogo a una maggiorazione soggettiva poiché un medesimo movimento accrescerebbe “[…] il valore soggettivo e la verità oggettiva dell’immagine fino a una “oggettività-soggettività” estrema, o allucinazione . […] Questo movimento che valorizza l’immagine la spinge […] verso l’esterno e tende a darle corpo, rilievo, autonomia. È questo un aspetto particolare di un processo umano fondamentale: la proiezione o l’alienazione” (4). Morin continua il ragionamento affermando che “[…] nell’incontro allucinatorio della più grande soggettività e della più grande obiettività, nel luogo geometrico della più grande alienazione e del più grande bisogno, c’è il doppio, immagine-spettro dell’uomo” (5). Il doppio concentra tutti i bisogni individuali e soprattutto il “[…] suo bisogno più follemente soggettivo: l’immortalità”. Ovviamente il discorso di Morin è molto più complesso poiché nel suo libro affronta vari problema legati soprattutto alla fotografia e al cinema, pertanto mi scuso di utilizzare in maniera riduttiva alcune sue affermazioni che mi servono per delineare tre aspetti: 1) Vasumitra o l’implosione del doppio; 2) Samaria o de-proiezione virtuale; 3) Sonata o perdita della propria ombra.
(Attenzione spoiler!) Vasumitra è un falso. Jae-yong nel film dice che una prostituta di nome Vasumitra era in grado di convertire al buddismo coloro che avevano giaciuto con lei. Ma Vasumitra fu un patriarca del buddismo e non vi è nessuna traccia nei Canoni di una donna che si prostituisce per convertire gli uomini. Ma Vasumitra è anche una verità perché Jae-yong prostituendosi insegna la compassione agli uomini che incontra, insegna cioè la prima virtù morale del buddismo, ossia percepire dentro di sé la gioia e il dolore dell’altro. Vasumitra è il medium (con facoltà medianiche o mediatiche?) che definisce l’atto proiettivo dello spettatore. E’ un doppio in quanto “nostra” proiezione nel senso di trasposizione della nostra vita “reale” (identificazione con la vita della prostituta redentrice Jae-yong), ma è anche il doppio poiché ci troviamo di fronte non solo a una proiezione mentale (alienazione) ma anche ad una iper-identificazione (siamo nei panni di una ragazza che decide di “identificarsi” con l’altro, ossia in questo caso di percepire dentro di sé la gioia dell’altro). Potremmo definire Vasumitra come il riflesso del doppio? (E poiché per Morin nel riflesso si trova il doppio allora potremmo affermare che Vasumitra è il doppio del doppio?). Il tema del doppio in questo film si sviluppa non solo metaforicamente ma anche visivamente. Jae-yong in fondo é il doppio (o meglio solo un riflesso) di Yeo-jin: ci troviamo davanti ad uno yin e yang in fieri? In fondo le due ragazze sono contrapposte. Una si prostituisce, l’altra no (almeno nel tempo di Vasumitra), una sorride sempre e mostra gioia e soddisfazione nel donare felicità, l’altra è nervosa, vive con sofferenza e senso di colpa la sua “purezza”, Jae-yong si lava con gioia e gode del momento catartico, Yeo-jin lava l’amica per purificarla (“Ma è una cosa lurida. Che ne sai tu dove sono stati quei tipi” le dice). E come yin e yang, l’una non può esistere senza l’altra (quando ciò accadrà l’implosione sarà avvenuta). Ambedue le ragazze sono complementari, si sostengono a vicenda, si aiutano, l’una vive per l’altra, l’una non può vivere senza l’altra. Infine, una volta eclissatasi Vasumitra, Samaria prende il suo posto. Lo yin e lo yang si sono trasformati e i complementi hanno compiuto la loro metamorfosi. Vasumitra come proiezione di Samaria, come compassione si è esaurita. Non eravamo davanti alla nostra identificazione proiettiva perché la bambina-prostituta era il sogno di un’altra bambina. La Samaritana sorge per purificare il dolore. In fondo ci troviamo di fronte all’allegoria di un’immagine (“allegoria” nel senso di figura relativa suscettibile di discussione critica, “immagine” nel senso di Vasumitra come “simbolo” dell’immagine). Rischio di essere criptico. Intendo dire che Vasumitra non è il simbolo dell’immagine filmica (perché non lo è, non la rappresenta, non ne è un canone definito e rigoroso), ma l’allegoria (l’allegoria è legata al contesto ed è discutibile). Questa immagine in fondo è contestuale e opposta all’immagine di Samaria, altra contraddizione allegorica. Samaria, la Samaritana, non solo come riscoperta del perdono; infatti Yeo-jin ripercorre inversamente la strada di Vasumitra prostituendosi soprattutto per de-costruire l’intreccio perso con la morte dell’amica, restituendo i soldi guadagnati da Jae-yong e custoditi gelosamente da Yeo-jin. Ricucire lo strappo montando altre possibilità proiettive. Ma la Samaritana è soprattutto quella del Vangelo di Giovanni:. “Una samaritana venne ad attinger l’acqua. Gesù le disse: Dammi da bere”.(Gv 4,7). “Ma la donna samaritana gli disse: Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? Infatti i Giudei non hanno relazioni con i Samaritani”. (Gv 4,9). La donna si stupisce crede in Gesù. Samaria crede nella redenzione, nella possibilità di ricucire, di rimontare il vissuto. La sua proiezione adesso non è più nello sguardo rivolto verso Vasumitra, ma nella pace e nell’appagamento dell’io interiore. Tutto quello che era frutto del suo punto di vista (l’amica che la saluta dalla finestra dell’appartamento alcova, i soldi che le affidava, gli uomini-mostro che “osavano” rendere impura la sua visione) adesso è imploso in lei. Il suo sguardo non è più un punto di vista onnisciente e schematico, coerente e astratto (nel senso di astrazione di alcune linee spaziali come fulcri della rappresentazione e del successivo giudizio) ma imploso nel Dentro, nel suo “sacrificio” diventando esso stesso proiezione di un altro sguardo, quello altrettanto codificato e limitato di Yeong-ki, il padre poliziotto pronto a scrutarla e seguirla per vendicarla. Mentre la prima parte (circa un terzo del film) si sviluppa e si scioglie come alienazione della piccola Yeo-jin, la seconda (circa la stessa durata della prima parte) trascina Yeong-ki nella vendetta. Le due istanze attanziali però sono complementari e funzionali allo scioglimento della seconda parte. Mentre nell’episodio di Vasumitra erano yin e yang, qui non c’è più posto per gli opposti. Il padre non è immagine speculare della figlia ma degli altri clienti, Yeong-ki ama la figlia come padre ma anche come potenziale amante geloso. Le sue proiezioni sono misteriose e solo vagamente accennate. Le immagini si scuotono, diventano sempre più rappresentazioni di uno scacco. La proiezione si allenta, si svuota, si decompone in mille rivoli. Il pedinamento della figlia porta il padre a “conoscere” i clienti , a minacciarli, a malmenarli. Due le immagini che allentano l’identificazione: il primo piano del selciato prima della caduta del suicida che mostra soltanto, dopo la caduta, il rivolo di sangue che scorre nelle fenditure della pavimentazione; la lotta in una melma di sangue e urina tra Yeong-ki e un cliente ripresa in campo medio. La Sonata è un’auto, quell’auto che conduce fuori da Seoul padre e figlia, portandoli in fondo a un percorso, dentro il ricordo (la tomba della madre) e dentro l’acqua bassa di un fiume. La macchina rimane nel mondo con le ruote affondate nell’acqua, adagiate su un fondale ghiaioso. La proiezione mentale sta perdendo il suo spettro (i personaggi) e la certezza di un significato ulteriore, un’altra potentissima proiezione: il sogno di Samaria (o forse di Yeong-ki o forse di un’istanza astratta) che viene uccisa dal padre e sepolta lungo la sponda del fiume. Ma la sequenza onirica è anch’essa filmica non potendo che essere rappresentazione del sogno. Tra sogno e film vi sono molte analogie (dilatazione e contrazione del tempo, suddivisione dello spazio, ecc.), ma il sogno presenta degli errori, dei “passaggi” imperscrutabili, il sogno è preconfezionato e la sua sceneggiatura viene scritta solo al risveglio, non essendo possibile prevedere a priori la sua precisa rappresentazione. Questi errori sono ripresi da Kim Ki-duk nella Samaritana. In particolare un “errore” del sogno diventa un raccordo corretto nelle riprese oniriche ma “sbagliato” nella sequenza “reale” dell’epilogo. L’auto si trova nell’acqua del fiume e nel suo sogno Samaria esce dall’auto mettendo i piedi nell’acqua, mentre nel substrato filmico delle proiezioni mette i piedi sulla ghiaia. Come a dire: tutto questo è meno di un sogno perché è stato previsto. Infatti potrebbe essere una mia proiezione “sbagliata” o personalizzata, perché tra il risveglio di Yeo-jin e l’inquadratura dell’auto sulla ghiaia del letto fluviale c’è stata una ellissi. Insomma il cinema siamo noi.
(1) Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli UE, 1982.
(2) Jean Paul Sartre, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1968.
(3) Edgar Morin, Il cinema…, p. 41.
(4) Ivi, p. 42.
(5) p. 43.
(1) Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli UE, 1982.
(2) Jean Paul Sartre, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1968.
(3) Edgar Morin, Il cinema…, p. 41.
(4) Ivi, p. 42.
(5) p. 43.